Ma famille

L’ottavo capitolo de «L’anno più difficile della mia vita»

Siamo arrivati al terzultimo capitolo del romanzo inedito di Giovanni Camali «L’anno più difficile della mia vita». L’ottavo capitolo, «Ma famille», segue al settimo capitolo «Il figlio», al sesto «Il voto», al quinto «Il destino», al quarto «La degustazione», al terzo «Il diario», al secondo «Lacrime vuote», e al primo «Il trench di Chloè». Li potete comodamente rileggere tutti -solo per questa occasione gratuitamente- richiamandoli con il loro titolo dalle pagine del nostro archivio elettronico. Tutti i mesi in esclusiva per «Il Ridotto», una nuova puntata di questa storia che appassiona un numero sempre crescente di lettori: le avventure intriganti di una giovane psicologa francese in crisi di identità alla soglia dei trent’anni.

Trascorsi il mio ultimo mese a Venezia tra alti e bassi, con Alberto ci scambiavamo mail quasi quotidianamente e non avevo mai interrotto i rapporti con Gloria che nel frattempo era tornata dalla vacanza super carica. Che fosse fuori dalle righe l’avevamo capito un po’ tutti, ma questa proprio non me l’aspettavo. Come sappiamo Gloria era un po’ «stramba» e in tutto quello che faceva ci metteva cuore e gran passionalità. Il raziocinio era una parola che non faceva parte del suo vocabolario, diciamo pure che si muoveva in modo istintivo e istintuale, quindi come una persona capace di reagire in modo automatico ma al contempo complicato da motivazioni psicologiche.

L’ istintualità, termine in disuso, mi intriga, perché applicato a Gloria, lo interpreto come parola fusa tra istinto e sex… uale. Dove per l’appunto l’impulso d’origine del suo relazionarsi col mondo trova radici, nel comportamento animalesco della sua carnalità. Comunque piombò a casa una mattina alle sette e si attaccò al campanello finché non mi schiodai dal letto per aprirle la porta. Ci mancava poco facessi un infarto e il mio «sei matta” fu l’unica frase che a quell’ora riuscii ad articolare. Mi ributtai a letto e lei, super euforica, vestita e truccata di tutto punto mi disse: «stai pure a letto, adesso ti preparo la colazione.» Non l’avevo nemmeno ascoltata del tutto, certo che sarei rimasta a letto, non serviva nemmeno che me lo dicesse e mi riaddormentai pure.

Dopo non so quanto, ma non credo molto, alla mia destra c’era il vassoio con la colazione e seduta in ginocchio di fronte a me, Gloria, aspettava solo che io aprissi gli occhi. Sembrava una bambina la notte di Natale da quanto era eccitata. «Ma cos’hai?», le chiesi, «perché sei così eccitata?» «Sono in ritardo di tre settimane e voglio fare il test, qui con te!». Cercate di immaginare, per cortesia, perché non ci sono parole per descrivere il momento, può aiutare seguire il dialogo. «Tu devi essere completamente fulminata», le dissi, «e poi chi sarebbe il padre?». “Ma che domande fai? Umberto, no!». «Gloria, ti rammento che meno di tre settimane fa eri da me e mi avevi chiesto in sposa! Ma come cazzo puoi vivere così?”. «Beh che c’entra», rispose, «mica scopavo con te! Abbiamo mai fatto sesso noi? No! E allora, mica ti ho tradita. Poi, sarà stato pur lecito che mi divertissi ogni tanto?!. Ma bando alle ciance, lo vuoi fare con me questo test, oppure no?».

Onestamente non sapevo nemmeno cosa risponderle. Tra me e me riportai una frase che diceva spesso Marco: certo che ultimamente il mondo va proprio alla rovescia! «Dai Gloria va bene, facciamo ‘sto test e se ti dico che sei strana ricordati che è per farti un complimento, mi esimo dal dirti quello che penso veramente di te! Scusami, un’ultima cosa, ma Umberto lo sa?» «Ma certo che no, sei matta?! Non bisogna mai dirlo prima, perché se è negativo, poi, loro scappano e chi li ribecca più!». Mi veniva da gridare aiutoooo, ma non volevo più ferirla. Era evidente che ci teneva tantissimo ed era altresì chiaro che aveva riposto in quella gravidanza un mezzo per uscire dal casino della sua vita. Io, in cuor mio, mi auguravo al contrario che il test fosse negativo per mille ragioni: non sopportavo l’idea che un bambino potesse nascere da una relazione di quel tipo, da due persone egoiste, egocentriche, piene di vizi, e che probabilmente avrebbero fatto crescere il loro bimbo con un sacco di problemi, ma d’altro canto mi sarei anche potuta sbagliare. Chi ero io per poter giudicare?

Quando arrivò di colpo questa nuova consapevolezza mi vergognai di me stessa tanto da sentirmi così bigotta che istintivamente dissi: «Oh Dio mio, sto invecchiando, che discorsi faccio!» Mi autogiustificai subito.»Ma dai, forse anche no, sei solo molto sensibile!, d’altronde tu, sei davvero incinta!». E glissai . Riprendendo da dove ci eravamo lasciati: dissi a Gloria di andare a fare la pipì in un bicchiere di plastica e di raggiungermi in cucina. Avevo la stick in mano pronto da immergere ma la vidi titubante, insicura, come se tutto d’un tratto avesse cambiato idea. «Cosa c’è?», le chiesi. «Niente», rispose. «Allora cos’hai?», ribattei io. «Sono invidiosa di te perché vorrei essere come te, ma non ci riesco. Tu sei perfetta!» «Dai Gloria, per favore, credimi, non c’è nulla da invidiare!». Scoppiò a piangere come una bambina e pensare che non avevamo ancora avuto il risultato del test. Quella titubanza, quel piangere, quella dichiarazione di invidia, insomma, tutto d’un tratto mi suonò distorto e mi posi una domanda: e se stesse fingendo? E se la sua gravidanza fosse stata solo un pretesto per riavvicinarmi? Quel pianto disperato aveva tirato fuori il peggio di me, tanto che mi dissi: «speriamo davvero sia incinta così mi tolgo da quest’impasse», e nell’istante in cui lo dissi mi vergognai dei miei pensieri: «Chloè, non sei poi tanto diversa dagli altri ! «. Ed era giusto che mi vergognassi, tutto il mio bel pensare e il mio predicare: non giudicare le persone ecc. ecc., si era schiantato contro un unico presupposto vero: io, in quel momento stavo pensando solo a me stessa e alle mie esigenze.

Feci tutto questo ragionamento in un minuto mentre lei ancora piangeva, e in quegli attimi mi resi conto di essere impotente e prigioniera dei miei stessi cattivi pensieri tanto che non potei fare nulla di nulla. Fu come se il mio cervello fosse andato in tilt. Durò sicuramente poco, però a me sembrò un’eternità. Non riuscivo a non pensare in modo negativo, vedevo crescere montagne di menzogna nell’atteggiamento di Gloria e tutto ciò che fino a qualche minuto prima sembrava emozionante, di colpo e almeno per me stava diventando imbarazzante. Credetemi se vi dico che posso paragonare questa sensazione ad una crisi di panico, era come se d’un tratto il mio cervello si fosse sintonizzato sul file: il mondo è marcio e tutti fanno i propri interessi. Piano piano per fortuna uscii da sola da questo «empasse» e fu abbastanza semplice; mi concentrai sulle mie certezze accarezzandomi la pancia e ritrovai il focus: nulla o nessuno avrebbe mai turbato me e il mio esserino. Per fortuna di colpo quella girandola di ragionamenti da ignorante mi abbandonò e ripresi seriamente ad ascoltare Gloria, Persona. La sua verità o la sua falsità avevano comunque bisogno di un’amica ed io ero lì per questo, per dimostrarle che le ero amica. Non amante, non moglie, ma amica si! Quindi qualunque fosse stato il verdetto di quel test, io, nei confronti di Gloria, mi sarei comportata sempre e solo da amica. Immagino abbiate trovato arzigogolato questo ragionamento, ma lo è stato altrettanto per me, sono storie di vita!. Chissà Gloria in tutto questo mio pensare come in realtà stava vivendo la sua mattinata. Spero che non si sia accorta del mio vacillare, ne sarei davvero rammaricata.

Tutto era pronto per il test, le urine sul tavolo, lo stick, aspettavo solo un cenno che arrivò sotto forma di inchino della testa.Tre minuti e avremo saputo la verità. Gloria, almeno di possibili errori, non era incinta e la sconfitta fu dura da digerire. «Non preoccuparti…, è il destino…, sarà per la prossima volta…, meglio così…, beviamoci sopra…»Non sapevo proprio che dire o fare mentre Gloria mesta stava seduta immobile come un sacco di patate. «Proviamo con un altro tipo di test» le dissi, lei replicò con: «Adesso capisco quanto deve essere stata dura per te perdere Marco «. «Ma Gloria», risposi «non puoi viverla come un lutto, non hai perso nessuno!». E lei, nuovamente: «Io lo so che era dentro di me, ma non mi ha voluto.» «No, no, no», dissi ad alta voce, «non ti puoi commiserare, non è successo nulla, pensavi di aspettare un bambino invece no, dai Gloria per favore non essere così…!» Sembrava volesse reagire e si alzò per sparecchiare la tavola come se volesse eliminare ogni traccia di quest’ultima esperienza, ma quando tornò replicai nuovamente: «Per favore, non viverla così, vedrai che è solo questione di tempo». «Ma io tempo non ne ho», rispose stizzita. «Ho una importante forma di endometriosi e credo sarà sempre più difficile per me! Sai com’è, quando ci dicono che forse non potremmo aver figli, scatta in noi l’ennesima potenza dello spirito materno e finché non raggiungiamo il nostro obiettivo, la vita diventa un incubo.» Aveva ragione, aveva proprio ragione, ma io ero all’oscuro dei suoi problemi di salute, ma Santo Dio, non sarà mica così devastante questa endometriosi? Non conoscevo bene la malattia, quindi cercai di farmela spiegare da lei per capire meglio la gravità della situazione, ma mi liquidò con un «lascia perdere, è un casino!». Provai ad insistere mentre con il cellulare ero già in google alla ricerca di risposte, ma Gloria mi fermò e disse: «Non farlo, non adesso! Possiamo andare invece a letto?». «Certo, le risposi «. Mi distesi sul fianco e lei dietro di me, mi mise una mano sul ventre e ci addormentammo in un sonno guaritore. Io credo nella potenza guaritrice del sonno, è come prendere una di quelle sfere con la neve artificiale all’interno, agitarla per poi addormentarsi e svegliarsi ritrovando tutto al posto giusto. Passò un altro mese in cui stetti vicino a Gloria ed ero contenta nel constatare che il suo rapporto con Umberto si stava consolidando, forse finalmente anche loro avevano trovato il giusto equilibrio. Nel frattempo ero all’ottavo mese e dovevo pensare attivamente al mio equilibrio.

Ed eccomi nuovamente in treno. Il treno del ritorno! Non la vedevo come una sconfitta, piuttosto, come una nuova avventura. Motivi per essere pessimista ne avevo a sufficienza, mi sentivo come la pallina nel gioco del pin pong, a rimbalzare in un rettangolo di gioco tra Parigi e Venezia. L’università francese non mi dava più chance, Venezia mi aveva abbandonato, eppure la mia vita non si schiodava da quelle due realtà, ma stava arrivando il momento di sorridere e farla in barba al pessimismo. I miei furono carinissimi, mi vennero a prendere alla stazione; figuriamoci, sarebbero venuti in capo al mondo pur di riportarmi a casa e il profumo della città mi diede una bella sensazione, una sferzata di energia. La macchina del papà col suo odore, il parco vicino casa dove giocavo bambina e guardavo lì fuori con le mani ferme a tenere la pancia cercando di spiegare al mio esserino che quella, sarebbe stata la sua prossima culla di civiltà. Volli essere io la prima a varcare la porta d’ingresso e andai dritta verso camera mia, cercavo la sorpresa, o meglio, cercavo tutti i miei ricordi custoditi sulle mensole, sul tappeto circolare, sul merlettato copriletto, sopra il tavolo e dentro le scatole, e la sorpresa mi lasciò a bocca aperta. Non c’era più nulla del mio passato se non il mio teddy nella culla dell’esserino, per il resto, rinnovamento totale. Non so se rimasi più perplessa o più rammaricata, sicuramente fu una nuova presa di coscienza. I miei mi raggiunsero a breve, ci abbracciammo e, verbalmente parlando, lacrimammo in quell’altalena di emozione che ci trasportava da un passato già passato, ad un futuro che stava per arrivare. Il mio capitano, continuava ad essere presente con le sue mail affettuose. Quotidianamente ci scrivevamo ed era diventata la prima priorità del mattino, ancor prima della pipì, dei denti e della colazione.

Prendevo il cellulare e controllavo, se non trovavo niente ci rimanevo anche male e scrivevo immediatamente per avere una risposta il prima possibile. Alberto nel bene e nel male era diventato la mia stella polare e lo fu in tutto fino al giorno del ricovero per la rottura delle acque. Non avevo certo la testa per pensare ad un fiocco azzurro o rosa, troppo dolore, troppo troppissimo, per fortuna qui in Francia fanno l’epidurale a tutte quindi prepariamoci a salutare Nina Clanetti, la nostra lunga e magrolina, bambina dagli occhi azzurri e capelli corvini. Un mazzo di rose bianche a forma di cuore con una rossa rossa al centro, arrivò il giorno dopo con il corriere Euriflor, il biglietto riportava: «Ciao tesoro e complimenti neomamma. Così come ti ho conosciuta, così ho capito che ti sarei stato per sempre vicino, potrai tenermi in panchina quanto vorrai, io continuerò ad allenarmi e sarò pronto quando vorrai chiamarmi in campo. Benvenuta Nina, sento che faremo cose grandi assieme, un bacio alla mia stellina, tuo Alberto». Mi commossi tanto, tanto nel leggere quelle parole, ma mi commossi molto di più il mese successivo la nascita di Nina. Già ero stra-felice e mi sentivo al settimo cielo, ma quel giorno accadde l’incredibile! Verso le due di un fresco pomeriggio settembrino suonò il campanello, andai io ad aprire, Alberto, abbronzato e più figo che mai mi stava timidamente sorridendo e disse semplicemente «eccomi!». «Dai entra scemo», gli dissi, «cosa fai lì impalato? Vous voulez entrer monsieur, s’il vous plaît». Due abbracci intensi un bacio e la mia mano dovette seguirlo toccandogli a malapena la giacca, perché stava già salendo le scale per andare da Nina. Era stata la prima cosa che mi aveva chiesto: «dov’è Nina?». E lo seguii.

Fu davvero emozionante rivederlo, soprattutto in questo contesto, perché di lì a poco dopo essersela guardata ben bene, mi chiese di poterla prendere in braccio, io annuii, lui la sollevò al petto con molta delicatezza, poi, dopo averla baciata sulla guancia la ripose delicatamente in culla. Nina non si svegliò nemmeno. Alberto mi stava dimostrando un trasporto inaspettato nei confronti di Nina, i suoi gesti erano così naturali che non potei sottovalutarli e dentro di me tutte le paure e incertezze stavano scomparendo in un solo colpo, comunque dopo esserci riabbracciati e baciati come due adolescenti dietro la porta della cameretta, ci demmo la mano e scendemmo in soggiorno dove i miei genitori, complici dell’evento avevano preparato il the.
Chiacchierammo di un po’ di tutto per due, tre ore; io verso le sei diedi il latte a Nina e quando scesi, Alberto, che si era già accordato con i miei, mi invitò fuori a cena. Non feci nemmeno in tempo a dire «mah» che mia madre salì in cattedra dicendo:»andate, andate!, state sereni e tranquilli, a Nina ci pensiamo noi e se poi avessimo veramente bisogno, beh! Esistono i cellulari, non starete mica andando in capo al mondo, vero?!!!» Guardai Alberto e annuii con la testa, mi ci voleva davvero un momento di svago. Ma chi l’avrebbe pensato!

Ero a dir poco euforica e appena fuori di casa volli fare io il comandante nella mia città proponendo ad Alberto di andare a prendere l’aperitivo in un vecchio localino di cui non ricordavo il nome, e lui non batté ciglio. «Dai andiamo, io tengo il fiocco e tu stai al timone», mi disse. Il problema era la bussola, perché sapevo che il posto era in una laterale degli Champs Elysées, vicino al ristorante più famoso di Parigi, Maxim’s, ma non ero sicura che l’avrei trovato. E fu proprio così, non trovammo proprio un bel nulla perché qui a Parigi le cose cambiano come il clima ai tropici, comunque per fortuna un amico di famiglia ci consigliò il locale: «Le Fumoir,» dietro il Louvre. Prendemmo un taxi et voilà, eravamo seduti con il nostro very light, light, light aperitive, d’altronde io, anche se poco, ma allattavo ancora. Mezz’ora ed ero già pronta per la cena, mi rivolsi ad Alberto e gli chiesi: «allora caro, questa volta non ci metto lingua, ti ricedo volentieri il timone, dove mi porti a mangiare che ho una gran fame?» «Non chiedermelo! Non farmi domande fino a quando ti darò il permesso! E seguimi, ho una grande sorpresa per te!» «Mah…?!», dissi tra me e me, ci stiamo persino muovendo a piedi, non sarà distante, e mentre camminavo cercavo di fare mente locale a quali ristoranti ci fossero in zona, ma non mi veniva in mente nulla. Dopo pochi minuti eravamo in via Lafaitte e al civico 23 si fermò dicendo: «Siamo arrivati!». «Ma se non c’è nulla», replicai istintivamente mentre lui con l’indice alla bocca diceva:»shhhhh, non hai ancora diritto di parola.»

Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di chiavi, aprì il portone, prendemmo l’ascensore e ci ritrovammo all’ultimo piano di quel palazzo. Mi guardò e prima di aprire la porta, riportò l’indice alla bocca per ripetere il gesto del silenzio. Aprì la porta ed entrammo in un bellissimo attico, mi prese la mano e mi portò dritto in camera, una piccola accogliente e festonata cameretta per Nina. A quel punto non avevo parole e scoppiai a piangere dalla gioia mentre lo abbracciavo, lo baciavo e saltellavo. «Grazie,» mi disse,»ci contavo molto, ma bando ai convenevoli, io ti avevo invitato a cena quindi: Allons dans la cuisine. E in cucina, sopra il tavolo era già pronto il decanter con un rosso dal color rubino. «Scusami Chloè, non sono un bravo cuoco, spero tu ti possa accontentare di un pasto frugale,» «ma figurati se mi formalizzo per questo Alberto. Tu hai già fatto fin troppo non saprò mai come sdebitarmi. Mangiamo un pezzetto di formaggio è più che sufficiente», gli dissi. In un battibaleno aveva tirato fuori i formaggi, il miele, le marmellate e mi disse: «se gradisci ti preparo una frittatina». «Ma si, dai… mi piacciono le uova.» D’un tratto, ebbi un dejavu e non potei non pensare a Marco.

Mi sembrava quasi un passaggio di consegne, io stavo probabilmente lasciandolo e le condizioni che mi stavano portando tra le braccia di Alberto avevano tantissime similitudini con il mio primo, vero incontro con Marco. Alberto preparò anche le uova strapazzate e ci sedemmo a tavola, ma quando sbattemmo i calici per il brindisi e infilai il naso nel baloon, rimasi molto colpita dal profumo. «Io lo conosco bene questo profumo», dissi ad alta voce e lo riannusai più di una volta ed ancor prima di assaggiarlo chiesi ad Alberto: «Mi faresti vedere la bottiglia per favore?» «Certo tesoro, ma c’è qualcosa che non va?» «No, no è solo una mia curiosità», risposi. Stava arrivando con la bottiglia in mano e già da lontano lo riconobbi, era un Turriga, lo presi in mano e ne lessi l’annata e il numero. Era lo stesso vino che mi aveva offerto Marco. Mi sentii gelare il corpo e mi irrigidii a tal punto che quasi mi stavo per alzare e andarmene per il pessimo gusto dimostrato, fosse esso stato fatto volutamente per compiacermi o foss’anche scherzo. Però io, non avevo mai parlato con nessuno di quel vino, almeno così mi sembrava, allora mi rivolsi ad Alberto con tono quasi minaccioso poggiando le mani sul tavolo dicendogli: «Perché l’hai fatto Alberto?». «Perché, cosa…?”, rispose lui. » Perché questo vino? Non trovi sia stato un gesto stupido?» E Alberto a seguire: «ma stai scherzando o cosa?, un gesto stupido, perché poi?» «Lo sai bene perché è stupido!” “Guarda Chloè, non sto capendo niente di quello che mi stai dicendo, comunque questo vino l’ho ereditato da mio padre che è morto recentemente. Sono venuto a Venezia e per la prima volta ho incontrato le mie sorellastre, sono dovuto andare perché c’era un testamento di un padre che non ho mai conosciuto, ha messo incinta mia madre a Montevideo trent’anni fa e pluff, scomparso nel nulla, io non l’ho nemmeno conosciuto. Ecco Chloè, questa è la storia di questo stupido vino. Perché poi comunque dovrebbe essere stato un gesto stupido offrirti questa bottiglia?»

Crollai letteralmente sulle ginocchia e dissi ad Alberto di sedersi, gli presi le mani, le mie già tremavano e le sue pure ma per motivi diversi. Lo guardai dritto negli occhi e gli dissi: “Alberto, Nina, la nostra Nina, è tua sorella!!!”.

(8-continua)

Una veduta degli Champs Elysées a Parigi (fonte: pourfemme…

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