Il Principe (non è) stanco

L’omaggio a un grande scrittore del ‘900

La finale del Premio letterario Settembrini a Mestre, vinto da Furio Bordon con la raccolta di racconti «Stanze di famiglia» (Garzanti), è stata dedicata allo scrittore Gian Antonio Cibotto scomparso l’estate scorsa. Lo hanno ricordato Natalino Balasso, Caterina Murino, Debora Caprioglio. Un toccante ricordo dello scrittore e regista Giancarlo Marinelli, suo amico ed allievo. E un percorso letterario tracciato da Roberto Bianchin, che di seguito pubblichiamo. Con l’invito a rileggere le sue opere.

Vento. C’è sempre vento nelle sue storie. Tanto vento. Un vento misterioso, che arriva all’improvviso. A volte impetuoso come un temporale, altre volte docile come una brezza di primavera. Vento. “Senti che vento c’è stasera?”, fa dire al protagonista di uno dei suoi romanzi più riusciti in una scena memorabile che è diventata un film.

Non è mai un vento cattivo. E’ più che altro un venticello birichino, sbarazzino, che si diverte a spegnergli il toscanello che, spento o acceso, tiene sempre tra le labbra. “Vento”. E’ Giovanni Comisso che lo chiama così, “Vento” come se fosse un nome proprio, “Vento” perché inafferrabile, libero e mutevole e imprevedibile come l’aria.

Perché non sai mai in che parte del mondo sta, perché non sai mai quando arriva né quando parte, perché non sai mai se arriva. Perché i suoi ritorni inquietano più delle sue partenze. “Tu che scappi verso paesi stravaganti –scrive di lui Tiziano Rizzo, scrittore gentiluomo- ad incontrare gente più matta di te, che pure sei chiamato “Vento”.

I messaggi che “Vento” lascia nei suoi scritti sono spesso folgoranti. Folgorante è l’invenzione letteraria. Folgorante l’andamento della scrittura. La sua qualità sopraffina. La purezza. Tratti che fanno di “Vento” –e gli bastano poche righe- una delle voci più limpide della grande letteratura italiana del Novecento.

Avrete capito, a questo punto, che “Vento” è uno scrittore italiano. Di quelli di razza. Razza pura. Imprevedibile e inclassificabile, non inquadrabile in epoche e mode, filoni e correnti. Spesso sorprendente. Anarchico e sognatore. Folle, ribelle e fuggitivo.

Romanzi, ma anche racconti, poesie, storie, ritratti, diari e rubriche sui giornali. Una cockerina nera di nome Fosca provvista di libero accesso a tutti i teatri della penisola, una vecchia Mini minor bianca capace di volare nei fossi insieme a lui e al cane nelle notti di luna nera, e un’attività frenetica di critico letterario e di critico teatrale, di infaticabile organizzatore di eventi e premi letterari, e di formidabile scopritore di talenti, faro e guida per più di una generazione di giovani talenti.

“Vento” ama le nuvole. Ama la vertigine, quel senso di smarrimento che d’improvviso lo rende assorto, lontano. Fino al momento in cui torna all’unica frontiera che lo vede tornare sempre, una frontiera che non teme i suoi addii perché è sicura dei suoi ritorni. E’ una frontiera che si chiama amicizia. Qui finiscono le fughe di “Vento”, qui si arrestano i dolci tormenti del suo vagabondare, e la folla di pensieri che lo agitano. Un amico, per lui, è l’incarnazione più totale della poesia. Con gli amici ama ridere e scherzare, e fare battute pepatissime in dialetto. Ironico, istrione, dissacratore.

“Vivo per lo più commemorandomi”, ama dire, sornione. E a volte risponde così ai più insistenti che gli richiedono qualche servigio: “Consideratemi estinto”. E’ ricco di titoli bizzarri che si è inventato: Conte di Lendinara, che si è scelto colme ultima dimora, Duca di Valier (che poi sarebbe Valiera, poco distante), nonché Patrono della millenaria Abbazia della Vangadizza. Ma anche “Principe” (“Il Principe stanco” ha intitolato uno dei suoi libri), e certe sere, quando è particolarmente in vena, “Toni Mona” (anche qui, “Razza de Mona” è un altro dei suoi libri).

Ma è quel suo essere sempre e dovunque e comunque “Vento” che fa impazzire il prossimo e disperare gli amici. Giovanni Comisso, soprattutto. E’ molto divertente leggere l’incipit di alcune delle molte lettere che gli ha scritto, e che sono pubblicate da Longanesi in uno scoppiettante epistolario intitolato “Caro Toni” e uscito nel 1989.

“Ti sto sempre aspettando”.
“Non hai più telefonato”.
“Ti ho atteso invano tutto il giorno”.
“Il tuo silenzio è grave”.
“Ti aspetto da settimane, non scrivi e non rispondi”.
“Il tuo silenzio mi fa pensare”.
“Da Roma mi scrivono che ti fai poco vedere”.
“Non ho saputo più nulla di te”.
“So che non verrai, per questo ti scrivo”.
“Mi dici di aspettarti or sono quindici giorni e non ho saputo più niente, ti ho scritto e non hai trovato il tempo di rispondermi”.
“Ho aspettato invano che ti facessi vivo nella serata. Non ti so proprio capire”.
“Grazie per il tuo interessamento, ma se ti devo aspettare, sto fresco”.
“Anche tu ti dimentichi di me. Anche oggi aspettavo una tua comunicazione, e non si è vista”.

Il capolavoro di Gian Antonio Cibotto detto Toni e chiamato anche “Vento” –perché è di lui che stiamo parlando- è il romanzo intitolato “Scano Boa”, che sembra un nome inventato. E alcuni lo pensavano davvero. Gianni Brera, per esempio, a cui era molto piaciuto. Brera chiamava Cibotto “Scano Boa”. “Ehi, Scano Boa! Come va?” gli gridava quando lo incontrava, appioppandogli terribili manate sulle spalle.

Scano Boa è il nome (vero) di un isolotto nel Delta del Po. Ma non serve che andiate a cercare nelle carte geografiche, tantomeno sulle mappe di Google, se esiste un posto chiamato così. Lo dice lo stesso “Vento” (che non sapeva niente di Google), anzi lo scrive proprio: “Scano Boa non esiste. Io lo so, io ci sono vissuto”.

Scano Boa (Rizzoli, 1961), comincia così: “Entrarono nell’osteria prima il vecchio, poi la ragazza, infine il cane, un bastardo di nome Adolfo”. E’ la storia di un vecchio pescatore di storioni, il pesce delle favole. Ha vinto premi e ispirato due film. Ma non chiedetemi la trama, non ve la dirò. I libri non si raccontano, si leggono. Vi basti solo di sapere che un editore accorto come
Cesare “Ciccio” De Michelis, il patron della Marsilio, che anni più tardi ripubblicò “Scano Boa” come altri libri di Cibotto, lo definisce “un racconto esemplare in cui l’autore riesce con discrezione e misura a evitare le aride secche del simbolismo e nello stesso tempo la ridondanza del realismo popolare e naturalistico”.

Secondo De Michelis, è “un racconto lirico, alto, limpido, teso. Un canto commosso e appassionato che evoca intatta la primitiva bellezza dei luoghi, la forza viva e feconda della natura, la sua crudele ferocia, e dà corpo e sostanza all’umana figura del vecchio che esaurisce ogni propria risorsa trasformando la vita in esaltato e furente eroismo”.

Giovanni Comisso si era innamorato di un altro romanzo stralunato, “La Vaca Mora” (Vallecchi, 1964), dal nome con cui era popolarmente chiamato un trenino che saliva dal Delta del Po alla laguna di Venezia. E’ la tragica avventura di due scapestrati giovanotti nella favola dolce e pietosa della vita. Ambientata nell’immediato dopoguerra. Comisso aveva proposto “La Vaca Mora” per il Premio Strega. “Spero che tu lo vinca perché lo meriti”, gli scrisse in un’accorata missiva. Salvo a riscrivergli qualche mese dopo, in una lettera del 15 giugno 1965: “Sono tutti dei bei porci. A te non darti lo Strega, a me il Marzotto”. E aggiunge: “Funzionano sempre gli intrighi romani”. Era più di mezzo secolo fa. Nulla sembra essere cambiato.

Ma non bisogna dimenticare il romanzo d’esordio di Cibotto, quelle “Cronache dell’alluvione” tenute a battesimo nientemeno che da Eugenio Montale, un libro che racconta la tragica alluvione del Polesine del 1951. E poi “Stramalora” sul disastro del Vajont, “La coda del parroco” che suscitò scandalo nell’Italia perbenista dell’epoca, e gli procurò più di qualche grattacapo, anche di tipo familiare, per il tono scanzonato e, secondo alcuni, irriverente.

Ma nemmeno le polemiche fermano “Vento”. “Vento” non si ferma davanti a nessun ostacolo. Mai. “Vento” va di qua e di là. “Vento” non trova mai pace. Dopo gli allori e gli anni romani, spinto da qualche folata più impetuosa delle altre, a un certo punto lascia tutto inaspettatamente, e fa ritorno, chiamato da chissà quale richiamo, alla sua terra natale, quel Polesine aspro e dolce, di cui si fa cantore insuperabile.

Ed è qui che lo ritroviamo, negli anni della maturità, ma sempre ancora eternamente fanciullo, fuori dall’osteria di Pila, con il fumo del suo toscanello che è un filo bianco, sottile, che il vento tra le canne porta via. Certe notti di luna tonda, quando lo prende qualcosa, corre qui, dove il Po si stende e si allarga. “Vento” misura i passi lenti sull’erba, sopra l’argine. Sta in silenzio. Ogni tanto si ferma e ascolta il fiume che dorme, e affiorano volti e ricordi, e storie lontane e sogni di storioni.

“E’ tutto diverso qui –dice- perché il tempo rallenta, perché si respira un’aria strana, un’aria antica, e perché ti dà l’idea dell’infinito. E’ un paesaggio che non finisce mai, guarda, di erba che diventa acqua e di acqua che ritorna erba”.

“Vento” il fuggitivo alla fine è tornato. Ed è tornato proprio qui, in questa che è una terra di fuga, dove arrivavano quelli che scappavano dalla Serenissima Repubblica di Venezia da un lato, e quelli che scappavano dallo Stato Pontificio dall’altro. E’ qui che “Vento” allarga le sue vecchie ali e dà fiato alle vele più intime, lascia scorrere i versi del suo canto dell’anima, e lo fa con una linfa e una freschezza impreviste, impastate di ironia e di eleganza, di saggezza e di distacco, e pervase da una sottile malinconia.

“Le sere di nebbia fonda
quando tutti restano in casa
e le strade diventano vuote,
si cammina come dentro un sogno
fatto a occhi aperti.
E le parole dette agli amici
restano calde intorno a noi,
senza dissolversi nel freddo
ormai divenuto la vita”.

Sono versi di una poesia intitolata “Caligo”, contenuta nel libro “Amen” edito da Marsilio nel 1998.

Ed è qui, nell’ora del tramonto, che riaffiora, dolce e possente, anche l’amata lingua madre.

“Ormai so’ deventà ‘na fogia
sbatua dal vento
che da matina a sera
urta contro muri, porte, alberi,
senza trovare mai requie”.

Se non, talvolta, nel silenzio…

“El problema serio
no’ xe d’essere mona
ma de crederse
omeni de inzegno
che pol dir la sua
su tuto e su tuti
quasi el silenzio
no’ fosse sempre
più importante”.

LA PAGELLA

Gian Antonio Cibotto: voto 10

Gian Antonio Cibotto (a sinistra) con Giancarlo Marinelli …

Il Principe (non è) stanco