Quelle sessantasei penne
rimaste senza inchiostro

Fare il giornalista è un mestieraccio ma è sempre meglio che lavorare, amava dire, un po’ scherzandoci e un po’ no, quella buonanima di Luigi Barzini Junior, che fu per l’appunto giornalista, lunghi anni inviato al Corriere della Sera, e anche deputato liberale per tre legislature. Altri sostengono che è meglio che un figlio non dica alla propria madre che fa il giornalista, perché lei crede che suoni il piano in un bordello.

Non ha mai goduto di buona fama, insomma, in ogni tempo, il mestiere di giornalista. Pennivendoli. Venduti. Puttane. Servi del padrone. Così sono stati sovente, e sono ancora definiti, a destra e a manca. Di questi tempi, poi, la reputazione dei giornalisti è precipitata ai minimi storici. E non sempre a torto.

Le ragioni non mancano. Servilismo. Arrivismo. Impreparazione. Superficialità. Tutto vero per un mestiere in piena crisi, travolto oltretutto da un cambiamento epocale come il passaggio dal cartaceo al digitale, che non potrà essere immune da conseguenze, tutte ancora da decifrare, anche sulla professione.

Però. Però c’è un però. E il però è che nonostante tutto, nonostante la crisi dei giornali e la scarsa credibilità dei giornalisti d’oggidì, la stampa, non a caso definita quarto potere, mette ancora una paura tremenda a Stati e governi, al punto tale che in molti Paesi del mondo fioccano arresti e censure nel tentativo goffo e autoritario di mettere il bavaglio alla libertà di stampa.

Recep Tayyip Erdogan, il sorprendente presidente della Turchia, ha deciso di festeggiare il Natale facendo arrestare per reati di opinione ventitré persone tra cui alcuni giornalisti e il direttore di Zaman, il più importante giornale del Paese.

Ma le sorprese più atroci arrivano dal rapporto annuale di Reporters sans Frontières, la benemerita associazione che dal 1995 monitora l’informazione nel mondo e gli abusi compiuti contro di essa. Il dato del 2014 è agghiacciante: durante quest’anno sono stati uccisi nel mondo 66 giornalisti.

Il numero delle vittime della notizia sale così a 720 morti dal 2005 ad oggi. I paesi in cui maggiore è stato il numero delle vittime sono la Siria, la Striscia di Gaza, l’Ucraina e l’Iraq.

E non ci sono solo i morti. Nel corso dell’ultimo anno si sono contati anche 119 giornalisti rapiti, 178 finiti in prigione, 139 obbligati a lasciare il loro Paese, 853 tra fermati e arrestati, 1.846 tra aggrediti e minacciati. Ma questo non sembra interessare molte persone. Nemmeno emozionare. Tanto meno indignare.

Eppure i giornalisti vengono uccisi in modo sempre più violento, con decapitazioni, impiccagioni, torture – annota Giovanni De Mauro, direttore del settimanale italiano Internazionale – e la loro uccisione «è diventata uno strumento di propaganda per spaventare e spingere al silenzio».

Non solo. Oggi l’attacco alla libertà di stampa passa anche attraverso una censura sempre più forte su internet. Il rapporto annuale sulla libertà di stampa in rete di Freedom House indica fra i paesi peggiori e più autoritari in questo campo l’Iran, la Siria, l’Etiopia, Cuba e la Cina. Proprio il governo cinese ha deciso che quando un testo giudicato falso o diffamatorio (dallo stesso governo, s’intende, quindi immaginatevi l’obiettività), viene letto su internet da più di cinquemila persone, chi l’ha scritto rischia fino a tre anni di prigione.

Lungi da noi una difesa acritica e a oltranza dei giornalisti in quanto tali. Tanto meno di quelli che sbagliano, che si confondono, e che sono incapaci o in malafede. Ma permetteteci di spezzare una lancia in favore di quelli che fanno solamente il loro mestiere e che per questo rischiano la vita.

Perché senza libertà di informare, e anche di criticare, non c’è democrazia e non ci può essere alcuna libertà. ★

Luigi Barzini Junior (fonte ilsole24ore.com).

Quelle sessantasei penne rimaste senza inchiostro