In rotta verso la rinascita

Dieci giorni a terra e mi rendo conto che sono ancora partito per uno di quei viaggi dai quali mai si ritorna. Non è la prima volta che mi capita e so che mi farà cambiare profondamente; non so come ed in che cosa, ma sento chiaramente che è così: la morte non è necessariamente solo ed inequivocabilmente fisica, ma anche interiore, e così capita che in vita si possa morire più volte.

Alcuni periscono, altri, come fenici, risorgono dalle loro ceneri autorigenerandosi, accettano il cambiamento, lo sognano, lo vedono, lo comprendono ed io, in tutto questo, nel frattempo, programmo e prendo decisioni e posizione. Non mi farò sopraffare dalla bruma.

Noleggio un Benetau 40.7 per una intera settimana di navigazione con il Capitano e cosi a fine maggio del 2013 partiamo da Venezia con rotta che ci porterà in una notte a Parenzo per poi girovagare un poco sulla costa croata. Kala Nag è il suo nome, come l’elefante di Mowgli, suona bene.

Atterriamo la mattina a Parenzo poco prima del temporale che alle nostre spalle annerisce il cielo e nei giorni successivi vela costiera verso sud, qualche notte alla fonda, partenza a vela dall’ancoraggio e da gavitello, manovre e regolazione delle vele, perché, come dice il Capitano, se tieni bene una barca, se le vuoi bene e la rispetti, ne regoli bene le vele… lei sarà contenta e ti porterà sempre sano e salvo a destino.

Altre quattrocento/quattrocentocinquanta miglia nautiche da aggiungere al mio micro palmarès, più di mille in due volte, ma mi rendo sempre più conto che la distanza da coprire per conoscere non è tanto fatta di miglia nautiche da percorrere, quanto da passione e gioia nell’apprendere con umiltà e dedizione, così i venticinque chili di assiro-babilonese diventano materia viva e soprattutto leggibile. Kala Nag, Capitano ed Io siamo immersi in un rosso tramonto mentre osservo la terra apparire all’orizzonte e mi sento come Capitain Kirk al ritorno da mondi sconosciuti e pianeti inesplorati. Buona barca il 40.7, barca marina.
Grazie Kal Nag. Grazie Capitano.

Il pene e le pene. O le pene del pene

Tornato sul pianeta Venezia mi accorgo di avere un problema, un grosso problema… proprio in mezzo alle gambe, lì, infatti, spunta quell’amabile coso che a noi maschietti, e non solo, piace tanto usare, toccare, sistemare… il mio… il mio ha un cartello al collo, un occhio solo nonché un incarnato rosa smorto; sul cartello c’è scritto un numero: tre. Sotto, gli arrugginiti gioielli di famiglia rinsecchiti prematuramente, tentano di leggere il numero sul cartello che indica per loro tre secoli di inattività.

Il tutto genera un quadro alquanto triste e desolante, dove giace una natura morta dimenticata dal pittore ed io, per mettere il dito nella piaga, mi denudo in bagno davanti allo specchio osservandomi: il volto gonfio, le carni molli, la pancia e i miei capelli sempre più grigi; ci resto una buona ventina di minuti ed una sola parola mi esce dalla bocca mentre mi fisso negli occhi: «triste», uomo triste.

Scopro che, al pari del mio bisogno di affetto, peraltro ben compensato da mia figlia di otto anni, cresce esponenziale un altro fattore che non riesce ad essere appagato poiché non trova la sua naturale via di uscita; uno sfogo naturale e necessario all’armonioso sviluppo dell’essere umano, per dargli vigore, buon umore, appagamento, salute ed innumerevoli proprietà benefiche che tutti Voi, cari lettori, già ben conoscete. Tre anni… tre anni di autarchia sessuale sono una dura condanna autoinflittami pur di non tradire la mia ex moglie che, chiaramente, la centellinava con mensile scadenza, per dovere e senza alcuna passione, in uno squallore infinito che non auguro a nessun uomo, mentre la mia vita diventava ogni giorno più grigia e triste, per non parlare poi delle terribili condizioni della mia mano destra.

Progressivamente mi sono malato assumendo delle sembianze tra il guardone ed il maniaco sessuale e gradualmente è nata in me la natura che definirò come quella del ficantropo, al quale, peraltro non è necessaria la luna piena… . basta la patata.

Codesta, oserei dire quasi malattia ha dei sintomi chiari e netti, la sua diagnosi e’ facile ed aiuta a comprendere la ficantropia: il poverino colto da un attacco di questa terribile sindrome guarda tutte le donne, e dico proprio tutte, tutte le desidera, la notte dorme in alzabandiera sotto tenda canadese e il suo pensiero è fortemente focalizzato sul punto G e sulla mano destra. Basta, adesso basta. Bastaaa!!! Non ce la faccio più!

Ho bisogno di sesso, sì dico sesso. Non cerco un incontro, una storia, una serata piacevole al bar, non ho voglia di uscire al ristorante, di andare a ballare, non ho voglia di conquistare nessuna donna, voglio solo appagare i sensi, perdermi senza tante cerimonie nella scoperta delle parti intime femminili, succhiare il seno e penetrare accoglienti labbra umide… ho deciso… sì… vado in casino e se fossimo in una società veramente civile ed evoluta, ci andrei volentieri… nella mia città.

A tal proposito chiamo i fido Emilio, separato da un anno e che, dichiaratamente, usa, con gaudente gioia, buona parte del suo succoso stipendio di professionista per dedicarsi, come dice lui, alla conoscenza e alla scoperta di popoli e culture straniere: profondo conoscitore dei migliori casini di Germania e Austria appena ha saputo del mio precario stato di salute psico-fisica, afferma immediatamente con scientifica serietà e precisione di conoscere proprio il posto che fa per me.

Sicuramente non troverò le leggendarie cortigiane veneziane, ma poco importa. Andiamo.

Piove nella buia notte; passo slanciato e baldanzoso, affronta con piccoli saltelli l’ultimo ponte arrivando in Campo S Marina, costeggia le grandi pozze d’acqua sino al lato della chiesa infilandosi in un piccolo sottoportico e un sorriso da satiro infoiato irradia il suo volto mentre batte il campanaccio di un grande portone in legno grezzo da poco montato.

Entrò, come al solito, calorosamente accolto dalla maîtresse che nonostante la avanzata età portava in sé ancora un qualcosa di erotico, sensuale: col tempo, anziché divenire sciatta e volgare come buona parte delle sue colleghe, aveva investito alcuni dei suoi bezzi per apprendere lingue e buone maniere per quel che le era consentito dalla sua natura. Fece un elegante mezzo inchino tra il riverente e lo spudorato: «Vostra Signoria… mi pregia ancora della Vostra presenza… ah bel Niccolò, con un corpo come il Vostro bramerei ben io d’esser oggi la Vostra preferita… avessi qualche anno di meno!» aggiunse da consumata attrice qual’era guardandolo con l’aria birichina di un gatto che vuol giocare.

Niccolò alza lo sguardo serio, quasi feroce, puntandola dritta negli occhi e avvicinatosi con fare lento e solenne ad un palmo di naso… infila velocemente l’intera faccia tra le succose tette quasi scoperte, baciandole, leccandole per poi correre verso la scala al piano di sopra.

La maîtresse tra finte proteste, gemiti, sospiri e risatine lasciò fare quel bel mascalzone impudente quanto irriverente, soprattutto perché, come lei diceva: «Mai gettare il doppio guadagno».

Il giovane, oltre ad essere il rampollo di una nuova e potente famiglia aristocratica, apportava appunto un doppio guadagno: il padre dello scapestrato Niccolò, nonché settimanale frequentatore della casa, aveva pagato un cifra (modesta ma non troppo, come dice Madame) per essere avvisato della eventuale presenza del giovane. Non voleva che perdesse il tempo con le cortigiane, almeno finché non si fosse sposato. E doveva sposarsi.

Da parte sua la maîtresse, avvisato il giovane del pericolo incombente, ricevette una cifra (modesta ma non troppo) da parte sua affinché il segreto restasse tale e così… tutti contenti, soprattutto madame.

Quanto a Niccolò, egli non aveva alcuna intenzione di sposarsi, tanto meno con una sconosciuta. Solo una ragion di Stato avrebbe potuto fargli cambiare idea, solo per il benessere e la prosperità della Serenissima si sarebbe eventualmente sposato, solo per Lei e né sua madre o suo padre lo avrebbero mai convinto.

Salta a due a due i ripidi scalini in legno, fermandosi di botto una volta in cima.

Rosso di Damasco e rosa intenso, morbidi divani con denudate fanciulle, profumi d’oriente e odori di fumo e carne sudata, intrisa d’eros lo accolgono spalancandogli i sensi sin nel profondo del suo essere. Cammina raso al muro, ora guardando in basso a destra i legni finemente dorati della parete, ora volgendo lo sguardo a sinistra dove occhi bramosi e volti sorridenti di donne di ogni dove, se lo ingraziano, mostrandogli seni, culi, gambe e quant’altro; percorre per intero il lungo salone fino al camino dove ricevuto un buon boccale di vino caldo speziato, siede per meglio osservare la preda di quella serata.

Circa mezz’ora dopo, sale al piano superiore dove gli è stata riservata una stanza degna del suo rango (che poi è la stessa che usa suo padre) e spogliata la bionda dama dalle grandi tette, inizia… turgidi capezzoli, lingue incontrollate, brividi di freddo, morbidi fianchi, culo sodo, liscio, schiena setosa e vagina rosa, morbida, bagnata e vampate di calore, parole sussurrate, baci intensi si inarcano, tesi allo spasmo con gemiti sudati si fondono mentre penetra il duro uccello la accogliente fica.

La notte e ancora giovane quando si chiude alle sue spalle il portone di Madame; fischiettando un motivetto volgare assai in voga al tempo, salta elegantemente la prima pozzanghera, così come la seconda finendo poi, per inerzia, dentro la terza che era un poco nascosta alla flebile luce di un lucernario.

8 giugno 2013

Noleggio per 10 giorni un vecchio Elan 43, si chiama Esperanza e ad occhio sembra abbastanza malconcia, ma tre cabine e due bagni fanno questa volta al caso nostro, mio e del Capitano; questa volta, armati di un vago istinto masochista, carichiamo due piccoli esseri di neanche otto anni, minuscole creature dall’innocente aspetto, probabilmente inviate dagli alieni per distruggerci: le nostre due figlie.

Partiamo dalla Certosa di Venezia nel primo pomeriggio per attraversare le cinquanta miglia che ci separano da Rovigno durante la notte; il meteo è ottimo, alle undici corichiamo le bambine e poco dopo l’alba siamo difronte alla costa Croata.

Al risveglio dei bimbi coinvolgo Giulia marcandole le differenze tra il posto dove viviamo e questo incantevole luogo: «Guarda Giulia, ti piace? Quadra che bella l’acqua azzurra piena di pesci, hai visto gli alberi che arrivano fino al mare?»

Dopo alcuni assensi, un po’ di meraviglia con il volto pieno di gioa mi chiede se può farmi una domanda. «Certo Amore Mio dimmi pure.»

«Papà, ma qui… siamo sullo stesso pianeta?»

Resto per un attimo spiazzato in silenzio, poi il cuore mi si apre come il sorriso mentre le dico: «Certo amore mio, certo… siamo sullo stesso e meraviglioso pianeta. Come una grandissima astronave che attraversa l’universo.
Ti voglio bene Amore Mio.»

Seguono dieci giorni tra piccole veleggiate, pesca, trampolini, scivoli d’acqua, gelati, ramanzine, piccole tragedie e ore di pace e gioia.

Navighiamo tutti i giorni per piccole tratte, quasi sempre alla ricerca di posti adatti alle ragazze e ritorniamo a Venezia dieci giorni dopo, abbronzati, escoriati ma felici come i nostri due amori che alla fine di tutto sono state proprio brave; altre miglia nautiche per me, altra esperienza ed un unico pensiero: quando il prossimo noleggio?

(fine della quarta parte - continua…)

L'autore alla barra., La costa croata., Atterrati a Rovigno…

In rotta verso la rinascita