Angelo, la vita xe un bidòn

Questa battuta era diventata il suo manifesto

È vergognosamente passato sotto silenzio in tutta Italia, tranne che nella sua città natale, il cinquantenario della scomparsa dell’irriverente Angelo Cecchelin (Trieste 1894 — Torino 1964), uno dei più grandi comici a cavallo tra le due guerre, perseguitato e incarcerato dal fascismo, che godette di un’enorme popolarità nei teatri di varietà di tutta la penisola. Una carriera lunga e tumultuosa, e poi un mesto declino. La sua arte ispirò il comico Paolo Rossi che in un libro ormai introvabile gli ha reso il doveroso omaggio.

TRIESTE – È un vero peccato che, lontano da Trieste, non si sia ricordato nessuno del cinquantenario della scomparsa dell’irriverente Angelo Cecchelin (Trieste 1894, Torino 1964), uno dei più grandi comici a cavallo tra le due guerre, che godette di un’enorme popolarità nei teatri di varietà di tutta Italia.

La sua città lo ha celebrato con un gustoso spettacolo, Trieste mia, messo in scena dal bravo attore e regista Alessio Colautti con la Compagnia de L’Armonia e l’orchestra Auditorium diretta da Livio Cecchelin, una rivista comica-musical-satirica in due parti e cinque quadri, realizzata con la consulenza storica di un altro Cecchelin, Guido, e che ricalca la fortunata Triestinissima messa in scena nel 1946, che fu l’unico lavoro in dialetto triestino a girare in tournée per tutta l’Italia.

È un vero peccato perché sono in pochi, anche a Trieste ormai, a ricordare la figura di Angelo Cecchelin. La sua arte. La sua bravura. Il suo umorismo corrosivo e iconoclasta. E le sue feroci battute. Come quella, forse la più celebre, che diventò il suo indiscutibile manifesto: «La vita xe un bidòn».

Per fortuna ci sono ancora i libri. In uno, gustosissimo e ormai introvabile, scritto dal critico Roberto Duiz e dall’attore Renato Sarti, e intitolato appunto La vita xe un bidòn (Baldini & Castoldi, 1995), è il comico Paolo Rossi, che firma la prefazione, e che è nato a Monfalcone, a spiegare chi era Cecchelin: «Mia zia aveva una ricca collezione di dischi anni Cinquanta. Rock’n’roll soprattutto, ma quelli che più andavo a cercare, frugando nella montagna di vinile, nei pomeriggi di pioggia, quando non si andava al mare né a giocare a pallone, erano due dischi che con il rock’n’roll non c’entravano per niente. Erano raffiche di barzellette di Angelo Cecchelin, inframmezzate da refrain musicali, ariette molto orecchiabili. Roba un po’ piccante per quell’epoca, storielle un po’ grassocce dove vecchi laidi venivano stroncati da infarti con diciottenni, o in cui facoltosi impotenti andavano a letto con pigiami di seta giapponese e una penna stilografica nel taschino, perché così…”Se no vegno scrivo”».

La vita e la carriera di Cecchelin, triestino del popolare quartiere di Cittavecchia, raccontano Duiz e Sarti, furono lunghe e tumultuose. Linguazza, come lo chiamavano, «colpisce i potenti di turno con sarcasmo bruciante come una frustata, con vitalità che niente spegne o riduce, con ironia ignara di ogni riverenza e timore». La sua carriera si dispiega tra la Trieste asburgica e quella che, dopo la prima guerra mondiale, diventa italiana. Prosegue durante il ventennio fascista quando, primattore e capo comico di compagnie teatrali come la Triestinissima salutate da un grande successo in tutta Italia, conosce gli applausi del pubblico e l’ostilità del regime.

La censura fascista saluta le comparse in scena di Cecchelin con ottantasei diffide, tre arresti, due processi, tre anni di vigilanza speciale, tre sospensioni dell’attività delle sue compagnie. Ma lui non si dà per vinto. E si fa beffe del regime mettendo in scena PNF, che non significa, come vorrebbe la dottrina ufficiale, Partito Nazionale Fascista, ma bensì Povero Nostro Franz: una sorta di omaggio ai tempi passati, e a una rispettosa convivenza, a dispetto di ogni nazionalismo. In un altro libro introvabile, Il Teatro di Angelo Cecchelin, scritto da Livio Grassi con la prefazione di Tullio Kezich (Edizioni Lint Trieste, 1975), è raccolto un florilegio dei suoi testi teatrali più divertenti.

Arriva la guerra, e per Cecchelin l’ennesima condanna per offese al Duce. I giornali di regime commentano: «Il teatro di prosa si è liberato di un figlio degenere, la musica si è purificata di una nota fessa, l’umorismo si è sgravato di un feto». A guerra finita, non finiscono però i guai per Cecchelin: un nuovo arresto, per presunte vendette orchestrate dopo la Liberazione contro un suo persecutore fascista, costa nel 1947 a Cecchelin due anni di carcere pieno.

Gli anni successivi lo vedono sempre più lontano dalla sua città e sempre più ignorato dal mondo dello spettacolo. Il mondo del cinema e quello della televisione non sono fatti, scrivono Duiz e Sarti, per un artista «che aveva fatto dell’improvvisazione e del rifiuto di ogni conformismo la sua indomabile ragione di vita, la sua inesauribile e briosa risorsa per ridere. E far ridere».

Purtroppo l’Italia si è dimenticata di questo scoppiettante artista. Il suo cinquantenario poteva essere l’occasione giusta per riscoprirlo, ma soprattutto per farlo conoscere. Peccato. Del resto, Angelo, la vita xe un bidòn…

Angelo Cecchelin: La Vita xe tuto un bidon — Trieste 1930
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Angelo Cecchelin: Politica in famiglia
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