Peggio per loro

Sette pensieri sul referendum inglese

Fosse ancora tra noi, il priore onorario della Compagnia de Calza I Antichi, icona del Carnevale di Venezia, il conte Emile, interrogato alla domanda: «Ma allora gli inglesi non vogliono l’Europa?», risponderebbe: «Peggio per loro». Ma il conte Emile era un inguaribile aristocratico (prima e più ancora di essere monarchico) e francese; e poi faceva anche un po’ di confusione tra la Rivoluzione francese (del 1789) e la Rivoluzione russa (del 1917). Insomma: non era un politologo affidabile, come noi del resto. Eppure il referendum inglese merita qualche pensiero.

Primo pensiero: ma sono davvero necessari i sondaggi (in entrata e in uscita), se poi sbagliano sempre? I risultati ufficiali distano, per la maggior parte dei paesi, solo alcune ore dalla chiusura dei seggi; tanto vale aspettare, così si parla a ragion veduta di cose accadute e non di vane possibilità. È vero che migliaia di sondaggisti non avrebbero più un lavoro, ma potrebbero dedicarsi ad altri settori con minori danni ideologici.

Secondo pensiero. A quanto pare gli antieuropei sono soprattutto gli inglesi in senso stretto (e forse delle campagne). Altri popoli del Regno Unito (scozzesi e irlandesi del nord) hanno votato tutti per rimanere in Europa (con valide ragioni) e adesso sono furiosi e minacciano addirittura la secessione dal regno per rimanere europei non solo geograficamente. Ci troviamo di fronte, ancora una volta, ai paradossi degli stati unitari democratici nati dalle monarchie e dagli imperi ottocenteschi (passando attraverso alcuni molto poco edificanti regimi).

Terzo pensiero. Riusciranno gli inglesi (e i recalcitranti scozzesi, irlandesi e londinesi) a competere nel mondo da soli? Da una parte contro statunitensi e cinesi, russi e giapponesi; e dall’altra contro messicani, brasiliani, malesi e filippini? In più con tutte le ripicche che inevitabilmente gli altri europei scateneranno loro contro? La rete inglese sul mondo è immensa; le ricchezze (di pochi) sono immani; il prestigio è elevato. Ma come dire: la supremazia in qualsiasi campo è solo un ricordo.

Quarto pensiero. Adesso tutti gli imbottitori di vuoto viscerale starnazzeranno ringalluzziti per avere anch’essi un bel referendum di uscita dall’Europa: l’Itexit, il Frexit, il Spexit, il Portexit, il Luxexit, e via dicendo. È un pensiero agghiacciante, che prefigura mostruose campagne elettorali di mesi di furore mediatico propalato da personaggi estremamente grotteschi e imbarazzanti.

Quinto pensiero. Avranno avuto i loro motivi. Francamente incomprensibili. Si può capire che l’Unione europea non piaccia. E per forza: sembra più che altro un severo bidello che si crede professore, applica alla regola regolamenti lunari su ogni argomento con l’apparente effetto di favorire le multinazionali di area tedesca, propone lacrime e sangue in cambio di rigore e austerità. Sembra un rigido incubo di incomprensibile burocrazia bancaria.

Sesto pensiero. Tanto dopo i nostri diplomatici trattano (citazione da una vecchia barzelletta). Infatti, in politica, nella storia e nella vita: mai dire mai. È vero che il risultato del referendum è stato contrario alla permanenza inglese nell’Unione europea. Ma questo non vuol mica dire che stiano fuori per sempre.

Settimo pensiero. Il mancato ingresso degli inglesi nell’Unione europea potrebbe non essere un grave problema. Anzi: potrebbe essere l’occasione giusta per un rilancio dell’Unione sottratta al lunare bidello bancario e consegnata invece ai cittadini europei. Con un governo unico che governi sul serio, e faccia in futuro scomparire questi incongruenti anacronistici stati unitari ottocenteschi (e di questo parleremo un’altra volta).

«Ops! Sono scivolato sull'Inghilterra».

Peggio per loro