Questione di tempo

Considerazioni inutili su alcuni scrittori del Novecento

Oggi ho scoperto che Banana Yoshimoto, famosissima autrice giapponese di cui peraltro non ho mai letto nemmeno un libro (ma adesso mi toccherà farlo), ma che da decenni vanta innumerevoli milioni di lettori nel mondo, «ogni giorno si prende almeno mezz’ora per scrivere al computer» (così c’è scritto su Wikipedia). Ciò ha scatenato una breve serie di raffronti tra libri scrittori letture. Eccoli qua.

La cosa è, almeno per me, imbarazzante. Pensare che una quasi coetanea (è del ‘64) abbia impiegato almeno mezz’ora del suo tempo quotidiano per sfornare negli anni decine di opere (e quattro sceneggiature di film tratti dai suoi libri) che le hanno fornito fama e ricchezze mondiali, fa avvampare di rossa vergogna uno come me che in quaranta minuti riuscirà bene o male a completare questo rachitico elzeviro (pubblicato a gratis sulla mia rivista online).

Ma tant’è (considero tra me e me mentre finisco l’ultimo piatto di zuppa di trippa in bianco di Mistress Santini): c’è chi può e chi non può. Mordecai Richler, di cui sto leggendo ossessivamente e compulsivamente tutte le opere su cui riesco a mettere le mani, aveva scelto di diventare scrittore (invece che dentista, come gli suggeriva uno zio in procinto di vendergli l’attrezzatura di seconda mano), perchè (credeva giovane sconsiderato) che fosse più pratico e decisamente più economico. Scrive caustico Mordecai: «Feci un grosso sbaglio. Il mio dentista lavora quattro giorni alla settimana, non sette, e non deve autografare i molari che estirpa ai clienti».

E più oltre: «Dovunque abbiamo vissuto (Londra, Roma, Amagansett, Montreal, eccetera), io ho sempre lavorato a casa, e riparato alle cinque del pomeriggio in un pub o un bar prediletto a meditare sui fatti del giorno con uomini veri, uomini che andavano in veri uffici e tornavano a casa per cena incantando le mogli con racconti affascinanti. Io, quando scendo dalla mia stanza di lavoro al primo piano, di solito non ho niente da dire.
«Lavorato sodo, oggi?».
«Sì» rispondo guardingo, perché so quando mi prendono in giro.
«È andata bene?».
«Oh, dài».
Sconosciute signore sposate a dentisti e a operatori immobiliari dicono a mia moglie: «Ah, suo marito è uno scrittore. Come dev’essere interessante la vostra vita».
Florence, poverina, è leale. Non scoppia a ridere, non prende a pugni nessuno. Sorride garbatamente e dice: «Sì, sì, certo».

Ma qui stiamo divagando, passando alla vita personale di cui, al contrario di tanti altri, Banana è invece (e fortunatamente) gelosissima. Tutta questa difficoltà a scrivere sarà perché Richler si considerava uno scrittore mediocre, di cose banali, di uomini e donne in balia di passioni, denari, alcol e sigarette, cui erano sufficienti: «una macchina per scrivere portatile, un tavolo, una seggiola, un dizionario, una bottiglia di scotch single malt decente». O forse perché era solo un vecchio scrittore all’antica, e per giunta maschio.

Un altro scrittore mediocre — stando a quanto dice di sé stesso — che ho avuto il piacere (ossessivo e compulsivo) di leggere quasi per intero nelle ultime inutilmente frenetiche settimane è il notissimo Nick Hornby che descrive — forse — il mistero della differenza del tempo impiegato per scrivere una schifezza (questa dal vostro amato direttore) un bestseller (quelli di Banana) un ottimo libro (quelli di Mordecai e alcuni di Hornby), in un ardito parallelo tra calcio e scrittura.

«Lo sport e la vita, soprattutto quella cosiddetta «artistica», non sono propriamente la stessa cosa. Uno dei grandi meriti dello sport è la sua crudele inequivocabilità: non esiste qualcosa come, per esempio, un centometrista scarso, o un centravanti negato che hanno avuto un colpo di fortuna; nello sport vieni scoperto. Come non esiste qualcosa come una punta geniale ma sconosciuta che è lasciata ammuffire in una soffitta, perché il sistema di talent-scouting è infallibile (tutti vengono osservati). Esistono, invece, una marea di attori, di musicisti o di scrittori scarsi che riescono a vivere decorosamente, persone a cui è capitato di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, o di conoscere le persone giuste, o le cui doti sono state fraintese o sopravvalutate».

È vero, lo confesso, gran parte di questi quarantacinque minuti li ho passati: uno, fantasticando sul passato, presente e futuro, (triade inane) di queste parole; due, tagliando e ritagliando errori, refusi, isteron proteron, metafore imbelli, sineddochi imbecilli; tre, cercando significato e ortografia delle parole usate; quattro, compulsando la sezione dedicata al pollame di un bellissimo libro di cucina cinese degli anni ottanta; cinque, lottando laoconticamente contro ogni tecnologia che consente la composizione e la diffusione di questi inutili paragrafi; sei, copiando le cose migliori dagli altri.

Avrei potuto anche fare a meno di scrivere, ma grazie al cielo avevo quarantacinque minuti da buttare via, e in più alla mia età sono sicuro di non trovare un talentscout che mi tende un agguato. Arrivederci.

Brani tratti da:
Nick Hornby, Febbre a 90’ (Fever Pitch, 1992) (Guanda, 1997); trad. di Federica Pedrotti e Laura Willis.
Mordecai Richler, Un mondo di cospiratori (Broadsides. Reviews and Opinions, 1990) trad. Matteo Codignola e Franco Salvatorelli, Milano: Adelphi, 2007.

Salvador Dalí, La Persistenza della Memoria (1931, olio su…

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