Scarafaggi

Bisognava esserci. Perché non ci sono parole adeguate per raccontare. Per far vivere oggi a chi non c’era l’atmosfera di allora. Di cinquant’anni fa. Che a me sembra ieri. Ma è passato mezzo secolo da quell’inizio di ottobre del 1962 (il giorno era il 5, per l’esattezza), quando uscì Love me do.

Love me do era un piccolo disco, un 45 giri come si usava allora, solo due canzoni, una da un lato e una dall’altro, tre minuti e tre minuti appena. Costava seicento lire. Era il primo disco di un gruppo inglese sconosciuto (allora si chiamavano complessi): quattro ragazzi di Liverpool che avevano storpiato, come nome, quello degli scarafaggi, beetles, trasformandolo in Beatles con l’aggiunta di una «a» che annunciava una musica nuova, il beat, un battito che avrebbe cambiato la musica e che avrebbe voluto cambiare anche il mondo.

A sentirla bene, con le orecchie di oggi, e a esaminarla razionalmente, non era un granché quella canzoncina. Semplice. Banalotta. E con un testo ingenuo, ripetitivo. Uscisse oggi sul mercato probabilmente non avrebbe successo. Ma quella volta fu come un uragano. Spaccò tutto. Perché era una musica fresca, freschissima, vivace, vivacissima, di un timbro mai sentito prima. Aveva qualcosa in più. La carica. Il sound che i giovani di quel tempo, i giovani di tutto il mondo aspettavano. Con una curiosa armonica blues nel mezzo, poi, e quei colpi di rullo ritardati in leggero controtempo. Per l’epoca, una sciccheria.

Per quelle misteriose alchimie che ogni tanto accadono nella vita, Love me do cambiò tutto. La musica, anzitutto. Con quella canzoncina cominciò la fragorosa epoca del beat. Vennero il rock e il pop. Arrivarono i fragorosi anni Sessanta. Chi avrebbe mai detto, quella volta, che i quattro scarafaggi di Liverpool sarebbero entrati nella storia? Chi avrebbe scommesso una sterlina bucata sul fatto che cinquant’anni dopo le canzoni dei Beatles sarebbero state ancora suonate e cantate in tutto il mondo?

Con Love me do cominciava la revolution. E non solo in senso musicale. Cominciava la revolution che avrebbe voluto cambiare il mondo. In meglio, s’intende. Perché non arrivarono solo i capelli lunghi, le camicie colorate, le minigonne, i pantaloni a tubino di vellutino a coste, gli stivaletti, gli occhiali neri, gli spinelli e i figli dei fiori.

Arrivarono i venti di contestazione. Il sessantotto. La voglia di libertà e di giustizia. I cortei contro la guerra del Vietnam. Le battaglie contro l’autoritarismo. Contro la famiglia, contro la scuola, contro la società, contro la Chiesa, contro gli eserciti, contro il potere. Le lotte operaie. Il pacifismo. Fate l’amore e non la guerra. Le canzoni di protesta. I cantautori. I libri. L’impegno politico. L’amore libero.

Anni pieni, anni densi, anni di corsa. Anni fumati e bevuti. Anni di gruppi di studio, di progetti, di sogni, di utopie. Anche di errori. Anni belli, comunque. Non solo per i sogni e per la musica. Forse anche perché eravamo giovani. Irrimediabilmente, irreparabilmente, giovani. Giovani per l’ultima volta. Per l’ultima volta giovani.

A ripensarci adesso, cinquant’anni dopo, sembra un tempo lunghissimo al calduccio della memoria. Invece no. Durò tutto così poco da quando suonarono le prime note di Love me do. I Beatles, tuttora così presenti che sembra non abbiano mai smesso di suonare, fecero l’ultimo disco, Abbey Road, nel 1970, l’anno in cui, al massimo della fama, si sciolsero. Erano durati solo otto anni, ma ci sembra un’eternità.

E poi, in realtà, nel 1970 non finirono solo i Beatles. Noi non ce ne accorgemmo, allora. Non ne avemmo la percezione. Non potevamo nemmeno immaginarlo. E quand’anche ce ne fossimo accorti, probabilmente non avremmo potuto fare nulla per impedirlo. Ma il fatto è che quando sparirono i Beatles, non fu solo la fine dei quattro scarafaggi. Era già finito tutto. Se n’erano andati anche i sogni, le speranze, le utopie. E addio revolution. ★

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