L’Orrore del Lupo

Introduzione del Romanzo

Il sole di Santa Monica irradiava di luce, calore e buon umore i fortunati abitanti della piccola frazione di Los Angeles. Lungo il Santa Monica Boulevard, puntellato di fantastici hotel a cinque stelle, di esotiche palme, giardini da sogno e degli immancabili homeless, a ricordo della perenne instabilità della condizione umana, s’incrociavano sorridenti e sudati i vari runners: chi in tuta all’ultimo grido, chi in felpa vecchia e consumata, ognuno munito della sua bottiglietta d’acqua.

Al di là della famosa strada, in direzione della spiaggia e ben visibile in tutta la sua lunghezza, il gigantesco molo si lanciava dritto dentro l’oceano.

Cappellini da baseball e occhiali da sole, sotto ai quali volti abbronzati esibivano smaglianti sorrisi.

Affollati bar e ristoranti lungo la grande costruzione anticipavano un variopinto e movimentato luna park dove la gigantesca ruota panoramica campeggiava trionfale e maestosa.

Ai piedi del molo si estendeva a perdita d’occhio la spiaggia, nota per i surfisti, per la serie tv Baywatch, per i campi da beach volley e gli attrezzi per la ginnastica artistica. Giù verso Venice Beach, poi, campi da skateboard, da basket, da squash e la famosa Muscle Beach Venice dove, tra gli altri, Arnold Schwarzenegger si era allenato all’aperto negli anni Sessanta.

Sotto un terso cielo azzurro, si udiva il vociare di gente rilassata e abbronzata, che passeggiava tranquilla in comodo abbigliamento sportivo.

Trotterellanti cani a guinzaglio lasco.

Palloni arancioni volavano per entrare fruscianti in canestri da basket, osservati mentre erano ancora in aria da sudati uomini di colore in muta attesa. Piccoli palloni da football americano infilavano roteanti l’aria per essere catturati al volo da braccia poderose. Gli skaters, in un’unità apparentemente impossibile tra uomo e tavoletta a ruote, guizzavano da profonde vasche di cemento, per poi ripiombarvi e sparirvi, agili e sicuri.

Lungo la passeggiata, affollata di felici coppie a braccetto e di sorridenti famiglie, accattivanti ragazze in rollerblade, gelato alla mano e capelli al vento, passavano leggere e serene in suc­cinte braghette di jeans e minuscoli top che tutto lasciavano in­tuire, apprezzare e godere, mentre splendidi californiani, tavole da surf sotto braccio, si domandavano se era il caso di seguire l’onda del mare o quella dei capelli delle pattinatóri. Per non parlare degli irriducibili hippies che, seduti insieme ai vari grup­petti di ottimi musicisti dal sound tutt’altro che improvvisato, si scambiavano, allegri e storditi, canne di marijuana.

La frizzante e pacifica atmosfera di Venice Beach era al suo
top.

Ma, improvviso e sconcertante, il suono di una moltitu­dine di sirene squarciò l’aria e la tranquillità della calda matti­nata estiva. Poco dopo irruppe il frastuono di un numero imprecisato di macchine che, lanciate dalle strade laterali rispetto alla passeggiata, andavano a fermarsi accompagnate dal suono stridente degli pneumatici, in agili testacoda.

L’area del parco di fronte alla «vasca» dei pattinatori si riempì in un attimo di lampeggianti auto della polizia. Le macchine non erano ancora completamente ferme quando, in un movimento unico di apertura degli sportelli, urlanti poliziotti balzarono fuori.

Preceduta dall’inconfondibile rumore di caricamento, una moltitudine di armi fu spianata in un’unica direzione.

Ogni possibile accesso alla piccola piazza fu bloccato.
La calda mattinata della piccola Venice Beach si raggelò.
Prima ancora che la gente riuscisse anche solo a capire il perché di tutto ciò, sconcertante, esplose un colpo di arma da fuoco.
Chi si mise a correre, chi si accovacciò sul posto riparando con il corpo quello dei propri cari.

Seguirono le urla della polizia.

Nessuna risposta.

Poi, di colpo, angosciata e stridula, una voce, proruppe nell’aria.
Il terrore di un uomo che non aveva più nulla da perdere. Non che gli abitanti di LA non fossero avvezzi a episodi del genere, tutt’altro. Tuttavia, lo sparo e l’urlo causarono uno shock che si propagò veloce e inarrestabile come uno tsunami.

Occhi spalancati s’interrogavano a vicenda.

Un poliziotto, urlando con tutta l’aria che aveva nei polmoni, intimava i curiosi di allontanarsi dal parco degli skaters, mentre venivano rapidamente evacuati anche gli attigui campi da basket, da squash. Anche Schwarzenegger sarebbe stato portato via, pesi e muscoli annessi, in un solo colpo.

Quello che pochi, da lontano, riuscivano a intravedere erano due uomini che si fronteggiavano, armi in mano, a una decina di metri l’uno dall’altro. Uno di essi, alto, dal fisico asciutto e atletico, portava occhiali scuri che riflettevano il sole alto nel cielo. Una ruga d’espressione segnava le magre guance. Assolutamente fermo, teneva puntata una grossa 44 Magnum.

Dall’altra parte un uomo si faceva scudo con un ostaggio. Una mano stretta al collo tratteneva la vittima in una morsa d’acciaio, mentre l’altra le puntava contro un occhio un’arma da taglio.

Non troppo lontano dal gruppetto era visibile un quarto uomo, anch’egli, come quello della 44 Magnum, immobile.

L’ostaggio appariva paonazzo, mentre quello che lo tratteneva urlava e si agitava in preda a una crisi isterica.

Duncan Moss continuava a tenere sotto mira l’uomo disperato che, a poca distanza, non mostrava di voler lasciare l’ostaggio ormai tremante e piangente di paura. La vittima ora ansimava, tanto forte era la stretta al collo.

Poi, d’improvviso, il braccio mollò la presa al collo e una mano ruvida artigliò il viso del poveraccio, costringendolo ad alzare il mento. Nello stesso istante la lama del grosso coltello da caccia scintillò al sole e fu puntata decisa alla gola del malcapitato.
Lo sguardo dell’ostaggio era di pura incredulità, mentre gli occhi dell’aggressore emanavano una rabbia incontrollata.

Duncan Moss non muoveva un muscolo.

Sguardo fisso e arma puntata.

Portò tutta la sua attenzione e concentrazione sugli occhi dell’aggressore.

Fino a che punto era disposto a rischiare quel pazzo?

E fino a che punto era disposto Duncan Moss a rischiare?

«Duncan-san!» lo chiamò Ken, poco distante da entrambi.

Con voce decisa gli fece capire.

Doveva fidarsi.

Fiducia, stima, reciprocità erano ormai da tantissimi anni alla base del loro rapporto. Un rapporto che andava ben al di là del lavoro e della semplice amicizia.

Quello che condividevano era una delle poche cose alle quali Duncan Moss aveva deciso di credere.

Aveva voluto credere.

E, forse, aveva perfino avuto ragione.

Un minimo gesto e l’aggressore avrebbe affondato, come nel burro, l’affilatissima lama nella gola della vittima.

Moss volse tutta la sua attenzione sull’ostaggio.

«Duncan-san…»

Ken si era girato a guardare l’amico.

La voce ora era quasi un sussurro, ma in realtà il richiamo era molto profondo.

Ken, Duncan Moss lo percepì, faceva appello al loro lungo addestramento, si rivolgeva alla parte più profonda di Moss e alla loro più profonda fiducia e amicizia.

«Lascia fare a me, fratello, lo regolo io» lo sentiva quasi dire.

Braccio disteso lungo il fianco, Ken teneva abilmente nascosto nella mano un piccolo coltello da lancio. Si rigirò a guardare, rilassato ma deciso, l’uomo a poca distanza da loro.

L’aggressore, nel frattempo, non la smetteva di agitarsi e di urlare.

«Devi morire, bastardo».

L’aggressore, mentre parlava, o meglio, mentre sbraitava, lanciava sguardi infuocati, prima verso Duncan Moss e poi verso Ken, stando bene attento a tenersi al riparo dietro il capo della vittima.

A un certo punto girò deciso la testa in direzione di Ken.

A Moss non servì altro e in quella frazione di tempo sparò il colpo.

La pallottola spappolò all’istante la tempia destra dell’attentatore.

La parte opposta del cranio esplose in un’orrida rosa di sangue, materia grigia e ossa.

L’uomo balzò indietro di un metro per il colpo, portan­dosi nel salto anche l’ostaggio.

Ken corse per assicurarsi non tanto del successo del tiro, quanto delle condizioni della vittima.

«Tutto a posto, Ken-san. È regolato.»

Il sole di Venice Beach batteva sugli occhi di Duncan Moss, costringendolo a strizzarli e mettendo ancora più in evidenza le rughe di espressione che correvano lungo le guance.

«Grande lavoro, Duncan-san, come sempre.»

«Sì, finché va…» disse Duncan Moss riponendo la grossa arma nel fodero e guardando di malavoglia la torma di poliziotti in arrivo.

«Me ne vado, pensaci tu, per piacere, Ken-san. A risentirci.»

Poi, dal profondo del suo sguardo scuro, girò le spalle alla situazione.

Ken-san, in maniera tipicamente orientale, accennò con il capo a un saluto e lo guardò di spalle mentre, allontanandosi, si accendeva un sigaro.

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