Lacrime vuote

Il secondo capitolo de «L’anno più difficile della mia vita»

Continua la pubblicazione per capitoli dell’avvincente romanzo di Giovanni Camali, «L’anno più difficile della mia vita». Il secondo capitolo si intitola «Lacrime vuote», e segue al primo, «Il trench di Chloé», che potrete rileggere richiamandolo, con il suo titolo, dal nostro archivio. Ogni mese, in esclusiva per «Il Ridotto», un nuovo capitolo di questa storia appassionante di una psicologa francese in vacanza forzata a Venezia, che alla soglia dei trent’anni vive un rapporto di convivenza tormentata con un trombettista francese. Incerta fra la libera professione e il dottorato di ricerca, la psicologa sente avvicinarsi la fine del suo amore e cerca nuove strade.

Io e Marco in quel periodo, per motivi di lavoro, viaggiavamo spesso separatamente. Lui aveva le sue serate e io ero diventata famosa per l’approccio trascendentale alla degustazione del vino.
Quella sera Marco sarebbe andato a Tolmezzo per una verticale al buio di Pinot grigio, io invece dovevo andare ad Adria per l’inaugurazione di un nuovo locale: Al gatto e la Volpe.
Scaramanticamente non ci sentivamo mai prima dell’evento, ma immancabilmente lo facevamo alla fine per condividere le esperienze. Era ormai mezzanotte e non lo avevo ancora sentito; io ero già salita in macchina, dovevo fare la Romea e pioveva che Dio la mandava. È orribile quella strada, supertrafficata e pericolosissima, tanto che non volli nemmeno usare il cellulare né in uscita, né in entrata finché non raggiunsi Venezia.

Era ormai l’una, di Marco non avevo avuto ancora nessuna notizia e incominciai seriamente a preoccuparmi. Sentivo la necessità di parlargli più di ogni altra volta perché ero inspiegabilmente tesa. Oltre al fatto che avevo avuto un piccolo battibecco al mattino, non vedevo l’ora di risentirlo, coccolarlo e raccontargli della mia serata. Un battibecco di importanza relativa, ma quel giorno sembrava fosse nato di traverso. Si era svegliato con il solito mal di stomaco e, a rendergli il risveglio ancora più amaro, aveva fatto un brutto sogno. Tendeva a immedesimarsi così intensamente in quei suoi sogni che a volte li viveva come incubi, anche se incubi non erano, portandoli nella realtà al suo risveglio. Per fare un esempio semplice, se avesse sognato di essere arrabbiato con me, il mattino successivo lo sarebbe stato sul serio, tanto che, conoscendolo, gli chiesi: «Hai sognato di aver fatto baruffa con me?» Non mi degnò nemmeno di uno sguardo, tantomeno mi rispose se non dopo che gli ebbi portato la colazione a letto, ma non per scusarsi o giustificarsi.

Nient’affatto, semplicemente tentò di spiegarmi quel sogno, quell’incubo, così, dal nulla, senza nemmeno un buon giorno o un ciao: comunque non ci capii niente e glielo dissi schiettamente.
«Chloé», disse, «non c’è nulla da capire, non è un thriller o un film dell’orrore, te l’ho spiegato mille volte, è l’angoscia che il sogno mi trasmette e mi lascia dentro. Se dovessi razionalizzare su ciò che ho sognato, probabilmente mi metterei a ridere, ma io sto male, sto male, sto male, lo vuoi capire!» Mentre lo diceva, non capivo se si riferisse a un dolore fisico o a uno stato d’animo, ma cosa importava? Tanto, quello era il suo mondo e non mi avrebbe fatto entrare. È così che mi feriva e incominciavo a piangere. Piangevo perché mi toglieva la possibilità di aiutarlo, possibilità che lui, invece di considerare un valore aggiunto, vedeva piuttosto come curiosità, come una forma di controllo che io avrei esercitato sulla sua mente, e io allora mi incazzavo. Solo adesso capisco, solo adesso capisco che quella scala infinita di note doveva essere lasciata così, libera di muoversi e di esprimersi a piacimento come le mani del pianista sugli ottantotto tasti del pianoforte. Però, quel giorno nemmeno io ero pronta. Certo, direte voi, è questione di timing. Esatto, era proprio questione di timing e quel giorno sembrava che io avessi il fuso orario di Tokyo e Marco quello di New York. Almeno io, di mio, ero giustificata dal ciclo, Marco invece da uno stupido sogno.

«Rispiegamelo», gli chiesi. Ma ormai era svanito dalla sua memoria, lasciandogli solo quel fottuto malessere. A quel punto, fui io a inasprire i toni della conversazione quando ebbe la malsana idea di paragonarmi a sua ex moglie. Ho sempre odiato essere confrontata. Specialmente con lei, ma anche con chiunque altro, e lui sembrava farlo appositamente per il gusto di stuzzicare. Ci trovammo di lì a poco in cucina per il secondo caffè e a lui era già passato tutto, ma proprio tutto, come se nulla fosse stato detto o fatto.
Io? Io invece ero incazzata e incazzata ci volevo rimanere. Quindi ci lasciammo con un «ciao» da parte sua e un «va fanculo» da parte mia, poi bacio, abbraccio ed ennesimo «fanculo» a sottolineargli che, per quanto fossi stata innamorata di lui, stavo facendo fatica. Certo che stavo facendo fatica. Marco è un egocentrico depresso che pensa di poter tenere tutto sotto controllo, è così pieno di sé che, pur accettando il suo stato depresso, si è messo letteralmente a professare il suo concetto rivoluzionario, ‘La depressione positiva’, per giustificare il suo altalenante umore che, a detta sua, doveva essere assecondato. Ovvio che ci risparmiamo l’analisi di una tale ipotesi, però devo ammettere che mi stupisce sempre, è geniale il modo in cui la sua mente elabora soluzioni. Tutto il suo vissuto era un intreccio di rovi dove probabilmente lui stesso si perdeva e si faceva del male. Non so se un’analista sarebbe riuscito ad aiutarlo, comunque lui non si sarebbe mai fatto aiutare, né da un analista, né tantomeno da me. Poi, chi ero io per poter mettere in discussione quella complessa architettura che tanto mi stava affascinando? Con lui provavo un intreccio di emozioni che un altro non sarebbe mai stato in grado di regalarmi, quindi sapevo che me lo sarei tenuto così perché era così che lo volevo. Appena ebbe chiuso la porta, anch’io cercai di lasciarmi tutto alle spalle, però difronte a lui sentivo di non dover essere indulgente, anche per il suo bene.

Ad Adria mi aspettavo una serata divertente, conoscevo il gestore ed ero sicura che l’organizzazione sarebbe stata perfetta. Io mi dovevo occupare di far risaltare il fatto che il gestore, Pietro, avesse investito non poco sull’attrazione enologica del suo locale. Con più di cento etichette di vino ma con un nome, «Al gatto e la volpe», tutt’altro che incoraggiante per un ristorante, sarebbe stato facile per Pietro rischiare il flop. Quindi, visto che lui aveva scelto di farsi beffa della clientela con quel nome, io decisi di adeguarmi a quello stile provocatorio.
Avevo contattato un amico esperto con le maxibolle di sapone. Un palco era stato predisposto per l’occasione e Olivier, per fortuna, catturò fin da subito l’attenzione: era un genio nel suo lavoro e la gente stava rispondendo alla grande. Tutti erano rapiti, come dei bambini, mi sembrava di rivivere la storia di Pinocchio quando rimase imbambolato e imbrogliato dal gatto e la volpe, tutti, con il naso all’insù guardavano e ascoltavano senza distrarsi un attimo. Il momento clou stava per arrivare. Salii sul palco mentre Olivier continuava a lanciare le sue mille bolle colorate; in men che non si dica mi ritrovai avvolta da una gigantesca bolla di sapone che lentamente cominciò a riempirsi di fumo e scomparvi progressivamente agli occhi del pubblico.
Ben presto però quegli stessi occhi cominciarono a vedere le mie nudità. Un lento ed erotico striptease accompagnato da un blend di jazz e hip-hop, tromba di Miles Davis, voce afro e una gnocca (Madame Chloé) che a ritmo sincopato si spogliava per loro. Quando ormai ero quasi completamente nuda, Olivier si avvicinò alla grande bolla, alzò il braccio e cominciò a schioccare le dita scandendo a voce alta: «tre, due, uno!» e la bolla scoppiò da dentro verso fuori, come fanno i popcorn in una pentola. Dieci bottiglie di Franciacorta avevano liberato dai loro colli i tappi di sughero, che come proiettili al rallentatore si stavano portando dietro la traccia del fumo liberatosi dalla bolla esplosa.

Gli invitati, a bocca aperta, aspettavano di vedermi lì, finalmente e completamente nuda, magari anche bagnata dall’esplosione della bolla… e invece io non c’ero. Un tavolino con bottiglie di Franciacorta e dei flûte pieni dell’ottimo vino al mio posto diedero la consacrazione di come poteva essere reinterpretato l’inganno al nuovo ristorante «Al gatto e la volpe». In realtà io non ero nemmeno entrata in quella sfera, Olivier aveva preparato il numero alla perfezione ricreando una emisfera e le mie nudità le aveva ottenute con la retroproiezione di un mio video che, grazie alle particelle di fumo, si materializzò agli occhi degli spettatori, poi pluf e tutti ad applaudire. Ero contentissima del risultato ottenuto e stavo aspettando un momento di tranquillità per chiamare Marco, ma avevo bisogno di un po’ di serenità. Non volevo si esaurisse tutto in una breve telefonata, quindi mi infilai in macchina per affrontare quel maledetto tragitto della Romea che, con quel tempo, mi angosciava. Da Marco, comunque, nessun cenno. Arrivata a Mestre o meglio a Piazzale Roma e parcheggiata la macchina in terrazza al garage San Marco mi misi al telefono. In sottofondo lo scroscio della pioggia sul vetro del parabrezza e manco a farlo apposta dagli altoparlanti, Riders on the storm dei Doors. Marco non rispose né alla prima né alla seconda e tantomeno alla mia ennesima chiamata; allora strinsi il trench in vita e mi incamminai verso casa, pronta per riaffrontare un’altra difficoltà. Ero indifferente alla pioggia, non perché non mi stessi bagnando, più che altro non ci facevo caso, anzi la trovavo quasi d’aiuto in quel momento, come se volesse riportarmi alla realtà dopo un sogno.

Avevo raggiunto i giardini Papadopoli quando il cellulare squillò: era Marco e la mia prima reazione fu quella di non rispondere, ma risposi e una voce femminile mi spezzò il cuore. Era la moglie di Marco. Federica, fredda, acida, mi annunciò che Marco aveva avuto un incidente stradale, ma non feci a tempo a chiedere come stesse, in quale ospedale fosse ecc. ecc. che Federica mi attaccò in modo quasi brutale. Insensibile ed egoista com’era, letteralmente mi minacciò di non farmi più viva e di stare alla larga dalla loro famiglia. A stento trattenni la rabbia, mandai giù il rospo e con tanta fatica riuscii a estorcerle un minimo di informazioni sulle condizioni di Marco. Da quel momento in poi io, Chloé, non fui più me stessa, ebbi solo la forza di affrontare il mostro che mi attaccò fisicamente cercando di strapparmi i capelli e a mala pena sopportai insulti di ogni genere senza capire però quali fossero le motivazioni in grado di scatenare una tale cattiveria. Mi allontanarono dalla sala d’aspetto dell’ospedale e mi ritrovai tremante seduta sui gradini, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani a stringere le tempie.
Le lacrime cadevano, ma la mia emotività era dissociata. Rabbia, paura, angoscia, disperazione e rassegnazione erano parte del corollario del mio stato d’animo, ma non avevo forza di reagire e continuavo a piangere lacrime vuote. Erano ormai le quattro del mattino quando un’anziana infermiera mi avvicinò, mi coprì con una coperta e mi offrì una tazza di the caldo.

«Beva», mi disse. Mi abbracciò come se fossi stata sua figlia, mi accarezzò i capelli liberando la fronte e riabbracciandomi mi sussurrò all’orecchio: «Cara, il Sig. Clanetti ha avuto un bruttissimo incidente e il trauma cranico ha causato un’emorragia cerebrale. È appena uscito dalla sala operatoria, ma è in coma, probabilmente irreversibile. Cosa posso fare per te?»
Da quel momento non scesero più lacrime, entrai in una dimensione parallela e la mia vita si spaccò in due senza che lo volessi. Non mi schiodai dall’ospedale e riuscii a vedere Marco solo grazie all’intercedere di quell’angelo di infermiera che, di nascosto, mise a repentaglio il suo lavoro per un atto d’amore. Le gambe mi tremavano e prima di aprire la porta inspirai profondamente, avevo il camice di protezione e la mascherina perché stavo entrando in sala rianimazione, dove c’erano almeno quattro persone intubate. Angela, l’infermiera, mi mostrò il letto, ma mi trattenne un attimo prima di lasciarmi andare dicendomi: «Salutalo Chloé, salutalo bene, perché forse…» e se ne andò. Tremavo davvero come una foglia, mi avvicinai a Marco e cancellai dalla mia testa i rumori di tutte quelle dannate apparecchiature elettroniche, gli presi la mano e cominciai a parlare.

La mia non fu una confessione d’amore, fu piuttosto una conversazione con il mio uomo speciale, con l’uomo che mi aveva fatto sentire importante, con l’uomo che era presente con i suoi silenzi e le sue contraddittorietà, e continuai a parlargli anche quando mi strapparono da lì perché se n’era andato, anche quando, dopo tanto tempo e per tanti, Marco divenne solo una cara persona da ricordare.

(2-continua)

Bolle di sapone (fonte: Conrad.it).

Lacrime vuote