Belìn Belén

Belìn Belén, come direbbero a Genova, datti una calmata. E abbassa un pochino la cresta, benedetta ragassa, come la chiamerebbero le nostre nonne. Alle quali sarebbe simpatica. Come è simpatica a noi. Per quel suo musetto. Per quella sua finta aria da ingenuotta. Perché è proprio ‘nu babbà. Per questo le si perdona tutto, o quasi. Per esempio, di non saper far nulla, o quasi. Di non saper cantare, ballare, suonare, recitare, far di computo, che so.

Per questo non si riesce proprio a perdonarla quando si lascia andare a fare la divetta permalosa che si arrabbia con i fotografi solo perché viene fotografata. Che poi è il motivo – l’unico – del suo successo. È successo – appunto – a Milano, in tribunale, dove la divetta – golfino nero con lustrini, jeans attillatissimi, capelli raccolti, truccatissima come sul set – doveva testimoniare a un bizzarro processo intentato da alcune rivistine di pettegolezzi a una trasmissioncina televisiva di scherzetti non sempre garbati.

Ad attenderla c’erano, ovviamente, dei paparazzi (neanche tanti, in verità, si vede che la divetta fa sempre meno notizia). Fotografi e cineoperatori, armati, com’è logico, dei loro ferri del mestiere, macchine fotografiche e telecamere. Difatti erano lì per lavorare. Non avessero dovuto lavorare sarebbero andati altrove. Ma alla divetta proprio non vanno giù. No, no, no, frigna, impaurita, quasi sull’orlo di una crisi di nervi, quando li vede. Come se si fosse imbattuta in un branco di iene assetate di sangue.

Non sembra francamente un assedio insopportabile, almeno a vedere le immagini su Repubblica.it. Ma alla divetta, che attende nervosa di entrare davanti alla porta chiusa dell’aula C della quarta sezione penale, deve sembrare un autentico massacro. Difatti brontola, grida, sbotta, sbuffa, implora, fifotta, manca poco che si metta a piangere, manda a quel paese. No, no, no. Dai ragazzi, lasciatemi stare. Basta. Smettetela. Mi mettete l’ansia. Non c’è niente da vedere. Non c’è alcuno scoop. Basta. Sempre con queste telecamere addosso. No, la telecamera in faccia, no. (E allora dove, bellezza?).

Mette davvero tristezza questo tramonto nervoso della bizzosa divetta. Anche perché forse la divetta non pensa che una come lei, che non sa fare niente, deve tutto proprio ai fotografi e ai cineoperatori. Perché l’immagine è l’unica cosa che ha. È quella che l’ha resa celebre. È grazie ai fotografi e ai cineoperatori se negli ultimi anni l’abbiamo vista in tutte le salse su tutti i giornali e su tutti gli schermi. Se conosciamo ogni tatuaggio, ogni farfallina, ogni curva, ogni angolo e ogni fessura del suo delizioso corpicino.

Senza contare che proprio lei ha trascorso anni insieme al più fastidioso, insolente, prepotente e briccone dei fotoreporter d’assalto (e qualcos’altro), come quel birbantello di Fabrizio Corona.

Belìn Belén, se ci avesse pensato un attimo, ma solo per un attimo, invece di insultarli avrebbe dovuto ringraziarli quei fotografi e quei cineoperatori. E baciarli tutti, uno per uno.

María Belén Rodríguez Cozzani, in arte Belén Rodríguez.

Belìn Belén