La farfalla

Non ho mai visto nessuno camminare come una farfalla, intendo con quella sensazione di gioia, freschezza, naturalezza e leggerezza, che solo loro hanno. È così ammirevole la spensieratezza con la quale affrontano una vita così breve, che vorrei poterla trapiantare in tutte le persone condizionate da pensieri, pregiudizi, rancori, malattie, e vedere il loro volti risplendere di gioia perché inebriati di libertà.

Penso all’energia della luce e al tepore del sole primaverile capace di risvegliare la natura sopita da un inverno congelante, e soffro all’idea di quanto le persone si ammalino dei mali più ignoti. Non mi so dare una risposta sulla consapevolezza che la farfalla possa avere della sua imminente fine, ma voglio credere che lei viva ciò che c’è da vivere senza condizionamenti. Credo non possa essere altrimenti, perché non riuscirebbe di certo a essere così, semplicemente e dannatamente sé stessa.

Penso che il significato della spensieratezza sia codificato nel gene della libertà alla voce: essere sé stessi! Ma parliamoci chiaro, cerchiamo di essere onesti: quanti di noi si sentono veramente liberi? Allora ripenso a quella farfalla e alla magia che porta con sé. E capisco, capisco che è sufficiente essere fieri di sé stessi, di quello che si fa quotidianamente, e così ignoranti e non inquinati da condizionamenti per capire che l’unico modo per vivere è quello di seguire il flusso energetico della vita.

I bambini spesso ci mostrano questa semplicità. Perché allora li massacriamo con condizionamenti educazionali, e li imprigioniamo in una gabbia dorata fatta di limitazioni e di imbrogli?

Lei, l’ho incontrata per caso, camminava proprio come una vera farfalla, leggiadra e spensierata. Credetemi se vi dico che non ho visto la sua bellezza fisica, che non sono rimasto colpito da seni turgidi o glutei marmorei. Semplicemente ho guardato, e mi è venuta voglia di sorridere, quasi di correrle incontro, anche se stupidamente non l’ ho fatto.

La vita è un patchwork fatto di attimi intrecciati nell’isola che non c’è, sospesi grazie alla magia di trilly e sommersi nella coscienza del grillo parlante, tutto qui in un fanta movie hollywoodiano triste o allegro, con coreografie essenziali, mediocri, raffinate o esagerate a seconda del regista che le conduce.

Una vita che segue le mode e che ha bisogno di tatuarsi una frase o un’immagine su un corpo che non riesce più a esprimersi da solo, un corpo che necessita di una memoria scritta, un corpo che ha bisogno, in questo periodo di crisi dei valori, di mostrare il proprio logo, il marchio che sancisca l’identificazione e l’appartenenza a quella casta, volutamente «diversa», fatta di individui che saranno un timberland, un prada, e via così…

Lei il suo marchio l’aveva tatuato nella semplicità e nella leggerezza del suo apparire, così come Ivan, un cameriere di centonovanta chilogrammi capace di danzare tra i tavoli ed essere reattivo come il grilletto di una colt. Anche lei, come Ivan, svolazzava indisturbata dal suo fardello…

Afef è il suo nome. Magrebina, francese di nascita, passeggiava con il suo bel cucciolone sul litorale del Lido, era un pomeriggio di fine estate. Nuotavo dribblando le emozioni, infastidito solo da quel clima instabile che a corrente alternata dava e toglieva luce. Il mare calmo era sicuramente invitante, la luce intensa riusciva a oltrepassare la superficie dell’acqua mostrandomi il fondo sabbioso. Mi tranquillizzava.

Il metronomico e cadenzato respiro tra una bracciata e l’altra si accavallava con i miei pensieri, e quel mare con il suo turchese amico, si trasformò di colpo in cupo e tenebroso, riportandomi all’ancestrale timore per l’acqua. Mi fermai, tolsi gli occhialini e lo guardai, non era poi tanto diverso da quando mi ero gettato, anzi le nuvole scure sospinte dal vento di maestrale avevano portato la coda di un brutto temporale ad oscurare il cielo. Il freddo mi faceva orripilare i peli suggerendomi di rifugiarmi nuovamente in quel mare che solo pochi istanti prima mi aveva così inquietato.

La prima pioggia rimbalzava sull’acqua e il vento freddo increspava leggermente la superficie, il sole andava e veniva, ma tutt’attorno era buio eccetto all’orizzonte dove le navi in rada sembravano immerse in una luce divina. Mi feci coraggio e ripresi a nuotare, avevo la mia meta da raggiungere, e anche se ero a una ventina di metri dal bagnasciuga con l’acqua poco più alta di un metro e mezzo, non mi sentivo al sicuro dal solito, ipotetico, patetico, attacco dello squalo.

Un po’ impaurito, tra una bracciata e l’altra mi guardavo attorno in cerca di riferimenti rassicuranti, ma i messaggi di tranquillità comunque non arrivavano. Nessuno passeggiava sul bagnasciuga, nuvoloni neri all’orizzonte, con i classici fulmini, mi facevano pensare alla folgorazione, ovviamente sempre e solo la cosa più tragica. Per distrarmi incominciai a pensare a cosa avrei dovuto fare una volta uscito dall’acqua per proteggermi da tale evenienza.

Bagnato e isolato, l’unica cosa che mi veniva in mente era: «stai lontano dagli alberi». Ma lì, in piena spiaggia, di alberi non ce n’erano di certo. Pensavo allora che avrei potuto appallottolarmi come un riccio, ma per fortuna il temporale sembrava voler rimaner confinato in zona Cavallino, quindi tutto quel pensare servì solo a trascinarmi avanti. Raggiunsi finalmente la mia destinazione ai piedi della diga di San Nicoló, e fiero del risultato raggiunto mi alzai sfilandomi gli occhialini, immersi di nuovo la testa sott’acqua e buttai i capelli all’indietro risalendo.

L’aria era pungente, il clima strano. Non pioveva più. Qua e là il sole illuminava l’orizzonte. Mi misi ad accarezzare l’acqua e la sensazione sul palmo della mano fu quella del velluto. Non ci credevo, e l’accarezzai più volte dirigendomi a riva sempre percependo la stessa piacevole sensazione. Uscii dall’acqua e il vento cominciò ad alzare la sabbia che si appiccicava al corpo. In lontananza, ma non più di tanto, scorsi la sagoma di una ragazza che mi veniva incontro. Socchiusi gli occhi a causa della sabbia, e per un attimo pensai anche di rimettermi gli occhialini, ma mi sentivo ridicolo e mi limitai a girare la testa dalla parte opposta al vento.

Avrei voluto immortalare quell’affascinante paesaggio, che veramente mi lasciò a bocca aperta, ed ero avvilito dal non avere con me una macchina fotografica, lì in quel momento, tanto che mi ripromisi di comprare una custodia impermeabile per il cellulare così da poter fissare momenti irripetibili come quello che stavo vivendo.

Lungo il litorale non c’era apparentemente quasi nessuno, io acceleravo il passo per non sentire il freddo e alla prima torretta d’avvistamento bagnanti, scorsi un bagnino seduto al riparo dal vento che con una smorfia di solidarietà mi salutò. Poco più avanti, con addosso uno straccetto svolazzante color carta da zucchero, la ragazza si faceva trainare dal suo cucciolone tenuto al guinzaglio, ricordandomi una kitesurfista. Lei infatti era completamente dipendente dal suo cane, il guinzaglio allungato mi ricordava la cavetteria che fissa la vela alla barra d’equilibrio, e il braccio teso strattonato a seguire la volontà del cane, che la faceva volare tra le conchiglie del bagnasciuga. Non sembrava per niente infastidita dall’esuberanza di quell’animale che la trasportava come una foglia in balia del vento, anzi sembrava quasi godersela.

Il vento, quello vero, dal canto suo stava creando una piccola tempesta di sabbia, la spiaggia per chilometri era, almeno apparentemente, deserta, solo la sabbia sembrava voler essere protagonista, tant’è che si mise a coprire ogni impronta lasciata dai precedenti calpestii, creava un effetto nebbia, ed era come se quel giorno, gli orchestratori del momento, il sole, il vento, la sabbia e il temporale, stessero giocando una partita tra loro in perfetto equilibrio. Nessuno prevaricava, e c’era spazio per l’egocentrismo di ognuna di queste forze della natura.

Certo, tutto sarebbe potuto cambiare in un istante, ma così non fu, e io ebbi la fortuna di vedere solo questi mostri sacri della natura bisticciare tra loro. Ero completamente preso da mille sensazioni, e come la frutta in un frullatore stavo rapidamente mescolando tutti quei sapori, ma per fortuna spensi in tempo il macina pensieri quando ancora c’era un pezzo intero di me assieme a un pezzo intero di lei, e fu quasi inevitabile, almeno per me, rivolgerle la parola.

Non sei americana, le dissi, vero?!

Mi sorrise, e come se mi avesse già inquadrato mi rispose: ma che domanda è?

Ho sentito che ascoltavi Hurricane di Dylan, non è da tutti. Poi, portando il dialogo sul binario del saputello, la provocai dicendole: sai, Hurricane racconta la storia di un pugile afroamericano accusato ingiustamente nel 1966 e perseguitato dalla legge; negli anni Settanta tanti presero a cuore la sua storia schierandosi dalla parte del pugile, perché secondo l’opinione pubblica era stato incolpato erroneamente di triplo omicidio. Anche Dylan nel ‘76 con il suo album si fece paladino di questa battaglia giudiziaria.

Beh, per me è stata una patetica americanata della serie fishing for compliments!, le dissi. Potrei essere d’accordo con te, mi rispose, ma erano altri tempi quelli, erano altri americani, era il periodo delle contestazioni nei confronti della classe politica per lottare contro la segregazione razziale. Sgranai gli occhi. Incredulo.

Aveva capito perfettamente il mio giochino e non era caduta nel tranello, aveva capito il mio bluff e la volontaria provocazione. Non potei far altro che inginocchiarmi alla sua impossibile veggenza.

Rimasi un po’ spiazzato, già ero seminudo nel corpo, ora, oltre che ai suoi occhi, lo ero anche nell’anima, ma lei lasciò comunque spazio alla mia estroversione, non si chiuse a riccio. Avrebbe certamente potuto farlo vista la situazione, avrebbe potuto tarparmi le ali per proteggere la sua privacy, e perché no, forse anche la sua incolumità, ma non lo fece. Anzi, continuò il dialogo, ma rincarò la dose e guardandomi con occhi quasi di sfida, mi disse: ma tu cosa ne sai della persecuzione?

Non avevo specchi su cui arrampicarmi, se non le mie fragili esperienze di ex marittimo. Quasi imbarazzato a quel punto, sbattei le sopracciglia come faccio di solito in queste situazioni, deglutii la saliva e le risposi: ho visto, e solo marginalmente, il potere esprimersi attraverso la prevaricazione, ma non conosco personalmente la persecuzione. Nello specifico mi riferisco ai desaparesidos in Argentina, sai ero da quelle parti quando il fenomeno sembrava stesse per esaurirsi, ma il regime militare si faceva sentire ancora con la forza della repressione.

Cosa ti posso dire cara, ma scusa a proposito come ti chiami? Afef, mi rispose, quasi incuriosita dal mio racconto, io Giovanni le risposi.

Evitai di fare altre battute sul suo nome e continuai: ricordo i mitra puntati, ricordo i loro occhi sicuri e di sfottìo, e ricordo la mia volontà di fottermene di quella prevaricazione che mi vedeva inchiodato a un muro e perquisito assieme a pochi amici solo per ottenere qualche pacchetto di sigarette.

I miei amici mi fecero capire subito e senza mezzi termini di adeguarmi e soprattutto di rassegnarmi. Sai, le dissi, andò tutto bene quel giorno, poi però mi raccontarono cosa sarebbe potuto succedere se non avessimo consegnato loro le sigarette, e rabbrividii.

Altro che fottermene, altro che farfalla svolazzante, quelli erano capaci di gettarti in galera per un semplice smacco e gettare le chiavi. Non saprò mai se mi salvai per le sigarette, per la mia spregiudicatezza o perché quel giorno doveva andare così.

Continuammo a passeggiare, e ci accorgemmo, guardando il litorale in lontananza che il lontano hotel Excelsior era immerso in una nuvola di sabbia luccicante, una nebbia fosforescente che accarezzava le increspature delle onde e lo avvolgeva, rendendolo alla vista quasi impercettibile.

Il mio tempo stava per finire, camminando eravamo quasi arrivati in capanna, avrei dovuto prendere i miei vestiti, le scarpe e andare a casa dove sicuramente mi aspettavano. Non sapevo nulla di Afef, e soprattutto non avevo capito se mi aveva parlato di persecuzione perché l’aveva vissuta sulla propria pelle, o se invece lo aveva fatto per il gusto di spiazzare la conversazione.

La guardai negli occhi prima di andarmene e le dissi: sei come una farfalla, Afef, non ti conosco e ho perfino paura, a questo punto, di chiederti qual è il fardello che ti porti addosso. Ma di una cosa sono sicuro: per quanta sofferenza tu possa portare dentro, mi hai trasmesso la sensazione di vera libertà. E forse non è un caso se ci siamo incontrati. Avevo bisogno di un messaggio. E tu, in così poco tempo, e solo guardandoti, me lo hai dato. Mi hai dato tanto.

Ho visto la bellezza della natura, ma ho finalmente capito la bellezza dell’essere uomo. Afef mi abbracciò, mi ringraziò, e così come era arrivata volando si allontanò con il suo cucciolone e lo straccetto carta da zucchero. Di lei non rimasero le impronte sulla sabbia, ma un profondo senso d’amore per la vita.

Tempesta sulla spiaggia, dal racconto La farfalla di…

La farfalla