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Roberto Bianchin

Il rispetto, doveroso davanti alla scomparsa di una persona — qualsiasi persona — e il dolore di chi a questa persona era vicino, non devono e non possono fare da velo ai fatti che hanno visto protagonista questa persona nel bene o nel male. È per questo che appare inusitato, e sopra le righe, il polemico ricordo che il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano ha voluto lasciare del consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, stroncato da un infarto.

Secondo il capo dello Stato, D’Ambrosio fu colpito da «una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato». Non è così. Almeno in parte. Napolitano infatti non dice chi sono i responsabili di questa «campagna», lasciando intuire che si riferisca ai magistrati di Palermo che indagando sulle trattative tra lo Stato e la mafia si imbatterono in alcune telefonate in cui uno degli interlocutori era D’Ambrosio.

I magistrati di Palermo, in realtà, hanno fatto (e fanno) soltanto il loro mestiere. Le polemiche (o le «insinuazioni») su D’Ambrosio, sono venute esclusivamente da alcuni giornali e da alcune forze politiche. Forzature discutibili, se vogliamo, ma comunque assolutamente legittime in un Paese democratico. Quanto ai magistrati, si sono più che legittimamente domandati fino a che punto fossero lecite quelle telefonate (otto quelle intercettate) tra l’ex ministro democristiano Nicola Mancino, sospettato e poi rinviato a giudizio per falsa testimonianza nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, e il consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio.

Mancino chiedeva un intervento del Quirinale perché i magistrati di Palermo erano troppo insistenti nei suoi confronti, perché c’erano troppe Procure che indagavano su di lui, e perché voleva evitare il confronto in aula con un altro ex ministro che lo accusava, il socialista Claudio Martelli. I magistrati di Palermo si erano interessati al tono, per lo più rassicurante, delle risposte di D’Ambrosio, alle sue spiegazioni su quelle «due manovre a tenaglia» riguardo alla trattativa, che riferiva a Mancino, e ai suoi interventi presso lo stesso Presidente della Repubblica, che, in effetti, poi solleciterà sul caso in questione un maggior coordinamento tra le Procure, proprio come chiesto da Mancino.

L’irritazione del Capo dello Stato, sulla vicenda, appare fuori luogo. Sia perché nessuno, a cominciare dai magistrati, ha minimamente scalfito le sue prerogative, sia perché su passaggi talmente delicati della storia d’Italia, come i misteri delle stragi e delle trattative tra lo Stato e la mafia, il Paese ha tutto il diritto di conoscere tutta la verità, e nessun segreto di Stato dev’essere opposto. Nemmeno sul ruolo, sulle iniziative e sulle conversazioni del Presidente della Repubblica.

Il silenziatore che Napolitano vorrebbe mettere alle telefonate del Capo dello Stato, anche quando non è lui ad essere intercettato, ma qualche sospettato che parla con lui, rappresenta un grave vulnus democratico. Un pericolo per la trasparenza. Un’imposizione autoritaria che ricorda molto da vicino certi infausti regimi ai quali per anni il comunista Napolitano accordò il suo entusiastico consenso. ★

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Dom, 07/01/2012 - 12:00

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