Cosa e tecnica

Evadere dal circolo vizioso

«La  cosa è la madre di tutte le guerre». Una sentenza avvolta dalla solenne atmosfera dell’Aula Magna, a pochi passi dalla  Cattedra di Galileo. Una sentenza echeggiante in modo preciso e sintetico quanto enigmatico. Siamo a Padova, Palazzo del Bo, al convegno internazionale dal titolo  Terza Guerra Mondiale? La gestione della morte tra nuove emergenze sociali e la loro soluzione.

PADOVA – Un evento organizzato dall’Ateneo patavino (Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia applicata e master  Death Studies and The End of Life) in collaborazione con diversi enti di ambito psicoterapeutico, psicanalitico, psichiatrico, la Regione e l’Ordine dei giornalisti del Veneto. Il tema è più che mai attuale. Ne ha parlato il Papa, lo si legge sui giornali, è una realtà ineludibile nonostante la forma sia molto diversa da come la storia ci aveva abituato. La  cosa è la madre di tutte le guerre. È con queste parole che Emanuele Severino, una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea mondiale, ha voluto chiosare il suo intervento, il primo di un intenso programma multidisciplinare di tre giorni. Ma procediamo con ordine, cercando di ricostruire il percorso che ha portato il pensatore bresciano a capovolgere Eraclito quando scriveva: «la guerra è la madre di tutte le cose».

Le forze del nostro tempo, come la globalizzazione, il cristianesimo, il capitalismo, il comunismo e altri ‘ismi’ attivi o dormienti che siano, agiscono in perpetuo contrasto tra di loro. Qual è il significato di questo agire? Anzi, più in generale, qual è il significato di un’azione? Il significato di un’azione potrebbe esaurirsi in sé stessa: fabbricare scarpe significa fabbricare scarpe. Epperò, come può il significato che è altro rispetto all’azione, significare l’azione stessa di cui si cerca di comprendere il significato? No, il significato di un’azione deve essere qualcosa di diverso, il significato di un’azione è il suo scopo.

Ora, le forze contemporanee, con l’intento di sopraffare (potenzialmente) l’avversario, si avvalgono del mezzo che la scienza moderna ha prodotto: la tecnica. Questa, tuttavia, agisce in contrasto con gli scopi delle forze che la usano e che ne presuppongono la subordinazione alle Verità da loro professate (Dio, il profitto…). Secondo Severino, infatti, lo scopo della tecnica è l’incremento indefinito della possibilità di creare scopi. E se è vero che le forze disposte sulla scacchiera del mondo potenziano incessantemente la propria tecnica per aumentare la propria potenza, l’effetto che si ottiene è un rovesciamento di ruoli in uno spazio che tende a mutare. Il servo-mezzo, ovvero la tecnica, dovrebbe servire i suoi padroni, ovvero queste forze. Ma il padrone, aumentando i servigi del servo, ne aumenta anche lo scopo, ritrovandosi ad agire in uno spazio sempre più ristretto e soffocato dall’espansione di un servo-mezzo sempre più padrone-scopo.

A questo punto Severino individua due livelli di conflittualità. Una conflittualità che definisce di retroguardia e che si sostanzia nella guerra per così dire tradizionale, cioè tra le forze o le nazioni in campo. E una conflittualità primaria, che vede di scena la tecnica e le forze che la sfruttano in un gigantesco circolo vizioso tendente all’omologazione reciproca. In altre parole, se tutte le forze mirano all’aumento della propria tecnica, vuol dire che hanno il medesimo scopo e l’identificarsi tra di loro come conseguenza.

Una sorta di guerra tra soggetti un tempo sovrani che hanno perduto o stanno perdendo i propri privilegi, la propria influenza, e un mezzo che pensano di poter aumentare limitatamente, violentandone ciecamente il fine innato. Difatti, prosegue il filosofo, questo mezzo che non avrebbe confini in merito al suo potenziale incremento, può spingersi solamente fino al limite delle verità assolute espresse dalle forze che serve. Ma la scienza moderna elabora ipotesi, non verità.

Di conseguenza la tecnica moderna non dovrebbe arrestarsi al cospetto delle Verità che le forze della tradizione occidentale sovente hanno annunciato e continuano ad annunciare. Ciò che manca alla tecnica, suggerisce Severino, sono frequentazioni maggiormente raccomandabili e proficue, magari con chi ha radici più antiche e ha maturato esperienze più solide. Lui lo chiama «sottosuolo»: quella dimensione della sapienza (da Leopardi a Nietzsche fino a Gentile) che le verità senza dubbi ha già ampiamente affrontato e reso ipotesi (per essere indulgenti). Ecco, quando la tecnica imparerà ad ascoltare la voce del sottosuolo e si proietterà senza riverenze verso il suo dominio planetario, sarà un buon momento per auspicare di eludere il terzo conflitto mondiale.

Molto bene, ma perché la  cosa è la madre di tutte le guerre? Soprattutto, che cos’è la  cosa, quale senso le viene conferito? Certamente Severino conosceva già la risposta («l’esser cosa delle cose» scriveva nel 2003,  Dall’Islam a Prometeo) ed è stata la mancanza di tempo ad interrompere la sua riflessione. Eppure è sembrato essere un altro illustre studioso, poco dopo, ad offrirgli lo spunto per svelare questa idea lasciata in sospeso, come in attesa di quella collaborazione fra discipline o competenze diverse in grado di creare eccellenza. La relazione di Michel Bitbol, epistemologo e filosofo della scienza, che per ricchezza argomentativa merita di essere in qualche modo divulgata e ci permettiamo di prenderlo come impegno per una sorta di secondo tempo della presente, ha affrontato il tema della morte, evocando due figure filosofico-psicoanalitiche che hanno illuminato la rilettura severiniana di Eraclito: la  cosa è l’identità (prima figura).

Ora, cosa ci spaventa della morte, qual è il vero problema? La paura della morte cela in effetti un altro timore: la paura della fine dell’identità. L’identità solidifica la consapevolezza dell’esistenza, ma contestualmente la rende fragile a causa della consapevolezza dell’esistenza della morte. La morte rende  altro da sé, «l’identità si strappa da sé per diventare altro». Qui Severino individua una criticità, perché questo altro dovrebbe essere  nulla. La  cosa è  nulla (seconda figura). La  cosa, il senso che si attribuisce alla  cosa, è dunque il fragile equilibrio tra l’identità e il  nulla, che le forze di cui abbiamo parlato, credendo erroneamente al  divenire, si arrogano il diritto di dominare, elevando a valore dei valori la guerra come mezzo per raggiungere tale irresistibile obbiettivo. Il  divenire, il  diventar altro delle cose, il passaggio dal  nulla all’identità e ancora al  nulla, è per Severino una violenza concettuale e pratica, è follia. La legna che brucia e diviene cenere – esempio che sovente propone – non è il cominciare ad esistere della cenere, ma è la legna che, dopo essersi strappata violentemente de sé, penetra altrettanto violentemente la cenere; legna che diviene cenere vuol dire legna che è cenere, ovvero legna che è altro da ciò che è.

A questa concezione millenaria e planetaria, Severino oppone da sempre l’eternità di tutte le cose (uomo compreso) che, senza mai  divenire altro, senza mai  divenire nulla, si ‘limitano’ ad  essere ciò che sono. Se riusciamo a vederle significa che stanno  apparendo. Se non le vediamo  sono semplicemente e temporaneamente fuori dal «cerchio dell’apparire», in altri termini: esistono e riappariranno. Un nuovo senso della  cosa che il filosofo ci invita a chiamare  gioia.

La Cattedra di Galileo, Palazzo del Bo, Padova (foto Luca…

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