Il mistero
della scomparsa
di Unabomber

Un giallo rimasto insoluto

Il bombarolo del Nord Est è sparito da dieci anni. L’ultima sua  impresa risale al 6 maggio del 2006, una bottiglia esplosiva nel mare di Caorle, in provincia di Venezia, che ferì un giovane infermiere che l’aveva raccolta. Da allora non ha più dato notizie di sé. Una carriera criminale iniziata a Pontevecchio di Portogruaro e durata tredici anni, dal 1993 al 2006, con trentacinque attentati, tutti tra Veneto e Friuli. Feriva le sue vittime senza ucciderle. Non ha mai rivendicato né spiegato le sue gesta. Sospettato e poi assolto un ingegnere friulano, condannato un poliziotto per aver falsificato una prova. E il mistero di un inquietante testamento.

VENEZIA – Di lui non si parla più. Hanno anche smesso di cercarlo. Basta articoli sui giornali. Basta estenuanti dibattiti televisivi. Resta solo la memoria delle sue tragiche gesta. Una memoria che continua a vivere nella carne ferita delle sue molte vittime. Loro no che non lo hanno dimenticato. Che non possono dimenticarlo. Ma dov’è finito Unabomber?

Scrivevo queste parole cinque anni fa, nella mia rubrica  Punturine sul quotidiano  La Nuova Venezia, rubrica che poi è diventata un libro, anzi due (I Antichi Editori, 2013 e 2015 www.iantichieditori.it). Avevo seguito per tredici anni, da inviato del quotidiano  La Repubblica, le piste del bombarolo.

Il silenzio di Unabomber dura ormai da dieci anni. Non che ci manchi, per carità. Il contrario. Solo un dato di cronaca, e qualche domanda rimasta senza risposta. Perché la sua scomparsa resta avvolta nel mistero più fitto.

L’ultima  impresa del folle attentatore del Nord Est che mutilava in modo orrendo le sue vittime, tra cui vecchi e bambini, ma non le uccideva mai, fu una bottiglia abbandonata nel mare di Caorle, in provincia di Venezia, con dentro un messaggio esplosivo che ferì un giovane infermiere che l’aveva raccolta, Massimiliano Bozzo. Era il 6 maggio del 2006.

Fu l’ultimo atto di una lunga carriera criminale iniziata nel 1993 a Pontevecchio di Portogruaro e interrotta soltanto in due anni, nel ‘97 e nel ‘99. In tutti gli altri anni aveva sempre colpito: 35 attentati, tutti fra Veneto e Friuli Venezia Giulia, in 13 anni di attività. Una  carriera iniziata e conclusa in un fazzoletto della provincia di Venezia, tra Portogruaro e Caorle, la terra dove – forse – viveva.

Perché Unabomber  tace da dieci anni? Perché ha smesso all’improvviso di fare attentati, senza neanche una spiegazione? Ha per caso considerata conclusa la sua  missione? Ha raggiunto i suoi obiettivi? Si è stancato? È morto? O magari è finito in una prigione per altri motivi? O è stato ricoverato in qualche ospedale psichiatrico? O ha smesso perché si è visto scoperto? Oppure è  guarito?

Ogni ipotesi, in assenza di alcuna certezza, è perfettamente lecita. Resta il fatto – la coincidenza, per l’esattezza – che il bombarolo folle è uscito di scena da quando si sono accesi i riflettori su un bizzarro ingegnere aeronautico di Azzano Decimo in provincia di Pordenone, Elvo Zornitta, accusato dei crimini di Unabomber e poi prosciolto da ogni accusa dal momento che non sono state trovate prove – ma solo alcuni indizi – a suo carico.

Sul banco degli imputati ci è finito invece uno dei poliziotti che davano la caccia al mostro, Ezio Zernar, che è stato condannato in via definitiva dal tribunale per aver manomesso un piccolissimo lamierino trovato sul luogo di uno degli attentati, allo scopo di incastrare l’ingegnere, fornendo appunto la prova regina che mancava all’accusa.

Zornitta, la cui vita è stata sconvolta da quella terribile accusa, ora sospetta che Unabomber potesse nascondersi sotto la divisa di un soldato americano di stanza a Nord Est (base Nato di Aviano?), per la facilità con cui riusciva a scomparire e a sfuggire ad ogni controllo. Ma ammette, candidamente, di non avere alcuna prova a supporto della sua, pur suggestiva, teoria. Mancherebbe comunque, anche in questo caso, il movente. Nessuno ha mai capito perché Unabomber faceva quello che faceva. L’unica spiegazione credibile resta quella della sua pazzia.

Unabomber infatti, che non è mai stato scoperto non solo per la sua indubbia abilità ma anche per una serie di clamorosi errori compiuti dagli inquirenti, dalla squadra antimostro creata per l’occasione dal Viminale e dal pool di quattro Procure che gli dava la caccia, non ha mai spiegato i motivi dei suoi deliranti attentati. Mai una rivendicazione, mai una lettera, mai un messaggio. Ha voluto lasciare sempre il mistero sulle sue azioni. Proprio come è sempre rimasto il mistero sulla sua identità.

Frotte di esperti, di criminologi, di psicologi, di studiosi, di scrittori, tuttologi e mitomani, si sono affannate nel corso degli anni a cercare, anche con analisi a volte suggestive, di trovare un perché. Fra le molte disquisizioni interessanti sull’argomento ce n’è una, in particolare, che ha più il sapore di una traccia che di un’analisi. Una traccia dimenticata.

Assomiglia quasi a un testamento. Fu scritta proprio poco prima dell’ultima  impresa, quasi volesse anticipare l’addio del bombarolo. Annegata, confusa nella rete, apparve su un sito di alcuni studenti friulani sotto l’intestazione: «Pagine inedite di un pensiero difficile». Non era firmata.

Unabomber parlava per la prima volta. E raccontava di sé in prima persona. L’artificio letterario di uno scrittore? Di uno studioso? Di un esperto? O solo lo scherzo (di pessimo gusto), di un burlone? O davvero la confessione del bombarolo? Gli inquirenti non furono capaci di scoprire nemmeno questo.

Comunque, in una lettera lunga cinquantadue righe, il vero o finto Unabomber che fosse, gonfiava il petto e si vantava: «Io sono avanti». Questo il suo manifesto, quasi un proclama futurista. E continuava. «Sono avanti, e sarò sempre più in là di dove potranno arrivare gli altri, là dove ancora non mi temono o dove pensano che non potrò più essere».

Parlava anche delle sue vittime. «Non sono mie – diceva – sono vostre, della vostra società, del vostro inutile e insensato vivere da controllati, limitati e limiti di voi stessi». E spiegava così la sua dissennata filosofia: «Io creo, non distruggo, do una nuova forma alle cose, alle persone. Cambio loro la vita. Avessi voluto avrei ucciso, e invece no, ferisco, ti sfregio, ti tramuto in qualcosa che non avresti voluto essere mai. Di che vi lamentate? Nemmeno io sono quello che avrei voluto essere, non ho quello che ho sempre cercato».

Nella sua «irripetibile genialità», così la definiva lui stesso, sempre in quella lettera, in cui sbeffeggiava anche le forze dell’ordine che non erano mai riuscite a mettergli il sale sulla coda, si spingeva fino alla spudoratezza di fornire alcune notizie precise (vere o presunte) di sé: «Sono lente le mie opere, mi ci vorrebbero dieci dita, perché io non posso avere dieci dita? Se non le posso avere io…nessuno». E aggiungeva, sbruffone: «Potreste beccarmi, la traccia è lì, davanti ai vostri occhi ciechi dal terrore, ma nulla…ormai è tardi».

Già, è troppo tardi. Addio, Unabomber. Solo una cosa è certa: non ti rimpiangeremo.

LA PAGELLA
Unabomber: voto -10
Elvo Zornitta: voto 7,5
Inquirenti Italiani: voto 4
Ezio Zernar: voto 2

Elvo Zornitta (foto messaggeroveneto.gelocal.it)

Il mistero della scomparsa di Unabomber