Le smanie dell’esposizione

Un’illusione provinciale per cleptocrati incalliti

Non fare l’expo sarebbe un suicidio politico. Ci sono stato all’expo. Una volta. E mi è bastato. Era il 1985. In Giappone, a Tsukuba (una cittadina fuori Tokyo). Erano gli anni in cui anche a Venezia si pensava di fare a tutti i costi un’esposizione internazionale. Così sono volato dall’altra parte del mondo per andare a curiosare come giovane cronista. In mezzo a venti milioni di visitatori: non tutti insieme per fortuna, ma anche quel giorno ce n’erano parecchi. Quasi tutti giapponesi, ovvio. Così, per prepararmi mi studiai anche le antiche esposizioni internazionali.

COSMOPOLI — Il tema di Tsukuba, nel secolo scorso, sembrava sensato: L’abitazione e i suoi dintorni — Scienza e Tecnologia per l’uomo a casa. Anche se la traduzione «per l’uomo a casa» sapeva molto di rivista glamour di moda maschia stile grandi firme del pettinato di lana, con relativo inevitabile sarcasmo su pantofole e telecomando. Nell’immensa area — che visitai due volte: in preparazione e in pieno funzionamento — si dispiegava tutto l’assortimento luccicante dei paesi in vetrina. Con grande compiacimento degli anfitrioni che avevano scelto accortamente la città della scienza tecnologica nazionale ad una manciata di decine di chilometri dalla capitale.

Probabilmente perché sono passati quasi trent’anni: ma di tutto ciò che vidi, prima e durante, ricordo solo. In ordine: prima, l’automobile parlante dell’addetto stampa che mi guidò di qua e di là (gli strisciai anche la portiera sul cordolo di un marciapiede in costruzione) con una signorina registrata che avvisava di tutto in un cicaleccio micidiale; durante, il cinema in tre dimensioni piuttosto imbarazzante (uno: animazione fantascientifica di polipo saturniano che si proiettava in platea; due: Michael Jackson in un frenetico balletto); durante, il deludente padiglione italico con il solito uomo vitruviano di Leonardo e varie architetture di regime; prima e durante i takoyaki (polpettine di polpo con salsa agrodolcepiccante, tipico cibo da sagra nipponica) di un chioschetto fuori dell’ingresso.

Un po’ poco, sinceramente. E anche questo poco non è che fosse granché (tranne i takoyaki). Quando tornai a Venezia, passando sopra e attraverso la Cortina di Ferro, imperversava il pentapartito demichelisiano in pieno orgasmo per il fiume di denaro che ogni esposizione internazionale mette a disposizione di tantissimi bellimbusti filibustieri della cleptocrazia internazionale nazionale e regionale e rari benintenzionati illusi dal loro stesso provincialismo. La città era divisa in aspre fazioni che si accusavano vicendevolmente di turpitudini reciproche. Anche se poi la storia ha chiaramente mostrato chi avesse a quel tempo più ragione degli altri.

Tornando alle esposizioni internazionali: l’impressione indelebile è stata quella di un fragoroso parco divertimenti in cui si trovavano cose già viste e sentite da tutte le parti; e molte di quelle che sembravano futuribili non lo furono mai; e come nei libri di fantascienza, la realtà supera sempre l’immaginazione, soprattutto i treni al levitazione magnetica. Al contrario delle fiere, dove gli espositori ci vanno per fare affari e comprarsi le cose uno con l’altro, l’esposizione internazionale che ho visto in Giappone nel 1985 era una vetrina del già visto, del già saputo, dell’ovvio, dell’inevitabile (e del deludente nel caso italico); in cui l’affare lo fa chi la costruisce e si fa pagare il biglietto (in varie forme).

Nell’ottocento le esposizioni internazionali rispondevano a logiche importanti: dimostrazione di superiorità tecnologica (e quindi finanziaria e militare) in una gara sempre al limite del conflitto tra superpotenze e imperi dell’epoca; nel novecento assolvevano alla dimostrazione della superiorità ideologica (e quindi tecnologica e finanziaria e militare) tra super e medie potenze impossibilitate temporaneamente a scontrarsi con le armi (negli intervalli, appunto, tra le guerre mondiali); ma a partire dal secondo dopoguerra la profonda disneylandizzazione della psiche umana, l’incessante accessibilità quotidiana a strumenti di distrazione di massa, rendono vacuo il confronto tra nazioni in un parco a tema tecnologico, qualche che ne sia il motivo. Dall’ottocento a oggi sono passati molti molti molti decenni: nemmeno l’orgoglio nazionalistico riesce a trovar spazio in un mondo in cui le nazioni contano ormai ben poco se non per i nostalgici.

Curiosamente poi, le esposizioni internazionali (non è il caso dell’Italia) sono ospitate anche da paesi al massimo delle loro fortune, che poi tragicamente si sgonfiano. Come nel caso del Giappone di quegli anni, alla vigilia dell’esplosione della baburu, la grande bolla dell’economia nipponica di stato e di tangenti. Per il resto (è il caso dell’Italia) è solo l’ambizione dei mediocri di fare almeno una volta bella figura con una mano di stucco e pittura.

Resta da chiedersi, dunque, per quale motivo non fare l’expo dovrebbe essere un suicidio, se non per i cleptocrati che l’hanno fortissimamente voluta e propugnata. A questo punto sarebbe sicuramente una pessima figura, una resa incondizionata e miserrima. Però potrebbe anche essere un’ottima occasione per togliere tutta l’acqua dall’acquario degli squali da mazzetta; ed evitare anche che i magnifici lavori d’importanza vitale (sono parole sarcastiche, queste) si rivelino poi — come sempre fu è stato e sarà — faraonici inutili costosissimi nocivissimi bidoni sacrificali di cui portare per anni il peso e la vergogna.

Questa volta Andrea Silvestri e il Mauri non avevano voglia, così il Venerdì n’è toccato di scriverlo proprio a me, comunque: salute!!! ★

Tsukuba 1985, la Torre Simbolo dell'esposizione (foto L©).,…

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