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Il Ridotto di Venezia
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editoriale

Ma parli come bada

Sulla frenesia
delle vuote parole straniere
nell’italiano d’oggi

Vi faccio subito una slide della spending review e anche un po’ di jobs act, se però tenete fermo lo spread, conforme al format e al target del leader, non solo nei talk show, ma anche nel nuovo packaging da social network; sempre che non preferiate un bel selfie senza spegnere il transponder. È questo l’italiano corrente: un’insalata di parole da verbigeratori (per usare dei bei termini psichiatrici) all’ultimo stadio.

Luca Colferai

Sì, è vero: a intermittenza qualche vecchio rimbecillito insorge pubblicamente contro l’uso di parole straniere nella lingua italiana. La differenza tra quelle ammuffite proteste e questo editoriale non sta nel rimbecillimento, o nell’invecchiamento, ma nell’uso delle parole. I primi (gli altri rimbecilliti) non ammettono che si usino parole straniere; i secondi (noi altri rimbecilliti) non gradiamo per niente l’uso che se ne fa.

Non c’è nulla di male nell’usare parole straniere nella propria lingua, se per esempio indicano delle cose che altro nome non hanno. Uno smartphone si può anche ricalcare come telefonino intelligente; ma quest’ultimo sembrerà decisamente un pretenzioso ossimoro bizzarro, accentuato dal diminutivo burocratico curiale. È vero che si può fare, e infatti i francesi chiamano il computer ordinateur; però per quanto ci si sforzi è difficile dire, per restare in tema: calcolatore elettronico senza vedere con gli occhi della fantasia un oggetto da film di fantascienza di serie b degli anni sessanta.

Così è pur vero che se dicessimo «autoscatto» al posto di selfie ai più anziani e birichini di noi verrebbero subito in mente le ruspanti e pruriginose pratiche fotografiche di coppia in voga agli albori della fotografia di massa, debitamente e giustamente assurte un tempo a settore specialistico della stampa porno di tutte le nazioni del mondo occidentale.

Ma è sull’uso di tutte queste parole che ci impuntiamo, per sottolinearne l’estrema vacuità. Si dice jobs act perché si sa benissimo che dire — per esempio — «legge sul lavoro» o peggio ancora «statuto del lavoro» è molto più impegnativo e, all’orecchio dell’ascoltatore, quantomeno alquanto implausibile improbabile irrealizzabile. Così come si dice packaging perché «confezione» è terribilmente privo di attrattive; e un target è molto più ambizioso di un semplice «obiettivo».

Ci si riempie la bocca con una spending review perché una «revisione della spesa» sarebbe un’impresa troppo ragionieristicamente tragicomica e fantozzianamente destinata fin da subito al fallimento. Si usano le slide perché se si fossero viste delle «diapositive» o delle «filmine» (come dicevano un tempo in parrocchia o nell’ora di religione delle medie) agli spettatori sarebbero subito cadute le braccia ancora prima di arrivare in fondo alla presentazione.

Sono tutte parole che fanno, come si diceva una volta, figo: vuote di significato ma che — siccome nessuno sa bene di cosa si sta parlando — si usano tantissimo per intimorire confondere spiazzare l’interlocutore (spesso considerato come un avversario da intontire, o peggio come un pollo da abbindolare). E non sono neanche soltanto inglesi: diteci voi per esempio se si può sentire la frase «portare l’eccellenza italiana nel mondo» senza sentire un brivido di ribrezzo (tra il porpora e il mafioso) lungo la schiena. A presto!★

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jobs act
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selfie
transponder
Sab, 03/01/2014 - 12:00
Insalata di anglicismi quotidiani (www.ilridotto.info-www…

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