Il Tesoro di San Marco
Memoria di un veneziano trapiantato all’Isola d’Elba
Ricordo benissimo, a quasi dieci anni dal mio arrivo all’Elba, i pensieri che passavano per la mia mente durante la traversata in nave tra Piombino e Portoferraio…mi riportavano indietro all’età dell’adolescenza, al ricordo di mio zio Antonio detto Toni che di professione faceva la guida turistica e il sabato o la domenica — spesso ambedue i giorni — mi rapiva dal campetto da calcio dell’oratorio e dai miei compagni, e mi portava con se` e con i gruppi di turisti che accompagnava: lui mi ripeteva che un veneziano, se non altro per il dono ricevuto di esser nato e di vivere in una città così importante e ricca di storia, aveva il dovere di conoscerla a fondo, e di goderne le ricchezze e i suoi tesori d’arte.
Fu così che conobbi Palazzo Ducale, la Sala del Maggior Consiglio, le Prigioni dei Piombi, la maestosa Basilica di San Marco così ricca di tesori d’oriente, per passare poi alle Gallerie dell’Accademia dove fui letteralmente folgorato dalla Tempesta del Giorgione, al Museo del Settecento veneziano di Ca’ Rezzonico, progettato dal quel Baldassare Longhena che qualche anno prima realizzò la Basilica della Salute, che i veneziani vollero erigere per ringraziare la Madonna dalla liberazione dalla peste, che in poco più di un anno decimò la popolazione, per finire poi con la Scuola Grande di San Rocco con oltre settanta opere di Tintoretto oltre a Palma il Giovane e Tiziano. Queste visite, alcune delle quali erano spiegate in Inglese o Francese, e quando andava bene in Spagnolo, lingua simile per assonanza al dialetto veneziano, durarono per circa quattro anni, dai miei dieci anni ai quattordici, fino a quando fui distratto dall’interesse per la musica… un grande amore che mi accompagna ancora.
Ma che cosa c’entra tutto ciò – direte – con l’Isola d’Elba? Quale sarà stato il filo conduttore che ha portato i miei pensieri a quello che vi sto raccontando? Semplice: è tutto racchiuso in un nome. Ma che nome! Quello, nientemeno, di Napoleone!
Questo nome ricorreva sempre quando mio zio spiegava che il leone e i quattro cavalli di bronzo che ornavano la basilica di San Marco, furono trafugati, assieme ad opere di Tintoretto, Tiziano, Tiepolo e tanti altri, da colui che, di fatto, proclamò la fine della Serenissima Repubblica di Venezia: Napoleone, appunto, che li fece sfilare ostentandone la grande bellezza a Parigi, lungo la riva della Senna, sino al Museo del Louvre. E ricordo che spesso chiudeva il discorso su Napoleone, dicendo che qualche anno dopo tali scempi, fu mandato a governare l’Isola d’Elba, da dove poi fuggì dieci mesi più tardi.
Ero ancora poco più che bimbo – consentitemi il toscanismo anche se da veneziano – e ogni volta che zio Toni parlava dei saccheggi di Napoleone, ed in particolare dei quattro cavalli di bronzo, mi chiedevo: «Ma come e da dove sarà mai arrivata questa quadriga fin sopra alla Basilica di San Marco?» Non ebbi mai il coraggio di porre codesta domanda a zio ma, dopo qualche anno volli documentarmi, e scoprii la provenienza dei quattro cavalli di bronzo (e anche d’argento per la verità): furono trafugati dai veneziani durante la quarta crociata, portati via di peso dall’Ippodromo di Costantinopoli! Non ho avuto l’opportunità di approfondire il discorso perché, nel frattempo zio Toni era passato a miglior vita, come si dice, addormentandosi con il capo adagiato su uno dei suoi tanti libri che, casualmente, si intitolava Il Tesoro di San Marco.
Zio Toni abitava a cinquanta metri da Piazza San Marco, confessava di avere una sorta di dipendenza dal Paron de Casa, il padrone di casa, come i veneziani affettuosamente chiamano il Campanile, e che a volte si alzava anche di notte per ammirarlo e, come diceva lui, «a ciapar ‘na bocada de osigeno». Viveva da solo; non si sposò mai perché l’amore che provava per l’arte e la sua Venezia, gli bastava, lo appagava, e il tempo che dedicava allo studio e al lavoro non gli avrebbe mai consentito di avere moglie, tanto meno figli. Il destino comunque gli consegnò ben sei nipoti, ai quali non fece mai mancare il suo affetto, e spesso la paghetta; voleva sempre essere informato sui nostri progressi scolastici, gratificandoci ad ogni successo, e spesso ci faceva ritrovare assieme per condurci a visitare un Museo o una Mostra d’Arte, che poi, inevitabilmente, si concludeva con il gelato se era estate e la cioccolata calda con la panna se era inverno. Credo comunque di esser stato il nipote che gli dava più soddisfazione, in quanto, ero l’unico che si portava al seguito nel suo lavoro.
Noi nipoti ci ritrovammo, oramai da adulti, a casa dello zio, poco dopo la sua morte, per decidere su cosa fare dei quasi cinquemila libri che ci aveva lasciato.
Traboccavano dappertutto, pile di libri ovunque, negli armadi, in cucina, persino sotto il letto, per non parlare del bagno. Ma non erano semplici libri, alcuni erano del Seicento e del Settecento, e contenevano delle bellissime stampe in incisione. Pensammo, quindi di donare l’intera collezione alla Biblioteca Marciana, sicuri che zio Toni ne sarebbe rimasto felice… Ben presto capimmo che la strada era difficile: avremmo dovuto preparare un inventario dettagliato di tutti i volumi, una perizia tecnica, chiedere autorizzazione al Ministero dei Beni Culturali… il parere alla Soprintendenza alle Belle Arti… insomma, giorno dopo giorno con qualunque funzionario parlavamo, venivamo scoraggiati dall’intraprendere l’iter burocratico che ci avrebbe consentito di donare quei volumi.
Fu così che, su consiglio di un nostro amico che era docente presso l’Università di Udine, decidemmo di regalare alla Biblioteca dell’Ateneo i libri più antichi e rari, anche perché ci avrebbero pensato loro a risolvere la questione burocratica. Ma fatto questo, ci rendemmo ben presto conto che i libri rimasti erano sempre tantissimi e a questo punto non restava altro da fare che spartirsi il resto dei libri. Li dividemmo in sei lotti ed estraemmo a sorte. A me, guarda caso, toccò proprio il lotto dov’era compreso Il Tesoro di San Marco. Inutile dire che ne fui felicissimo.
Ora però il problema diventava di ordine pratico. I trasporti a Venezia sono già complicati, e nel mio caso ancora di più; i miei cugini, che abitavano poco distante, si organizzarono con alcuni carretti, e numerosi e volenterosi amici che li aiutarono. Il problema restava per me e mio fratello: infatti dovevamo trasportare i miei settecento volumi, più altrettanti suoi, da Piazza San Marco fino al Lido, attraversando la Laguna. Uno dei miei cugini notò il mio sguardo sperduto che si incrociava con quello sconfortato di mio fratello… e allora intervenne, per rompere il disagio, mettendosi a disposizione con la sua topa (questo però non è un toscanismo: si tratta di una tipica imbarcazione da Laguna lunga circa sette metri, caratterizzata dalla poppa piana e che viene utilizzata sia per il trasporto di persone che, data la capienza, anche per quello delle merci).
Ricordo che passammo tutta la domenica mattina a caricare libri. Era il mese di luglio e c’era un caldo afoso. Non ci sentivamo più le braccia. Finalmente, dopo aver mangiato un paio di ristorativi panini con il musetto (un insaccato molto simile al cotechino), salimmo in barca e salpammo con destinazione Lido. La traversata dura circa un’ora in condizioni normali, ma con quel carico, ci avremmo impiegato almeno il doppio del tempo. Il bordo della barca era quasi a pelo con l’acqua della laguna, che per fortuna era calma e liscia come l’olio.
Poco dopo aver superato l’Isola di San Giorgio, incontrammo parecchie barche con famiglie veneziane, che, come tradizione, trascorrevano la domenica in barca a prendere il sole, mangiare e bere, e farsi un tocio, cioè calarsi in acqua per cercare un po’ di refrigerio. Il moto ondoso, provocato da questo traffico di barche, cominciò a far ondulare la nostra povera topa ed inevitabilmente imbarcammo acqua.
In quel momento mi venne in mente lo zio Toni, l’amore viscerale che provava per questi libri comprati in tutto il mondo, in tutte le lingue, bastava che parlasse di Venezia e della sua arte… tutta la sua vita stava per andare in fondo al mare, era come se zio Toni morisse un’altra volta… e questa, sarebbe stata sicuramente più dolorosa della prima! Ci togliemmo di dosso quei pochi vestiti che avevamo rimanendo in mutande, e con questi cercammo di coprire più libri possibile.
Mio fratello e mio cugino ridevano, forse era una crisi nervosa, a me invece cominciarono a scendere le lacrime, come se di acqua non ce ne fosse già abbastanza! Non sapevamo cosa fare. Se andare avanti o tornare indietro. Eravamo esattamente a metà strada… Dio volle che in quel momento notassimo la vicinanza con l’Isola di San Servolo. In un lampo mi venne in mente che lo zio raccontava spesso che alla fine del Settecento Napoleone dispose che i pazzi di ogni ceto sociale fossero rinchiusi in quell’isola che così, a tutti gli effetti, diventò un manicomio in cui i matti rimasero fino al 1978, anno in cui grazie allo psichiatra veneziano Franco Basaglia, che ispirò la famosa legge 180, l’Ospedale Psichiatrico di San Servolo, come tanti altri, venne svuotato dei suoi pazienti.
In quel momento San Servolo, l’isola dei matti, rappresentava la nostra salvezza e quella dei libri. Ci rifugiammo perciò all’interno della darsena. Subito il guardiano ci venne incontro chiedendoci se avessimo qualche problema, forse era incuriosito dal fatto che fossimo in mutande. Informato del nostro problema, si prodigò immediatamente, fissando la barca sulle paline, i pali da ormeggio della laguna, ci fece scendere e ci disse di iniziare a scaricare i libri bagnati. Noi, naturalmente, obbedimmo. Ci fece ulteriormente alleggerire il carico e, seguendo le sue istruzioni, effettuammo un primo viaggio al Lido, mettendo in salvo gran parte dei libri. Dopo averli scaricati e parcheggiati nell’ampia soffitta di mamma, ritornammo in Isola dove trovammo il guardiano, che aiutato da alcuni giovani ragazzi, studenti del Collegio Armeno, stava asciugando, con degli stracci, i libri, uno per uno.
Al momento non capii il motivo di tutto questo prodigarsi, fino a quando il guardiano (mi dispiace tantissimo non ricordarne il nome) parlando in stretto dialetto veneziano ci disse: «si vede dalla faccia che siete bravi giovani… e poi, quando ho visto la vostra preoccupazione nell’aver danneggiato un patrimonio così importante per noi veneziani, mi sono pure dimenticato che oggi è la mia giornata di riposo…» A quel punto gli ho buttato le braccia al collo e l’ho baciato su quelle gote che non riuscivano a nascondere la sua passione per il buon vino. Dovevamo ringraziarlo piuttosto e non possedendo denaro, né vino, ma solo libri, andai a frugare nel mio lotto di volumi appena asciugati, presi Venezia Monumentale di Gianjacopo Fontana e glielo donai. In un primo momento fece resistenza, poi lesse nei miei occhi la gioia di donargli qualcosa e a quel punto l’accettò.
Ricordo che dopo qualche anno volli ricomprare quel libro.
Nel frattempo la vista dello Scoglietto di Portoferraio, mi aveva riportato al presente.
Ed ora, caro zio Toni, spero tu possa sentirmi, perché, più di allora, mi sento di ringraziarti per tutto quello che mi hai insegnato, per il mondo fantastico che mi hai fatto scoprire. Manterrò sempre l’amore per la città che mi ha visto nascere, crescere e far crescere le mie figlie, e che mi ha emozionato per oltre cinquant’anni della mia vita… però… però quanto mi piacerebbe che tu venissi a trovarmi all’Elba. Ti farei conoscere anch’io tante cose bellissime di questa bellissima isola. Qui, forse, non ci sono tante opere d’arte come a Venezia, ma credo che Dio abbia già regalato tanto a quest’isola: vedessi che mare, che natura, che colori. E ogni (non soltanto nei centenari) si celebra nell’isola l’arrivo di Napoleone… proprio quel Napoleone che a Venezia non era molto amato… e nemmeno da te… vedessi quanta gente ad accoglierlo al Molo… e come sono dispiaciuti quando simbolicamente se ne va… ma lo sai: credo fosse un uomo, con tutti i difetti e le debolezze da uomo, ma di un intelligenza molto raffinata.
E poi, ho visto che lui in dieci mesi ha fatto tanto per questa isola. Io, che ti scrivo da qui, ci sto molto bene. Ho trovato l’amore, la serenità, molti amici, con i quali condividere momenti di allegria e qualche volta di confronto… Poi, devo confessarti una cosa, una cosa molto importante: una parte di quei libri, i più belli, me li sono portati qui… in quest’isola, a poche centinaia di metri di distanza da dove, duecento anni fa, risiedeva Napoleone. Spesso li prendo in mano e li ammiro. Guardandoli è come se avessi portato un pezzo di Venezia con me all’Elba… e poi, sai come desidererei andarmene da questa meravigliosa Isola? Mi piacerebbe addormentarmi, stringendo la mano di mia moglie… e con il capo chino, in segno di rispetto, su quel libro… Il Tesoro di Venezia, dove ti addormentasti anche tu, senza la mano di una persona cara, purtroppo, ma con le pagine aperte, come se fosse un grande abbraccio, da parte di chi hai più amato nella tua vita… Bondì sio…★