Il mistero
dei sassi bianchi
Cronache vere dal contado. Dove anche la miseria è un lusso
SPROFONDO NORD — Alcuni amici, sotto sotto ma neanche tanto, pensano che io sia ossessionato dai cimiteri. In effetti, quando ci vediamo e porto loro qualche mia nuova trovata poetico-letteraria, casco sempre lì. O qui, dove un giorno cascherò (anzi, spero che mi posino con delicatezza, anche se allora non patirò più alcun dolore.)
Al mio paese il cimitero ai piedi dell’argine è il luogo più frequentato, un po’ più dell’unica piazza, specie ora che il vecchio giardino imperial-asburgico è stato irrimediabilmente disboscato. Le mie composizioni, avverto, sono di varia natura, ma non tutti i luoghi che frequento sanno accogliere nel giusto modo questo tema decisamente crepuscolare.
Qui nelle campagne il trapasso fisico è ancora tabù, mentre nell’inclita città di Venezia, per metà immortale e per l’altra metà mesmerizzata, è uno dei mille temi quotidiani con cui c’ingrovigliamo volentieri un po’ tutti, noi viaggiatori romantici. Così, riesumando un brano da uno dei mie prossimi libri (riesumare il futuro è una bizzarria che ho imparato proprio a Venezia) depongo ai vostri piedi, cari lettori, questa storiella. Totalmente vera, romanzata solo quel tanto che basta per purificarla dall’orrore e condirla di vaga frivolezza.
Eravamo in due, l’amichetta del cuore (diciamo così, va’…) e io, un settembre di pochi anni or sono. Provenedo da Boccafossa, in direzione Sant’Elena, dopo la curva del rettilineo che taglia a metà un gruppo di case vecchie, ai piedi dell’argine, vedemmo la strada bloccata da un assembramento di persone, grandi e piccole.
Guardavano tutte sul campo, alla loro destra, dove una donna gridava e strattonava un uomo, accanto a un carretto a motore che bruciava e mandava in cielo del fumo nero e puzzolente. Vedendoci arrivare la gente si scostò, quel tanto per farci passare, a passo d’uomo.
Superato l’ostacolo accostai a destra e mi fermai su una piazzola. «Sono curioso — dissi a Chiara — vado a vedere cos’è successo». «Vengo con te. Ci avvicinammo al gruppo di persone, che nel frattempo era diventato più numeroso».
In mezzo al campo la donna piangeva, buttava via le mani, e stava tornando verso la strada. L’uomo invece, in preda all’ira, fece un passo verso la carretta in fiamme, levò da terra un forcone e vibrò un colpo a una gomma, che gli esplose in faccia, lasciandolo miracolosamente illeso.
Intanto la donna era arrivata sul ciglio del fosso, lo attraversò e salì sulla strada. La sentimmo raccontare…
«Chel stupido desgrazià… quello stupido disgraziato… l’altro giorno l’avevano chiamato a lavorare in cimitero, lui e la sua carioca, la carretta a motore. Avevano scavato delle buche per farci delle tombe nuove, in cemento, e l’avevano incaricato di portare via tutta la terra che avanzava. Un bel lavoro, pagà dal comùn, schei sicuri de sti tempi de magra… e lui cos’ha fatto? Invece di scaricare la terra dove gli avevano detto, dentro un canale da tombare, nel palù, par sparagnàr sol viajo, per risparmiare sul viaggio e farlo più corto se l’è portata tutta a casa e l’ha stesa sul campo e nell’orto… bella terra nera e grassa diceva, tarà che radici sto inverno, vedrai che radicchi quest’inverno.
«Dopo la pioggia dell’ altro ieri sopra quella terra sono spuntati dei sassi bianchi, e lui m’ha detto: “Fèmena, và cior su chei sassi, vai a levare quei sassi…” Ci sono andata, curva sotto il sole, in tutto il pomeriggio ne ho raccolto un secchio intero. Quand’è arrivata a casa la figlia più vecchia, che fa l’infermiera, ha visto il secchio, e mi ha chiesto dove avevo trovato quella roba. “Sul campo — le ho risposto — sulla terra che tuo padre ha portato a casa dal cimitero”. A fia iera spasemada, la figlia era spaventata, e mi ha risposto “Quelli non sono sassi, sono ossi delle dita, falangi di cadaveri…!” Atu capìo? Hai capito, chel degrazià insemenìo, quel disgraziato scimunito, si è portato a casa la terra proprio del posto dove lavavano i morti riesumati per poi buttare i resti nell’ossario e far spazio ad altre tombe. Quando gliel’ho detto mio marito stava mangiando, ha rimandato tutto, a momenti mi ammazzava, siamo stati due giorni interi, in due, a caricar terra sulla carretta, e stavolta l’ha portata nel posto che gli avevano indicato. Poi, finito il lavoro, ha preso un secchio di nafta e ha dato fuoco alla carioca e tutto. Areo là, sol camp, tut infumentà!»
«Che posti, e che gente — disse Chiara tenendosi la bocca dal ridere — andiamo via…»