Al di là del muro — II

Prima parte

Vicenza, 22 agosto 1974 – Palazzetto dello sport – ore 08.00. Sono schierato insieme agli altri. Un tappeto bianco che ricopre il parquet del campo da basket puntellato da teste con capelli più o meno corti. Piccoli urti di allineamento mi arrivano sia da destra che da sinistra. Ho compiuto undici anni da poco, e tutto quello che riesco a vedere sono le schiene bianche dei keidogi.

L’uniforme di allenamento (keiko «pratica» e gi «vestito», keikogi appunto) è pesante da indossare. Giacca a maniche lunghe, pantaloni che ricoprono la gamba fino alla caviglia. Per non parlare del tessuto. Cotone bianco, rigido. (Se niente niente ce l’avevi nuovo, magari di quella marca giapponese che ha il nome di una strada, il primo mese ti segnava il collo, manco avessi preso frustate. Ma non esiste una divisa da karate estiva? Tipo, non so, braghette e canottiera, belle leggere».Al giorno d’oggi l’idea è accettata, ma allora, sarei stato tacciato di eresia).

E così, eccoci qua. Il sole a piombo sull’impianto sportivo unito alla ressa dei praticanti aveva creato una cappa che premeva sulle spalle come un corpo morto. Aria condizionata? A quei tempi, fantascienza tanto quanto Star Trek. Per non parlare degli odori. Tutti a piedi nudi, una fabbrica di formaggio ci avrebbe fatto un baffo. Sono spaesato.

«Sono qui, Christian» la sua voce mi era giunta sopra il brusio generale. In un primo momento non ero riuscito capire da dove mi urlava. Papà era seduto in mezzo a centinaia di sedie di plastica rossa, vuote, sistemate sui gradoni in cemento grigio.

Che ci faceva lì? Perché non si era ancora cambiato? Lo avevo raggiunto:

«Ascolta bene quello che dicono i maestri, Christian».

«Tu non vieni, papà?» Mi aveva guardato, tardando a rispondermi.

«Questa volta, no…»

«Ah, e dove vai?»

«Starò sugli spalti ad aspettarti» Per la prima volta, in anni, mi lasciava da solo sul campo. Non capivo. Eppure adorava allenarsi. La mia faccia doveva essere stata un misto di disapprovazione e paura.

«Su, non fare così» – passandomi la mano sui capelli a spazzola –«Vai adesso, sono pronti per il saluto d’inizio». Senza altre discussioni – a che serviva – ero corso a cercare il mio gruppo.

Ma dove si sono cacciati? Quelle sono le verdi… là in fondo, le blu. Ah, eccoli, finalmente. Io ero con le marroni. Quelli che alla fine avrebbero dovuto… non ci volevo nemmeno pensare. Mi ero infilato tra due persone, come avevo sempre fatto. Andrà bene qui? Stavolta però, lui non c’era. Per un attimo la paura mi aveva preso al petto. Proprio non capisco, perché ha fatto così? Lo avevo cercato con gli occhi, ma il muro umano copriva ormai ogni cosa. Nel karate, avevamo fatto tutto insieme, sempre.

«Stai pure qua, ragazzo» mi fa l’adulto a fianco. Qui? Ok va bene. E chi si muove? Poi, come un’onda che si propaga, le schiene s’irrigidiscono. Gli ultimi brusii si spengono come candele. Silenzio. La cappa è ora un’incudine. So il perché.

«Eccolo che arriva…» è sempre lo stesso adulto. È poco più di un bisbiglio, ma non potrebbe essere più chiaro. Poi, improvvisa esplode. Sobbalzo. Pareva più un tuono che una voce.

«Ascoltatemi… Tutti seduti!» Fossimo stati addestrati solo per quel gesto, non sarebbe venuto meglio. Gli altri. Io ne approfitto, e la visuale mi si libera. Che impressione, siamo tantissimi. E riesco a vederli. Mi sento strattonare la manica. L’uomo a fianco mi tira giù. «E che cavolo, piano». Per fortuna, anche da seduto li vedo. «Ma che vuole questo?» e mi discosto un po’.

Lì in fondo, in piedi, nei loro keidogi un po’ usurati, cinture nere in vita, sono in quattro. Nella mia mente sono Capitan America e i Vendicatori.

Tre di loro sono colossali: Pietro Zaupa, Eraldo Tagliaferri e Bruno De Michelis. Quest’ultimo, il mio insegnante, sembra non entrare nemmeno nella divisa. Il quarto, Maurizio Marangoni è grande come loro ma più magro. Tuttavia, perfino da quella distanza lo intravedo: lo strano scintillio negli occhi. Negli anni avrei imparato a temere quella luce.

Poi, dall’apertura dove di solito entrano le squadre di basket, appare. Anche Capitan America e i Vendicatori lo vedono, e noto come s’irrigidiscono. Il Maestro ha una camminata sciolta. Pare a suo agio, sorridente e tranquillo nel suo keidogi nuovo di zecca. Quando li raggiunge, lo salutano con un inchino. Anche se ben piantato la differenza di fisico è netta. Uao! fa strano vedere quei colossi riconoscergli tanto. «Ma è veramente più forte di loro – avevo chiesto un giorno a papà – com’è possibile?» Mi aveva risposto con un sorriso. Anche se si tende a definire la forza di un karateka dall’efficacia fisica della sua tecnica, ero troppo piccolo per capire la reale e ben più profonda abilità del Maestro Shirai.

Dopo averlo presentato – a questo punto Shirai cosa poteva essere? Odino, il padre di Thor? – i miei pensieri sono catturati da Zaupa: «Non fate domande… di nessun tipo… impegnatevi, concentratevi e non pensate ad altro», e che altro dovremmo fare? Nel karate ho sempre avuto le idee molto chiare, e ciò mi è stato di grande aiuto nel corso degli anni. « … l’allenamento di karate non è soltanto una prova fisica…» aggiunge Bruno. Sono stupito. Ah, no?! E per ultimo, Marangoni: «… non ci aspettiamo che ce la facciate tutti…» Provo un moto di rabbia:Non esiste, non lo mancherò!

Iniziamo. Fin dalle prime battute l’allenamento si rivela un delirio. Quattro ore senza mai fermarsi, mattina e pomeriggio. E quando ci vedono ancora in piedi, s’inventano di tutto per stroncarci. Il peggiore di tutti è Bruno. Ogni dieci minuti circa ci distrugge con esercizi di ginnastica che rasentano la brutalità. La gente cade. Alcuni non riescono nemmeno più a rialzarsi. Qualcuno se ne va indignato. Vedo dagli sguardi la domanda se non abbia ragione quello ad andarsene. Io non voglio mollare, anche se … «Non pensare!» Pugni, calci, calci, pugni. Mi giro spesso verso gli spalti.

Lui mi osserva. In silenzio. Oggi, a distanza di tanti anni so che dev’essersi domandato mille volte fino a che punto era giusto lasciarmi spingere. Non c’era nessuna distinzione né di sesso né di età. Chi resisteva continuava, gli altri potevano pure accomodarsi.

Con l’andare dei giorni e degli allenamenti rimanevamo sempre in meno. … non ce la faccio più… tanto, la strada per gli spogliatoi era sgombra. Poi lo guardavo, seduto, gomiti sulle ginocchia e le mani chiuse a pugno davanti alla bocca, a fissarmi. E allora continuavo.

Fine dello stage, ultima ora. Ci guardiamo, ultimi sopravvissuti. Quello che era partito come un tappeto umano si è trasformato in uno zerbino piccolo, brutto e sporco.

Ci era stato imposto di prendere una posizione sul parquet e di mantenerla, senza mai cambiarla. Il muro non esiste più. L’uomo al mio fianco ha smesso al secondo giorno, durante il terzo allenamento, zoppicando. Una suola di vesciche di sangue sotto i piedi. Tagliaferri si gira a guardarmi. Sbarra gli occhi. Che avrà! Lo vedo poi chiamare Bruno, e anche gli altri. Mi indica. I quattro si girano verso gli spalti.

Per la prima volta, dopo tre giorni lo vedo raddrizzarsi e togliere quei pugni dalla bocca. Lo chiamano. Mio padre scende. Non accennano ad alcun gesto, ma vedo mio padre ringraziarli. Tornando su si volta verso di me. I suoi occhi luccicano. Speriamo bene. Lui continua a fissarmi e poi, d’improvviso, il volto gli s’illumina di un sorriso. La prendo per buona, e abbozzo. Ma chi ce la fa più. È finita, almeno per ora. Zaupa, il torturatore – così l’avevano soprannominato – si rivolge a noi, quasi con noncuranza: «Ora cominciano gli esami di cintura nera» – ci siamo – «Chi si è iscritto dovrà portarsi nella saletta interna, al piano superiore.» Poi, nel silenzio generale:

«Non è finito niente…»

Il maestro Hiroshi Shirai con alcuni giovani karateka (2009…

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