Con la regina di Saba
sulla via dell’incenso

«Il mio folle temerario giro del mondo», VI puntata

Si conclude con questa puntata la demenziale crociera intorno al mondo del medico-scrittore pluripremiato Giorgio Bertolizio (ultimo riconoscimento il prestigioso Premio Nabokov) con la complicità della leggiadra stilista Vera Storani. Indagando con acutezza e ironia sul passaggio tra mito e realtà sulle orme di Giulio Verne e sull’esempio del «Giornale di viaggio» di Michel de Montaigne, l’autore racconta il suo peregrinare città dopo città, Paese dopo Paese, con esiti ora esilaranti e ora deprimenti. Ne vien fuori un originale e sgangherato diario di bordo. Volendo, potrete rileggere le puntate precedenti richiamandole con il loro titolo dal nostro archivio elettronico: «Il mio folle temerario giro del mondo», «Dagli incubi di Gaudì ai fantasmi del corsaro», «Aspettando i cannibali tra i fiori di cactus», «Fra danze maori e rivolte del rum», «Sulle tracce di Kipling nell’India misteriosa».

DUBAI, 1-2 APRILE

La cosiddetta ‘Città dei Mercanti’ vanta il Burj Khalifa che, con i suoi 828 metri, è il grattacielo più alto del mondo, momentaneamente. Se i monumenti avessero anima e volto, m’immaginerei lo sguardo ironico del Partenone, con i suoi venticinque secoli sulle spalle, giacché le riserve petrolifere dell’emirato sono agli sgoccioli e il danaroso turismo cafone, sul quale Dubai ha puntato e punta, è volubile essendo sempre in cerca di nuovi stimoli, ossia di nuovi specchietti per le allodole. Difatti, non ci vuol molto a capire che Dubai, senza patrimoni artistici, archeologici e culturali, con l’hotel Burj al Arab che vanta sette stelle e offre suite da 15 mila euro per notte, prima colazione inclusa, è il paradiso dei superricchi che dilapidano patrimoni alle corse dei dromedari, lasciando che gli altri esseri umani si accontentino dei cammellini di peluche. Da questa premessa si capisce che non mi sono recato a cena al Burj al Arab, che si staglia all’orizzonte come una vela.

Non sono salito nemmeno al 124° piano del Burj Khalifa per ammirare un panorama che non mi avrebbe mozzato il fiato, come invece mi è capitato quando, più di mezzo secolo fa, per la prima volta mi sono inerpicato sull’Acropoli di Atene. Insomma, avrei visto dall’alto quello che non mi era piaciuto dal basso appena sbarcato a Port Rashid. Dopo aver percorso la superstrada a quattordici corsie, che collega il porto al centro di Dubai, invece, mi sono parzialmente ricreduto. Dubai, il cui nome significherebbe ‘piccola lucertola’, sembra un dinosauro, spiattellato sul litorale del Golfo Persico, la cui colonna vertebrale è costituita da una fila di grattacieli (Burj al-Arab, Burj Kalifa, Emirates Office Tower, Millennium Tower, Ocean Heights, Princess Tower, Rose Tower, Marina Torch e altri) che lasciano tutti a bocca aperta, compresi i non amanti dell’architettura moderna.

M’immagino che tra Dubai e Abu Dhabi infuri la ‘guerra dei grattacieli’, una gara edilizia per edificare quelli più alti e strani. In Italia, una battaglia simile è cessata da secoli a San Gimignano. Sennonché, le quattordici torri superstiti, le quindici chiese e i sedici palazzi della cittadina toscana, offensivamente soprannominata ‘la Manhattan del Medioevo’, stanno agli edifici di Dubai come brillanti di fronte a fondi di bottiglia. Parlare del suo Museo Civico e delle architetture militari, sarebbe una crudele perfidia. Il simbolo che meglio rappresenta l’incredibile città è, perciò, l’immenso Dubai Mall, stupefacente anche per chi, come me, odia i centri commerciali. Non si può rimanere impassibili, infatti, di fronte a oltre duemila negozi che offrono di tutto, a un complesso indoor con pista da sci e seggiovia per la risalita ma soprattutto all’Aquarium & Underwater Zoo, con circa tremila specie di pesci (almeno così dicono, tanto nessuno li conta), dalle razze agli squali tigre, nel quale si può entrare, nel vero significato del termine, con muta, pinne, maschera e bombole. Sicché, la Grande Moschea Jumeirah, che rispetto a quelle di Abu Dhabi e Muscat sembra una chiesa parrocchiale, passa in secondo piano. Forse non sarà per questo motivo ma, guarda caso, ne è vietato l’accesso ai non musulmani.

In breve, nel Dubai Mall, mi è sembrato di essere un contadino che, per la prima volta, assisteva alla fiera del paese, oppure un emigrante sbarcato a New York cent’anni fa. Sicché, ho superato tale mortificazione affondando il naso in una grande scatola di datteri ripieni di noci, nocciole, mandorle tostate o fettine di limone candito. Non sono riuscito, però, a scacciare il pensiero che le mie figlie entrerebbero in questo luogo di perdizione munite di tenda e sacco a pelo. Al calar delle tenebre, tuttavia, il dinosauro sprofonda nel sonno e, mentre gli unici edifici pubblici illuminati a giorno sono i minareti, prende vita il Creek, un canale lungo dodici chilometri che attraversa la città, solcato da battelli (dhow) contornati da lampadine multicolori, sui quali si cena e le bevande esclusivamente analcoliche scorrono a fiumi. In conclusione, a chi non trova deprimente pasteggiare con aranciata o acqua minerale, Dubai sembra una città felice e ricca. Certamente felici sono i suoi nativi, il cui vocabolario non contempla la parola ‘tasse’, e la ricchezza si manifesta anche in uno scampolo di deserto per turisti pieno di cespugli verdi, forse regolarmente estirpati per mantenere autentico il paesaggio, e con alcuni dromedari addestrati a mettersi sorridenti in posa. Dopo un’ora di ripide salite e discese tra le dune del ‘deserto’, su un potente fuoristrada, siamo giunti in un accampamento di ‘nomadi’ dotato di corrente elettrica. Terminata l’avventura, un taxi ci ha riportato in un quarto d’ora a bordo.

MUSCAT, 3 APRILE

Il Sultanato dell’Oman conobbe il suo massimo splendore nel XIX secolo, quale fiorente mercato di armi, cui seguì un lento declino. Giacché i fabbricanti di armi, anche oggi, non se la passano male, evidentemente l’Oman non riuscì a modernizzarsi nel settore. L’elegante pugnale ricurvo ( janbiya o khanjar), ideato per non infilzarsi le cosce nel momento di accucciarsi sotto le tende, non poteva ovviamente competere con il fucile mitragliatore. Quasi a voler estraniarsi da un mondo che cambiava troppo rapidamente, inoltre, fino al 1970, a Muscat — nome sulla cui origine gli esperti sono discordi, perché lo collegano alle pustole oppure alle ancore — i portoni d’ingresso dei vari quartieri della città venivano chiusi al calar delle tenebre e iniziava una sorta di coprifuoco.

Il Mina Qaboos Port, a Muscat, è collocato in una splendida baia deturpata dal porto medesimo, che ospita montagne di container capaci di celare il circostante paesaggio rupestre. Muscat, peraltro, è una città di edifici bianchi, salvo qualche costruzione color sabbia e con nemmeno un grattacielo, dall’apparenza straordinariamente linda. Curiosità assoluta in merito, è la disposizione del codice stradale che impone agli automobilisti di circolare con autovetture esternamente pulite, pena una consistente multa e l’obbligo di provvedere immediatamente al loro lavaggio. A Muscat, ci sarebbero da vedere l’Al-Jalali Fort e l’Al-Mirani Fort, due fortilizi risalenti alla metà del XVI secolo, che sembrano far da sentinella ai lati dell’attuale Palazzo del Sultano (Al-Alam), che domina una piccola baia. Ma, poiché sono utilizzati l’uno come carcere e l’altro come sede della polizia, non sono accessibili al pubblico. Forse non spetta loro una sorte migliore, quale ricordo di un periodo piuttosto infelice cominciato, nel giugno del 1507, con la conquista della città da parte del portoghese Alfonso de Albuquerque, detto il Terribile, che la tolse ai persiani e la saccheggiò facendo strage di uomini, donne e bambini.

Insomma, giacché anche il Palazzo del Sultano ovviamente non è aperto al pubblico, l’unico edificio davvero meritevole d’essere visitato è la Grande Moschea Sultan Qaboos bin Said, attuale regnante, davvero sontuosa ma che sembra la parente povera della Moschea Shaykh Zayed bin Sultan al Nahayan di Abu Dhabi. Infatti, il tappeto persiano che ricopre il pavimento della sala principale misura soltanto 4.200 metri quadrati e pesa appena 21 tonnellate, mentre il candelabro centrale ha il modesto diametro di otto metri. Nondimeno ho contemplato una novità, almeno per me, assoluta. Giacché il tempio è diviso in due parti, una riservata agli uomini e l’altra alle donne, nella seconda sono stati installati due schermi televisivi per trasmettere le prediche dell’Imam in diretta. Una religione, che non ammette immagini sacre dentro le proprie chiese ma consente quelle televisive, induce a meditare.

Il suk di Muscat è abbastanza invogliante e i bottegai sono abilissimi venditori, come la maggior parte degli orientali. Taluni, addirittura, si comportano da prestigiatori: i tre flaconi di profumo acquistati, ritornati a bordo, sono diventati due e i pesanti bracciali da caviglia in lucidissimo argento, passando dalla vetrina al bancone di vendita, avevano assunto leggerezza e opacità talmente sconfortanti che li ho lasciati, senza rammarico, al loro posto. Sicché, la diffidenza mi ha allontanato anche dagli oggetti di scavo, in apparenza autentici. Infine, non richiede molto tempo una visita del museo Bait al-Zubair che, soprattutto, espone pezzi pregiati, in oro e argento, di gioielleria omanita senza, però, nemmeno una data o un opuscolo che accresca la cultura dei turisti, ammesso che la popolazione locale, sull’argomento, abbia un’idea magari vaga.

SALALAH, 5 APRILE

Salalah vanta le rovine di un palazzo che sarebbe appartenuto alla regina di Saba e i resti della tomba del profeta Giobbe, in arabo Nabi Ayoub. La regina di Saba, menzionata nella Bibbia, nel Corano e nel Kebra Nagast, era ricchissima, tanto che secondo la leggenda ebraica avrebbe donato a Salomone, re d’Israele, quasi cinque tonnellate d’oro, mentre secondo la leggenda etiopica gli avrebbe regalato addirittura un figlio. Salomonica spartizione dei propri immensi averi e delle proprie conturbanti grazie. Non si comprende, perciò, per quale ragione la regina etiope, ammesso che sia mai esistita, avrebbe dovuto sciupare tempo e denaro in Arabia. Invece, il patriarca idumeo, ossia discendente da Esaù, dopo le tante sofferenze inflittegli dalla bontà divina — perdita dei beni, morte dei figli e varie malattie — potrebbe anche essere davvero morto in tanta malora.

Poiché da ben 8.000 anni, lungo i corsi d’acqua della zona, crescono spontaneamente gli alberi di Boswellia sacra, mi aspettavo d’essere avvolto, arrivando nella ‘Capitale araba del profumo’, in una nuvola d’incenso. Il porto di Salalah, invece, che rispetto alla città è collocato tra le natiche di Giove, offre il deprimente panorama di svettanti gru, container, navi cisterna e quattro palme striminzite sulle aride basse colline circostanti. Se non fosse per gli uomini con il loro camicione bianco, in attesa sulla banchina, nessuno capirebbe d’aver messo piede in Arabia. Ho intuito subito, insomma, che Salalah ha smesso di essere una meta ambita sulla ‘via dell’incenso’, forse perché la oleo-resina profumata è meno preziosa rispetto ai tempi antichi, sperando di assumerla sulla via del turismo di massa. In effetti, Salalah dovrebbe essere una sorta di Mecca per i turisti, resi bronchitici dall’aria condizionata, in virtù degli effetti espettoranti, antinfiammatori e antisettici dell’incenso. In attesa delle orde di tossicolosi, si è sviluppata invece l’edificante industria della lavorazione del cemento.

Salalah, a prima vista, è una città dall’edilizia mediocre, con mediocri moschee, un suk mediocre e il mediocre Palazzo Al-Husn, residenza estiva dell’attuale sultano, che potrebbe degnamente ospitare gli uffici del catasto. A uno sguardo più approfondito, invece, l’impressione non migliora. Perfino il parco Al-Baleed, pomposamente definito archeologico, non è emozionante, anche se il suo non enorme Museo (Museum of the Frankicense Land), nel settore marittimo e in quello storico, ospita reperti di un certo interesse. Con mia grande sorpresa, però, almeno una più che decente pubblicazione al riguardo, scritta in arabo e inglese, l’ho trovata. Confesso, tuttavia, di non aver avuto il desiderio di percorrere una quarantina di chilometri per vedere la tomba del paziente profeta Giobbe, oppure per raggiungere il sito archeologico di Sumhuram, nei pressi di Khor Rori, dove dovrebbero fervere i lavori per ristrutturare il Palazzo della regina di Saba, senza alcuna garanzia che i sopralluoghi avrebbero ripagato la fatica.

Infine, non ho accarezzato nemmeno lontanamente l’idea di recarmi a visitare la tomba del profeta Saleh, distante circa 170 chilometri da Salaleh. Mi sono limitato, con devoto scetticismo, a fotografare le impronte della sua sacra cammella, impresse nella roccia, custodite in un piccolo edificio che, a prima vista, avevo scambiato per la stazione di un’inesistente metropolitana. Però, mentre mia moglie si faceva infinocchiare da un venditore di pashmina falsa, mi sono sentito in dovere, di acquistare alcuni pacchetti di granuli d’incenso che, seguendo il consiglio del negoziante, ho provato a succhiare. Più che un espettorante, mi è parso d’aver ingoiato un emetico e, per superare la nausea, ho acceso immediatamente un sigaro.

PETRA, 10 APRILE

Giungere nel porto commerciale di Aqaba, nell’omonimo golfo sul quale si affacciano quattro nazioni (Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Israele) e due continenti, pieno di container, non è il massimo delle visioni per chi ha in mente la straordinaria conquista della città, durante la Prima guerra mondiale, da parte delle milizie arabe guidate da Thomas Edward Lawrence, noto come Lawrence d’Arabia. Un luogo ritenuto il sito biblico di Etsion-Gheber, dal quale partiva la flotta del re Salomone verso la leggendaria Ophir, per caricare oro, argento, pietre preziose, avorio, scimmie e pavoni. Un luogo, altresì, cui fu conferito il nome di Berenice, in onore di Berenice Ia, terza moglie del faraone Tolomeo I, probabile fratellastro di Alessandro Magno. Un luogo che, sotto la dominazione di Roma, iniziata nel 106, divenne la prosperosa Ayla con il porto più trafficato di tutto il Mar Rosso e dove, secoli dopo, avrebbe messo piede Sinbad il Marinaio. Un luogo, insomma, che meriterebbe qualcosa di meglio stando a questi ricordi. Insomma, giacché l’attraversamento di Aqaba mi ha schifato quanto quello della mitica Casablanca, città assolutamente squallida, ho concluso che la città ha proprio il porto che si merita.

Il tragitto tra Aqaba e Petra mi ha permesso di costatare che il territorio della Giordania è occupato dal deserto per l’80%. S’incontrano minuscoli villaggi, creati per invogliare i nomadi a risiedervi, talmente deprimenti che, comprensibilmente, i beduini continuano a preferire le tende. Le pochissime greggi di pecore pare abbiano imparato a brucare la sabbia, mentre sul tetto di tutte le case svettano cisterne per raccogliere l’acqua proveniente, non dal cielo, ma dalle autobotti comu-nali. Le circostanti montagne, simili a quelle di carta-roccia collocate nei presepi, conferiscono al paesaggio un aspetto lunare. Petra, da quando l’intraprendente esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, pur avendola vista soltanto di sfuggita travestito da mercante arabo, diede notizia della sua esistenza nel 1812, è diventata un mito. Ma lo era sin dai tempi biblici. Mosè, infatti, fuggito dall’Egitto, durante la ricerca della Terra promessa, si sarebbe fermato a Petra dove, percuotendo una roccia con il proprio bastone, avrebbe fatto scaturire una sorgente d’acqua. La permanenza di Mosè nella località non sarebbe stata breve, giacché nei dintorni di Petra, sul cucuzzolo di una montagna, è venerata la tomba di Aronne fratello del profeta. Eppure, gli Edomiti o Idumei avrebbero ostacolato la sua sosta, o impedito il suo passaggio, essendo discendenti di Esaù che, per un piatto di lenticchie, aveva venduto la primogenitura al fratello Giacobbe, bisnonno di Mosè. Infatti, Amram madre di Mosè era figlia di Levi terzogenito di Giacobbe. Insomma, agli Edomiti i biblici legumi sarebbero rimasti nella strozza.

Tuttavia, le prime tracce documentate di un insediamento edomita, a Petra, risalirebbero alla fine dell’VIII secolo a.C., quando Mosè, essendo nato intorno al 1390 a.C., per quanto straordinariamente longevo, era sicuramente defunto da parecchio tempo. Anche se dimenticata da tutti per cinque secoli, trascurando i riferimenti biblici e le tracce di stanziamenti umani risalenti a XII secolo a.C., ossia all’Età del Ferro, Petra ebbe un’esistenza storicamente documentata dal 647 a.C., con il susseguirsi dei periodi edomita, nabateo, romano, bizantino, medievale, islamico e ottomano, sino a diventare un villaggio semi deserto dopo l’ennesimo terremoto, avvenuto nel 749, per poi scomparire nel nulla intorno al 1275.

Accedere a Petra, incastrata tra le montagne nel sud della Giordania, non è agevole, giacché le uniche vie percorribili sono uno stretto sentiero di montagna, venendo da nord-ovest, oppure il Siq, una fessura stretta e tortuosa tra le pareti rocciose, alte sino a un centinaio metri, che si snoda per poco più di un chilometro, provenendo da est. Insomma, non è difficile capire la ragione perché Petra sia stata un’importante città fortezza che dava protezione alle carovane di passaggio. Trascurando le costruzioni funerarie risalenti all’età paleozoica, ricavate nell’arenaria, che presenta sfumature di colore dal giallo ocra al rosso fuoco, i monumenti più interessanti risalgono al periodo nabateo e a quello romano. I Nabatei, beduini di origine araba ignota, erano abilissimi nelle attività commerciali per diverse ragioni: capacità d’intermediazione, astuzia nel camuffare le proprie rotte mercantili e la provenienza delle merci, senso dell’ospitalità unita alla maestria nell’uso delle armi e una straordinaria perizia nella costruzione di ampie cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, abilmente nascoste. Sicché, per sicurezza e disponibilità idriche, Petra nel IV secolo a.C. raggiunse un’estensione di 10 chilometri quadrati, con la capacità di accogliere tutte le carovaniere che collegavano l’Egitto alla Siria e il sud della penisola Arabica al Mar Mediterraneo per trasportare spezie, incenso, seta, perle e altri prodotti di lusso. Naturalmente ospitalità e diritti doganali fruttarono ai Nabatei forti guadagni sino al III secolo, tanto che attorno a Petra sorse addirittura una decapoli. Ma l’occupazione romana e la creazione di nuove vie commerciali emarginarono progressivamente Petra sino a farla scomparire dalle carte geografiche.

Su Petra esistono pubblicazioni a non finire e l’edificio più noto, descritto in tutte le salse e scavato nella parete rocciosa di fronte allo sbocco del Siq, è El Khasneh al Faraoun, ossia Il Tesoro del Faraone. Nome derivato dalla leggenda che un tesoro fosse nascosto nell’urna, intagliata alla sommità del secondo ordine di colonne che adornano la facciata, e per questo motivo oggetto di spari, nel tentativo di frantumarla. Realizzato all’epoca del re nabateo Areta III, ossia nel I secolo a.C., quale mausoleo di famiglia, probabilmente completato nei secoli successivi, la sua facciata, di 28 metri d’altezza e 40 metri di larghezza, è davvero imponente e suscita la medesima emozione della Biblioteca di Celso a Efeso. Ben si comprende che sia stato annoverato tra le Sette meraviglie del mondo moderno insieme alla Grande Muraglia, al Colosseo, alla statua del Cristo Redentore, al Machu Picchu, alla piramide Chi-chén Itza e al Taj Mahal.

Sennonché, rispetto a Efeso, la vista di Petra non è soltanto altrettanto emozionante ma ben più impressionante. Forse perché è una maestosa monumentale necropoli, non essendovi più alcuna traccia delle abitazioni private. Soltanto il Teatro Romano, capace di contenere sino a settemila spettatori, può competere con la Tomba degli Obelischi, la Tomba Palazzo, la Tomba dell’Urna e la Tomba di Sexstius Florentinus, tanto per citare gli splendidi esempi di arte funeraria che più degli altri mi sono rimasti impressi nella mente. Altrettanto straordinario è l’insieme delle reti idriche e cisterne che sembra consentisse la disponibilità di quaranta milioni di litri d’acqua al giorno. Descrivere Petra, insomma, più che difficile è assolutamente inutile: soltanto visitandola si può cogliere la storia millenaria che trasuda. Con un consiglio: bisogna percorrerla a piedi, rinunciando a cavallo, cammello o carrozzella. Naturalmente, durante la visita bisogna essere muniti di paraocchi, per non vedere i grassi turisti sudati, con cappello da esploratore, modello Alberto Sordi alla ricerca del cognato disperso in Africa, e scarponi da boy-scout, che trascinano loro piedoni lungo la Via Colonnata. Persino i dromedari rivolgono il loro sguardo svenevole altrove per non vedere quello che c’è di più brutto a Petra: gli esseri umani. Sicché, con ignobile sadismo, il pensiero che Petra sia destinata a scomparire, per gli inarrestabili fenomeni erosivi, non mi ha addolorato più di tanto.

CANALE DI SUEZ, 12 APRILE

Il Canale di Suez, che permette la navigazione dall’Europa all’Asia, senza la necessità di circumnavigare l’Africa sulla rotta del capo di Buona Speranza, come si era fatto fino alla sua apertura, fu costruito tra il 1859 e il 1869. Fu creato da una compagnia francese (Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez), diretta dal disinvolto imprenditore Ferdinand de Lesseps, su progetto del defunto Luigi Negrelli, ingegnere tirolese, nato a Fiera di Primiero facente parte dell’impero austriaco. Ferdinand de Lesseps, console al Cairo dal 1833 al 1837, il 30 novembre 1854 aveva ottenuto, infatti, una concessione dal suo vecchio amico Sa’id Pascià, viceré d’Egitto, al fine di costituire una società che costruisse un canale marittimo aperto a navi di ogni nazione e lo gestisse per 99 anni. Il vulcanico Ferdinand de Lesseps scelse persino i macchinari necessari per il compimento dell’opera. Sicché, il canale costò soltanto il doppio delle stime iniziali e la vita a 125 mila lavoratori egiziani, soprattutto a causa del colera, su un milione e mezzo di contadini, strappati con la forza dai loro campi, impiegati nell’impresa.

Mentre Luigi Negrelli non ottenne alcun riconoscimento postumo della sua opera, nonostante le battaglie giudiziarie della figlia Maria, Ferdinand de Lesseps, nel 1893 fu processato per malversazioni e ruberie, subendo la condanna a cinque anni di carcere, che non scontò per motivi di salute, morendo un anno dopo. Il canale fu inaugurato il 17 novembre 1869, anche se la prima nave aveva attraversato il canale il 17 febbraio 1867, e i festeggiamenti culminarono con la rappresentazione dell’Aida, al Teatro dell’Opera del Cairo, il 24 dicembre 1871. Alla fine dei lavori, il canale misurava 164 km di lunghezza, 8 metri di profondità e 53 metri di larghezza. In seguito ai lavori di ampliamento, eseguiti nel 2010, oggi il canale è largo mediamente 146 metri con una profondità dai 15 ai 24 metri. Tuttavia, consente sempre unicamente il transito di convogli in un solo senso di marcia, tranne che all’altezza dei cosiddetti Laghi Amari, ovviamente soltanto salati, dove le navi possono incrociarsi.

Per oltre dieci ore, dunque, abbiamo navigato lungo un’autostrada liquida noiosa tanto quanto quelle asfaltate. A meno di non ritenere affascinante un paesaggio desertico-militarizzato. Circa a metà strada tra Porto Said e Suez, a occidente, mi è appara Ismailia collocata sulle rive del Timsah, un modesto lago salmastro attraversato dal Canale. La città, vista da lontano e molto probabilmente anche da vicino, non ha niente di speciale se non fosse che, in questo punto, quando Ismailia non esisteva, sarebbe avvenuto il ‘passaggio’ di Mosè attraverso il Mar Rosso, conosciuto nell’antico Egitto con l’appropriato nome ‘Verdissimo’. Un altro sito indicato come probabile luogo del miracolo è, però, Tell el-Balamun nella zona del delta del Nilo. Insomma, in entrambi i casi, Mosè avrebbe attraversato un yam suph, ossia un mare non ‘rosso’ bensì di ‘giunchi’. In altre parole, Mosè avrebbe superato una distesa d’acqua, dove crescevano giunchi sufficienti a impedire l’avanzamento delle ruote dei carri egiziani. Infine, mentre ci avvinavamo allo sbocco nel Mediterraneo, sui ponti della nave sono comparse parecchie fastidiose mosche, forse per ricordarci che le piaghe d’Egitto non sono ancora finite.

TAORMINA, 14 APRILE

Taormina ha una storia millenaria, perché abitata ancor prima del 753 a.C., quando i Greci sbarcarono a Naxos. Dei vari periodi storici (greco, romano, arabo, svevo, spagnolo e moderno), quello più eccitante, nella mente dei nativi, è però il Novecento. Taormina, annoverò tra i suoi ospiti il re Edoardo VII, lo zar Nicola II, il kaiser Guglielmo II, il principe Felix Jusupov, celebre per aver partecipato all’assassinio di Grigori Rasputin, con la moglie Irina, Friedrich Nietzsche, Gustav Klimt, Sigmund Freud, Gabriele D’Annunzio, oltre a banchieri, magnati e aristocratici, ricchi oppure con le pezze sulle brache, di tutta Europa.

A rendere Taormina una meta turistica internazionale furono soprattutto due stranieri, entrambi sepolti nel locale cimitero: il pittore Otto von Geleng, diventato vice sindaco del luogo, e il fotografo Wilhelm von Gloeden, noto per i ritratti di ragazzi siciliani nudi che stimolarono le fantasie omoerotiche di facoltosi turisti stranieri e le cui sembianze attirarono in Sicilia anche Oscar Wilde, determinando una notevole scossa all’economia locale. Sicché, Taormina divenne famosa in tutto il mondo non solo per le sue indiscutibili bellezze paesaggistiche e architettoniche ma anche e forse soprattutto per la sua tolleranza trasgressiva, per i suoi cenacoli culturali, e per la democratica frequentazione di anziani intellettuali con imberbi pescatori, dagli esiti talvolta scandalistici.

L’esatto contrario della costiera romagnola, dove anziane mogli insoddisfatte si accompagnavano con giovani forzuti bagnini. Insomma, un borgo di contadini e pescatori si trasformò, d’incanto, in un’Arcadia abbastanza fasulla. Difatti, non ci volle molto perché Taormina diventasse una cittadina di bottegai, commercianti, borghesi benestanti, albergatori, costruttori e soprattutto di ristoratori. Perciò, a Taormina non si trova nemmeno un pescivendolo ed esiste un macellaio soltanto. Dunque, nella Taormina che ho conosciuto io, metà anni Settanta, di accademie letterarie non ho scorto nemmeno l’ombra e gli spettacoli al Teatro greco-romano erano molto frequentati per farsi vedere dagli altri. La vita trasgressiva si riduceva alla tradizionale oltre che mitica caccia estiva alle svedesi, sempre meno numerose, e a qualche festa da ballo con personaggi molto preoccupati di essere abbastanza eleganti e di sembrare galanti, dolcemente sorridenti oppure pensosi ma perennemente silenti, accanto ad anziani nostalgici dei tempi passati vissuti da altri. Ovviamente, non mancavano le avventure lettereccie, con ricami romantici da parte della pettegolandia locale, intimamente fiera della virilità indigena. Una virilità talmente prorompente e impetuosa da trascurare, secondo alcuni, le differenze d’età e di sesso.

Naturalmente, nel mese d’aprile, quando i turisti stranieri con zaini e scarponi bevono birra nei loro paesi, il contorno mi è parso molto differente e più autentico. Vie e botteghe, forse perché pioveva, erano semideserte, i dolci di pasta di mandorle, nelle vetrine delle pasticcerie, imploravano un po’ di calore dopo giornate trascorse nei frigoriferi, la granita di limone aveva un altro sapore e le marionette appese nei negozi di souvenir ispiravano immensa tristezza. Tuttavia, si avvertiva che Taormina si stava risvegliando dall’invernale letargo, per oscurare il proprio splendore nella prossima estate, in maniera sempre più banale, seppure con nuovi negozi eleganti al posto delle botteghe di cianfrusaglie che trionfano ancora sulla via che porta all’antico Teatro. Insomma, Taormina si stava preparando a offrire una botta di vita a persone abituate a vivere nella mediocrità del mondo borghese ma disposte a sperperare un patrimonio negli alberghi di lusso, oppure a dormire sulle brande, pur di contorcersi in discoteche assordanti, di cenare in ristoranti romantici con pesci surgelati e di partecipare, in Corso Umberto, all’immancabile ‘struscio’ serale. Invece, a parte il Duomo, risalente al XII secolo, della chiesa di San Pancrazio (VI-IX secolo), di quella di Sant’Antonio abate (1330) molti non conoscono l’esistenza.

CIVITAVECCHIA, 15 APRILE

Incidentalmente, ho criticato il porto di Civitavecchia. Forse non tutti sanno che fu l’imperatore Traiano ad affidare all’architetto Apollodoro di Damasco la sua realizzazione, quando il porto di Ostia, alle foci del Tevere, si rivelò insufficiente a governare tutto il traffico marittimo che riguardava Roma. Il luogo scelto, che allora si chiamava Centum Cellae, era eccellente perché riparato ma di facile accesso, tanto è vero che l’imperatore aveva già fatto costruire, a metà strada tra il porto e le Terme Taurine, stando alle cronache dell’epoca, la sua villa più maestosa. I lavori iniziarono intorno al 107 e terminarono tre anni dopo — giacché, all’epoca, sui tempi di costruzione degli edifici pubblici c’era poco da scherzare — con un gioiello architettonico: due moli curvilinei, adorni di statue e protetti da un antemurale, con quattro torri gemelle, a guardare due bocche di porto, creavano l’aspetto di un anfiteatro sul mare. Apollodoro, infatti, fu un architetto straordinariamente eclettico che, con la Colonna di Traiano, inventò un nuovo modello di monumento trionfale.

Claudio Rutilio Namaziano, praefectus urbi di Roma e poeta, agli inizi del V secolo descrisse la vivacità di questo porto e delle Terme Taurine che, pur essendo collocate su una collina distante circa cinque chilometri dall’abitato urbano, erano di facile accesso ai viaggiatori. Dell’epoca romana è rimasta soltanto la torre del Bicchiere, che giace tristemente isolata dinanzi ai moli moderni e che nessuno degna di uno sguardo. I miseri resti della villa di Traiano sono abbandonati al loro destino e le Terme Taurine rimangono quotidianamente in patetica attesa di qualche ar-dimentoso turista. Insomma, per scovare qualcosa di suggestivo ed emozionante a Civitavecchia bisogna possedere una grande cocciutaggine, persino nel porto. L’imponente Forte Michelangelo, edificato tra il 1508 e il 1537 con successivi restauri, e la possente cinta merlata, infatti, non possono sfuggire a nessuno. La fontana in travertino, splendida opera del Vanvitelli realizzata nel 1743, bisogna andare a cercarsela, incastonata al centro di un tratto dell’antica muraglia ma sovrastata da condomini orrendi. Tanto che il vecchio fauno, dalla cui bocca fuoriesce l’acqua, sembra in procinto di vomitare.

Immagino che a papa Benedetto XIV, committente dell’opera, se potesse vedere lo scempio, scapperebbe qualche imprecazione Nel porto, infine, bisogna evitare distrazioni perché, altrimenti, si rischia d’imbarcarsi su un traghetto anziché su una nave da crociera. Tuttavia, dopo aver sorseggiato un Negroni in un bar qualsiasi, mi sono definitivamente convinto di vivere in un Paese, anche con le sue brutture, splendido.

EPILOGO

Alla fine, mi sono convinto che bisogna possedere la mentalità adatta per partecipare a un viaggio per così dire ‘passivo’, ossia dettato da protocolli mercantili difficili da capovolgere. Come nell’attuale medicina, se un paziente non si adatta a un protocollo diagnostico-terapeutico, tanto peggio per il paziente cui, dalla paludata scienza ufficiale, è vietato il senso critico. Ciò, nonostante abbia avuto la fortuna d’imbarcarmi su una nave da crociera lussuosa, con personale premuroso ed efficiente. Forse l’unica dove i passeggeri possono ricevere informazioni e assistenza in cinque lingue diverse. Insomma, poiché compiere il giro del modo per svago non è come affrontare una malattia, cogliere il lato comico delle circostanze fastidiose mi è sembrato un rimedio davvero consigliabile.

Ho avuto, inoltre, la conferma che per vedere bisogna sapere, prima di guardare, e che la peggior cosa da fare è guardare il mondo soltanto attraverso il mirino della macchina fotografica. Le fotografie suscitano emozioni se riproducono quello che si è visto e non quello che si è guardato. Inoltre, l’ultima ovvietà: apprendere è più faticoso che viaggiare. Infine, due apprezzamenti personali. Per cento giorni, ho avuto la sensazione che i miei figli abbiano seguito i nostri movimenti con trepidazione non manifesta. Solitamente, i genitori ritengono di meritare la gratitudine dei loro figli per averli messi al mondo. Io, invece, ringrazio Barbara, Valentina e Gianluca per essere nati. Ringrazio anche santa Lucia che non solo mi ha protetto ma, sapendo che soffro il mal di mare, mi ha fatto attraversare tre oceani assolutamente calmi. Sicché, mi sono ripromesso di accenderle un cero nella chiesa dove riposano le sue spoglie mortali a Venezia.

Da ultimo, mi sono chiesto se mi è rimasto il desiderio di ripetere un giro del mondo che comprenda alcune parti del pianeta che non ho mai visto. ‘Sciocchezze’ come Africa, America meridionale, Cina e Giappone. A tale proposito, ho letto le sbalorditive caratteristiche delle future navi da crociera. Le loro dimensioni saranno enormi, ossia grattacieli galleggianti alti diciotto piani. Per questo motivo, i passeggeri saranno muniti di un braccialetto elettronico d’identificazione e localizzazione ma funzionante anche come carta di credito, forse per evitare paragoni con i delinquenti in libertà vigilata.

Le cabine interne saranno dotate di ‘virtual balcony’, ossia fornite di uno schermo che, in tempo reale, riproduce panorami e suoni esterni. Per gli odori, probabilmente, esiste qualche problema. I cocktail, infine, saranno preparati non da un sorridente barman in giacca bianca bensì da un silenzioso automa. Phileas Fogg non si muoverebbe da Londra.

(6 –fine)

Con la regina di Saba sulla via dell'incenso