La domenica sportiva
a San Bifolco

Il salottino letterario del Ridotto

Per sorridere un po’ (ce n’è bisogno di questi tempi), vi proponiamo, per il nostro salottino letterario, un nuovo racconto breve (e immaginifico) del poeta e scrittore Pietro Pancamo. Editor dai gusti raffinati, firma de «Il Cofanetto Magico», curatore radiofonico di rubriche letterarie, con la silloge di poesie «Il silenzio stonato» (Edizioni Thyrus) ha vinto il premio letterario «Città di Torino». Tra le altre sue imprese, ha fondato e diretto il portale culturale «L(‘)abile traccia» e ha collaborato alle pagine culturali di quotidiani e periodici. Ha pubblicato anche la raccolta di novelle «Sia fatta la tua comicità» (Cletus production) e il volume di versi «Manto di vita» (LietoColle). Una scrittura brillante e innovativa, di ispirazione classica, e ricca di humour.

Buon Gesù, autore dell’umanità squinternata che abita il mondo, ascolta il mio inchiostro e la mia voce: San Bifolco Primigenio era il tuo antico tempio, nonché luogo di culto, in cui noi contadini di Sant’Arello ci riunivamo per celebrare il mistero della morte e resurrezione.

Seduti sulle panche, prestavamo orecchio e attenzione alle omelie del parroco, Don Giovanni Naiolo. Il quale “Diletti figlioli” – soleva annunciare ogni domenica dall’altare – “è il momento dell’Eucaristia: rendiamo grazie perciò a Dio… e un bell’applauso all’ostia consacrata”. E mentre noi fedeli battevamo le mani a scroscio, il prete sollevava con gesto intenso la pisside rilucente. Dopodiché, atteggiando il volto a mistico raccoglimento, la riabbassava lentamente estraendone infine un’impeccabile ostia tonda e immacolata, che porgeva ieratico ai bravi chierichetti. Essi, profondendosi in movenze solenni ed aggraziate, s’impadronivano con reverenza del pio dischetto, contenente il tuo corpo. Quindi lo adagiavano delicatamente in un vezzoso sacchetto di seta profumata che, tramite una cordicella esile ed un sistema di carrucole, issavano rapidamente in cima ad un crocifisso poderoso e svettante. Proprio quello che Don Naiolo aveva fatto erigere al centro del transetto, ordinando espressamente che arrivasse a sfiorare le capriate della chiesa.

Ebbene quando il sacchetto, al culmine della sua “ascensione”, s’arrestava a coprire in parte il cartiglio siglato dalla scritta “INRI”, noi Sant’Arellini smettevamo all’istante di acclamare l’ostia, e subito iniziavamo a spostarci verso il portale di San Bifolco. No, non per uscire. Ma per suddividerci coreograficamente in due gruppi: uno per ciascun rione del nostro paese. Io ero fra gli uomini della Zappa, che si sistemavano sempre a destra dell’ingresso; i rappresentanti della Forca si mettevano invece a sinistra.

A questo punto Don Naiolo, arringandoci dal pulpito, esclamava in toni profetici da imbonitore: “Alleluia, fratelli e sorelle! Voi conoscete le regole, o meglio i comandamenti, del “Crocifisso della cuccagna”. Primo: ad un mio cenno, il campione della Zappa e il portacolori della Forca, partendo dal limitare della navata mediana, si lanceranno di corsa e a precipizio in direzione del crocifisso; secondo: si arrampicheranno veloci, a forza di muscoli; terzo: colui che, scalato il crocifisso spilungone, avrà saldamente abbrancato il venerabile sacchetto in cui i miei valletti hanno testé sigillato l’ostia simbolica, vincerà senza dubbio alcuno un soggiorno gratuito a Evangelic World (il nuovo parco di divertimenti cattolico, di recente inaugurato dal Papa in Vaticano). Ma soprattutto acquisirà per sé e il suo rione il diritto ad usufruire, per questa domenica, del sacro e inviolabile servizio pubblico della divina Comunione. Al contrario il perdente verrà escluso dall’Eucaristia e così gli appartenenti alla sua contrada. Che dovranno dunque sperare in una miglior fortuna, domenica prossima”.

Sbrigato il cerimoniale delle istruzioni, Don Naiolo si frugava brevemente e con affanno: ispezionati inutilmente i paramenti, investigava trafelato nelle tasche della tonaca, tirandone fuori (con sollievo) una tua immaginetta spiegazzata. Col tipico gesto dell’arbitro che ostenta il cartellino, la mostrava per un attimo all’assemblea dei contendenti (dischiusi in due come nell’Esodo il Mar Rosso) e subito avvicinatala al viso, la sfiorava con le labbra, simulando e rievocando ad un tempo il famoso bacio di Giuda. Era il segnale. Era il via! La battaglia si scatenava incontrollabile.

Devi sapere infatti, caro Gesù, che durante il discorso di Don Giovanni sulle modalità e i premi della gara, i membri dei due rioni ne approfittavano per consultarsi e confabulare concitatamente. E al termine di una discussione tanto rapida quanto isterica e burrascosa, decidevano chi incaricare della prova. Così, quando il sacerdote arrivava a pronunciare le ultime frasi della sua introduzione, i prescelti (che di norma erano due baldi ventenni, d’età acerba ma di muscoli maturi) eran già pronti all’imbocco della navata centrale. E appena il parroco, in un silenzio religioso (o forse eretico ed osceno, dato quello che stava per accadere), scoccava melenso il bacio di Giuda, altro non dovevano fare, i giovanottoni, che scaraventarsi furiosi alla ricerca della vittoria.

Si producevano allora in uno scatto furibondo e frenetico. Intanto, mentre sfrecciavano atletici e spalla a spalla lungo la stretta corsia che, passando fra i banchi della chiesa, conduceva al crocifisso, non trascuravano di picchiarsi ardentemente, nel virile e vicendevole tentativo di eliminarsi brutalmente. Ciascuno dei due, insomma, desiderava rimaner solo e involarsi beatamente, senza più intralci, a ghermire il sacchetto della discordia. Anzi della cuccagna.

La scazzottata deambulante e assassina imperversava fino ai tre preziosi gradini di travertino che, in San Bifolco, separavano la navata centrale dal transetto. Il quale era occupato per intero da una piattaforma marmorea lievemente sopraelevata, su cui sorgevano l’altare e, poco più indietro, il crocifisso. In genere, superata d’un balzo la piccola rampa, i due demoni incolleriti ed eccitati, cessando di combattersi, schizzavano l’uno a sinistra, l’altro a destra dell’altare, raggiungendo poi (con impeto “missilistico”) la base del crocifisso.

Qui i due razzi antropomorfi, ribollenti di energia e volontà d’imporsi, cominciavano immediatamente ad inerpicarsi verso l’alto, con colpi di reni impressionanti. Chi stava davanti, scalciava imbizzarrito con l’obiettivo di calpestare in faccia l’inseguitore e buttarlo a terra con violenza; chi stava dietro, si difendeva dribblando con repentini scarti del collo i piedi irrequieti e focosi del rivale e si studiava, inoltre, di afferrargli una caviglia od un polpaccio, da scuotere e tirare crudelmente.

Se lo strattone era rude a sufficienza, il nemico crollava di botto sulla piattaforma, spesso fratturandosi qualche osso indispensabile e determinante. Quando il concorrente che cadeva, si sfracellava scompostamente perdendo la vita o comunque ogni possibilità di continuare la lotta, subito dalla torma dei suoi compagni rintanati in fondo alla chiesa, prorompeva al galoppo un sostituto che urlando: “All’attaccooo!!”, si proiettava (smanioso d’energia rombante e marinettiana) alla conquista del sacchetto. Poi, transitando a passi forsennati sul corpo frantumato del predecessore, si scagliava su per il crocifisso protendendo la testa, la bocca e i denti a mordere (insaziabilmente!) le gambe e gli stinchi del contradaiolo avverso. Costui, non ancora in cima, si sentiva dunque azzannare all’improvviso, con forza. E con una tale, atroce perizia che, per quanto abbarbicato al legno della croce, poteva anche abbandonare la presa, per un istante fatale, scivolando irrefrenabile all’ingiù, a coinvolgere l’aggressore in una rovinosa catastrofe a due che aveva come destino inevitabile un tonfo marchiano al suolo.

Gli echi delle ossa, che piombando dall’enorme altezza del crocifisso, si spezzavano nell’impatto, venivano subito coperti dagli schiamazzi luculliani di due nuovi sostituti che, sprintando nevrotici e dementi per la navata centrale, si tormentavano di pugni alla volta del crocifisso. C’erano domeniche in cui i morti aumentavano a dismisura: si affastellavano sulla piattaforma, accatastandosi in uno strato consistente e funereo, che Don Naiolo e i chierichetti provvedevano a sfoltire ogni dieci o quindici minuti, trasportando in sagrestia i cadaveri più ingombranti e grossi.

In questo modo i guerrieri dell’ostia avevano a disposizione uno spazio maggiore e, in prossimità del crocifisso, non erano costretti a rallentare o fermarsi, per scavalcare con attenzione il cumulo dei defunti. Che a me, non lo nascondo, fu molto utile, quando anch’io dovetti sobbarcarmi la fatica di strisciare in verticale verso il traguardo, ossia il sacchetto eucaristico, tanto ambito e disputato. Ero entrato in gara come sostituto, starnazzando grida “belliche” e, con foga delirante, avevo disarcionato dalla croce il mio antagonista. Insistendo poi con ferocia alpinistica ad issarmi e salire, stavo già per superare il tratto più difficile della scalata: quello in cui bisognava affrontare e valicare il tuo corpo ligneo e immobile, inchiodato per sempre nell’atto di sorbirsi eroicamente la sofferenza del Golgota.

Per aiutarmi e filare via più spedito, pensai d’aggrapparmi al tuo braccio sinistro. E qui il disastro: l’infido arto (di mogano friabile e “arrendevole”, dovuto ai denari scarsi e indigenti avanzati a Don Naiolo dopo le spese per il crocifisso) non resse minimamente il peso, troncandosi anzi (oserei dire con prontezza di riflessi) in corrispondenza del polso e dell’ascella. Mi rimase così in mano, mentre (sollecitamente) precipitavo a schiantarmi. Per fortuna il mucchio soffice delle salme e dei feriti mi accolse gentilmente, attutendo la mia discesa a capofitto, che si concluse, allora, senza danni o contusioni, e con un semplice svenimento. Però il terrore che provai mi spinse a ragionare. Mi chiarì le idee, cominciando a farmi nutrire dubbi nerboruti sulla santità e opportunità di quel subdolo giochino, denominato “Crocifisso della cuccagna”.

Un giochino regolarmente accompagnato e ornato dal tifo indiavolato dei rioni. Perché se i più ginnici e robusti andavano gagliardamente al macello nel tentativo di accaparrarsi l’ostia, coloro che restavano in fondo a San Bifolco, in attesa di diventare eventualmente sostituti, si esibivano in cori sguaiati d’incitamento e supplica. Come dimenticarli?

“Signore alè, Signore ohò” – berciava la Zappa ad una sola voce – “la vittoria dacce ’m bò!”. “Alè–lu–ià, Alè–lu–ià” – replicavano i Forcaioli con cadenze da stadio – “siam truci come ultrà e la vittoria abbiamo già!”. “Dio vi odia e vi distruggerà” – ribatteva la Zappa, declamando all’unisono un insulto in rima – “Vi seppellirà schifosi indegni nella cappella degli Scrovegni!”. Le preghiere si riducevano, insomma, a squallide e inviperite gazzarre verbali da incontro di calcio e nel frattempo Don Naiolo sorrideva estasiato, dal pulpito: “Oh fratelli, è miracoloso” – tripudiava giulivo – “il fervore con cui partecipate alla Messa! Sì! Sì, pecorelle incontaminate del Buon Pastore: implorate l’Onnipotente, fomentatelo ad esaudirvi! Ed Egli… vi obbedirà! Alè–lu–ià!”.

Il crocefisso di Don Camillo (fonte: ilgiornaledelpo.it).

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