Quei ragazzi virtuosi
del dio Nettuno
Storia di un bambino povero diventato campione
Alla consegna del Collare d’Oro a Gigi Riva, la massima onorificenza del Coni, assieme al grande giocatore del Cagliari e della Nazionale c’è un vecchio ragazzo dall’aria timida e impaurita e la stessa espressione malinconica di quando entrò per la prima volta in quella classe elementare del Lido di Venezia. Storia di Mario «Mao» Brugnera che da garzone di fruttivendolo diventò capitano del Cagliari campione d’Italia e rimase a vivere in Sardegna. Lo ricorda un suo antico compagno di classe, calciatore anche lui di quel Nettuno leggendario.
PORTOFERRAIO — Da quando vivo all’isola d’Elba, complici forse il clima, il relax, o forse un po’ di nostalgia, mi piace sempre più frugare nei cassetti della mia infanzia e spolverare i ricordi più lontani. Quasi facessi a gara con me stesso per vedere fino a quando riesco a tornare indietro con la memoria.
Pochi giorni fa, durante uno dei miei consueti giri a Venezia, ho voluto passare davanti alla casa che ha visto i miei natali per mostrarla a mia moglie. Con stupore e soddisfazione, ho notato che era esattamente come quando la lasciai cinque anni dopo la mia nascita. All’ ingresso, a pianterreno,c’ era un gradone in marmo davanti al portone, che mostrava tutti i suoi anni, ma ancora lucido,come se la gente non vi poggiasse i piedi per calpestarlo, ma lo usasse per sedersi sopra. Attratto da una forza misteriosa, non resistetti, e andai a sedermi proprio lì.
Fu così che raccontai a mia moglie come ricordassi benissimo di quando, all’età di tre anni, in un tiepido pomeriggio di fine maggio, me ne stavo seduto proprio lì ad aspettare che mia madre ritornasse a casa dall’ospedale con le mie sorelline gemelle nate qualche giorno prima. Ricordo l’ emozione nel vedere mia madre e mio padre con in braccio questi due fagottini avvolti in una copertina di cotone (penso) di color bianco (di questo ne sono certo).
Fui io a tenere aperto il portone in modo che i miei genitori e le mie sorelline vi entrassero agevolmente. Questo,credo, sia il momento più lontano che ricordo. Per avere dei ricordi molto più definiti devo arrivare ai tempi della scuola, visto che l’asilo l’ ho frequentato sporadicamente. La mia prima maestra era molto dolce, sempre sorridente. Peccato che un pancione che lievitava settimana dopo settimana, non le consentì di terminare l’ anno scolastico con noi, per cui fummo affidati ad un supplente (maschio),molto meno dolce e per niente sorridente.
Ma l’ episodio che ricordo più volentieri e più nitidamente di quel primo anno di scuola elementare fu quando, dopo qualche settimana dall’inizio dell’anno scolastico, la maestra entrò in classe con un bambino parecchio più alto di noi, poggiandogli un braccio sulla spalla, come per proteggerlo dai nostri sguardi. Di lui notai due cose: non portava il grembiule nero con il fiocco rosso come tutti noi, ma indossava abiti abbondanti, come se fossero appartenuti precedentemente a qualche fratello più grande. E poi teneva il capo sempre abbassato, come se provasse vergogna di qualcosa.
La maestra ci disse: “Bambini, questo e’ Mario, e da oggi sarà un vostro compagno di classe!”.
Dal giorno successivo anche Mario indossava il suo grembiule. Se ne stava seduto da solo all’ultimo banco. Era perlomeno due spanne più alto di tutti noi, per cui se si fosse seduto nei primi posti, avrebbe tolto la visuale a chiunque. A mezzogiorno e mezzo la lezione finiva e fuori della scuola c’erano le nostre mamme, a volte un fratello o una sorella più grande, che ci aspettavano per portarci a casa per il pranzo. Mario invece misteriosamente spariva. Non c’era mai nessuno ad attenderlo. Anzi, non lo si vedeva nemmeno uscire.
La curiosità di bambino mi portò, il giorno successivo, a usare uno stratagemma per rientrare a scuola dopo l’orario di uscita: «Mamma, ho dimenticato il quaderno in classe, ritorno a prenderlo». Con questa scusa mi precipitai in aula, non prima di aver sbirciato in una stanza da dove provenivano rumori di pentole e piatti sbattuti. Lì avevo intravisto Mario che mangiava, seduto a tavola assieme a pochi altri compagni di altre classi.
Quella vista mi turbò. Pensavo infatti che quel pranzo fosse una sorta di premio per gli alunni più meritevoli. Giunto a casa ,davanti al piatto di pasta asciutta che mia madre mi aveva preparato, le chiesi: “Mamma, cosa devo studiare per vincere il mangiare a scuola?”. Mia madre, sorridendo, mi rispose che il mangiare a scuola non era altro che una cosa chiamata “refezione”, e che in realtà era riservata a quei bambini la cui famiglia aveva difficoltà a mantenere i propri figli.
Mario dopo qualche settimana non venne più a scuola. La maestra ci disse che sarebbe tornato, ma lui in quell’ aula non ci rimise più piede. Riprovò a tornare a scuola l’ anno dopo, ma ugualmente dopo poche settimane non si fece più vedere…fino a quando l’anno ancora dopo si ritrovò in prima elementare con il fratello di sei anni più piccolo di lui! Finalmente un direttore scolastico capì il disagio che Mario provava nel raffrontarsi con bambini molto più piccoli, mentre lui oramai era un adolescente, così decise di passarlo direttamente in quarta. Aveva ragione. In due anni Mario conseguì la licenza elementare.
Spesso lo vedevo passare in bicicletta, quelle attrezzate con un portapacchi davanti e uno dietro, che portava la spesa per conto di Fiorindo, un fruttivendolo, che era anche il presidente di una squadra di calcio dalle maglie granata, il colore del vessillo della Serenissima, che si chiamava Nettuno Lido e militava nelle categorie dilettantistiche. Più tardi venni a sapere che Mario aveva nove fratelli e una passione sfrenata per il calcio.
Dopo qualche anno la passione per il calcio coinvolse anche me, per cui iniziai a frequentare il campo sportivo del Nettuno Lido, dove oltre ad allenarmi, mi fermavo ad ammirare Mario, che con quel pallone di cuoio faceva mirabilie. Nessuno era in grado di togliergli la palla dai piedi: correva da una parte all’ altra del campo con velocità e leggerezza, la testa sempre alta, pronto a servire in modo perfetto i suoi compagni di squadra e a fare gol da posizioni impossibili. Ricordo il presidente fruttivendolo che lo guardava con gli occhi lucidi…
Mario, per un periodo, continuò a fare il garzone del fruttivendolo, poi il parchettista ed infine, a sedici anni, fu acquistato dalla Fiorentina, con sommo piacere del presidente fruttivendolo che, con il ricavato di quella cessione, trasformò la sua piccola bottega di frutta e verdura, in uno dei primi supermercati. A Firenze Mario Brugnera detto Mao debuttò diciassettenne in serie A e rimase titolare per cinque anni fino a quando fu acquistato dal Cagliari. Era il grande Cagliari di Albertosi, Gigi Riva, Domenghini con i quali nel 1970 vinse lo storico scudetto. Da bambino non avevo mai sentito la sua voce, era sempre ammutolito. Ricordo che rimasi meravigliato quando sentii per la prima volta la voce di Mario durante un’intervista, parlava con un linguaggio forbito e senza nessuna inflessione dialettale.
Nel Cagliari, “Mao” giocò per dodici anni diventandone il capitano. Ricoprì vari ruoli, prima attaccante, poi centrocampista ed infine difensore…pur di continuare a giocare, con l’ avanzare degli anni avrebbe giocato anche in porta! Ormai quasi quarantenne, non volle appendere le scarpe al chiodo e si accontentò di scendere in C2 e giocare con la squadra del Carbonia. Mario, come pure Gigi Riva, seppur venuti dal Nord,non abbandoneranno più quell’ isola, la Sardegna, che a loro regalò molto in termini di affetto e di soddisfazioni. Da anni ha una sua scuola calcio dove, tutti i giorni, nonostante i settant’anni suonati, indossa ancora la tuta e scende in campo a correre assieme ai suoi ragazzini per insegnar loro i trucchi del mestiere e trasmettere la «vera» passione.
Era da molto tempo che non vedevo Mario, nemmeno in tivù, essendo lui rimasto schivo e timido e sempre lontano dai riflettori. Ma proprio un paio di mesi fa, prima della partita Cagliari — Juventus, in occasione della consegna del Collare d’Oro, che è la massima onorificenza conferita dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano, a Gigi Riva, lì…vicino a lui, c’era Mario… Il viso segnato dagli anni, ma la faccia sempre uguale con la stessa espressione, timida, impaurita e allo stesso tempo malinconica di quando entrò per la prima volta nella mia classe. Da quella volta sono passati sessant’anni, eppure il mio ricordo e’ ancora vivo…certo un po’ di malinconia, forse nostalgia ma di sicuro nessun rimpianto! Ciao Mario! Evviva i ricordi! Evviva la vita!