Tempesta
sulla Manica

Ora o mai più

Partenza prevista per Londra il 06 luglio, mancano due giorni; fortunatamente adesso c’è uno skipper competente, ed è meglio perché la Manica e questo mare non perdonano ignoranza e pressapochezza: venti poderosi, forti correnti e scogli pericolosi ne fanno un luogo non proprio facile da navigare.

Narayan sembra a posto, lo guardo la sera mentre beccheggia pacifico, silenzioso, imponente e sonnolento sembra chiedermi a gran voce: «Mare, mare, mare!»

Ultimo giorno e l’equipaggio è al completo: Yannick R. skipper, Patrick V. amico velista francese, Giorgio ed io; sono tutti a bordo e siamo pronti alla partenza, adesso finiscono le chiacchiere e si inizierà a fare sul serio, adesso finisce la teoria ed inizia la pratica, adesso è qui ed ora: non c’è passato e non c’è futuro nell’adesso, ora, qui, in questo momento; si va.

Alle otto di sera il mare è piatto ed il vento quasi assente; con una morsa allo stomaco, che ho sin dalla mattina, spingo Narayan lontano dal molo mentre una luce vivida illumina la deliziosa Saint Marine; salutò con la tromba da nebbia gli amici del Café de la Cale e Titou che come me si sbraccia… ah, ah, les amis, gli amici… quale tesoro incalcolabile amicizia e fratellanza, quale tesoro si continua a perdere causa una società sempre più abnormale, dove l’essere umano, sempre più impaurito, frastornato, sperduto, ottenebrato, diviene altamente individualista e prepotentemente egoista.

Partiamo alle otto di sera per passare Raz de Seine con la giusta marea, altrimenti passare questo piccolo «Capo Horn» dei francesi non è facile e spesso impossibile: onde alte, correnti molto forti e stretto passaggio, fanno di Raz de Seine un luogo sicuramente affascinante ma estremamente pericoloso che nella notte attraversiamo, vela e motore, senza quasi accorgercene.

Siamo partiti da una decina di ore quando un poco di vento risveglia il Capitano che osservo mentre regola le vele e gira sopra coperta, luce rossa sulla testa, verificando e controllando che tutto sia a posto… da quando siamo partiti avrà pronunciato non più di una decina di parole, ma a me piace, mi dà un senso di sicurezza che leggo benissimo dal suo linguaggio del corpo, il linguaggio dal quale non ti puoi sottrarre, non puoi fingere e parla per te anche se stai abilmente mentendo.

L’alba sulla costa francese porta un vento moderato al traverso di una quindicina di nodi che in poche ore ci ruota alle spalle: issiamo lo spi (i francesi lo chiamano spi, ma in realtà è un gennaker triradiale asimmetrico) di 155 mq, più la randa di 64mq che iniziano a far decollare il Narayan.

Lo spi è rosso, ma soprattutto enorme, gigantesco, ed io resto basito dalla potenza e dall’eleganza della barca e affascinato dalla conoscenza del Yannick, che sembra esserci nato dentro.

A metà mattina onde lunghe iniziano a gonfiarsi, il vento diviene teso ed il Narayan sotto raffica fa sentire le sue accelerazioni, mentre bianche creste di spuma vengono soffiate sopra di esse, mi rendo conto d’essere completamente assorbito nel vivere questo momento con la mia barca e nell’osservare ammirato, come un bambino, ogni movimento del Capitano per «rubare con gli occhi» tutto ciò che mi sarà possibile acquisire: così assorbito che ho praticamente dimenticato gli altri due dell’equipaggio come fossero svaniti, nonostante gli ottimi rapporti preparo da mangiare per tutti e quattro ma in realtà è come se a bordo fossimo solo il Capitano ed io.

Prima del tramonto 25 nodi di vento costante ci fanno calare lo spi che avvolto dalla sua calza scende impeccabile con immensa fatica da parte mia e di Patrick, sforzo dato più dalla tensione che dal fatto in se stesso; apriamo il fiocco ed i venticinque nodi non ci preoccupano, le onde diventano piccole dune e all’arrivo della notte, per precauzione, prendiamo la prima mano di terzaroli.

Yannick riposa poco, io non riesco a dormire e resto di turno, Patrick sta poco bene così come Giorgio; succede, restiamo esseri umani.

Ora o mai più

È notte fonda quando chiedo a Yannick, vi giuro solo ed unicamente per pura curiosità, se non è il caso, eventualmente, di prendere una altra mano di terzaroli e lui, pacatamente mi spiega che non è il caso perché le onde sono alte ed è meglio avere più tela, mentre il vento soffia dai 32 ai 35 nodi, Yannick, con la barra impugnata a due mani non fa una piega mentre a 15/18 nodi di velocità planiamo nel nulla… proprio nel nulla: solo ora mi rendo conto che stiamo navigando nella più completa oscurità in una notte nuvolosa nel mezzo del Canale della Manica… occhio allo AIS* che qui passano molti cargo, mercantili grossi e cattivi, rapide navi grandi come grattacieli lanciate a più di venti nodi di velocità che si fermano in qualche ora.

Yannick mi chiede se voglio prendere la barra ed io inizialmente rifiuto quasi terrorizzato perché non si vede che a poche decine di metri, avanti… dietro, tutta un’altra cosa e solo ora capisco perché pare che anticamente fosse sconsigliato o addirittura vietato guardare dietro, mentre grosse onde alte come piccole colline si alzano sino a darti la quasi netta sensazione che ti raggiungeranno sommergendoti.

Sorrido al Capitano, ma è una reazione nervosa seguita da un poco convinto: «Dammi cinque minuti, forse, peut-être, aspetto ancora un po’».
Il suono del vento domina il buio della notte illuminata dalla schiuma mentre il Narayan surfa leggero scendendo rapido l’onda, accelera per poi incontrare la successiva immmergendo la prua quasi stesse per piantarsi mentre la coperta si riempie d’acqua, lui riprende a surfare rapido, nel nulla.

Ho paura: oggettivamente ed onestamente me la sto facendo sotto; mentre la netta sensazione di aver fatto un passo più lungo della gamba sta quasi prendendo il sopravvento mi accovaccio sotto coperta per qualche minuto chiudendo gli occhi, come morente, quando una visione mi fa improvvisamente rianimare: vedo il mio vicino, Marco Polo aprire la finestra di casa e sorridere, mentre si tocca le palle con entrambe le mani.
Non capisco se per dire «auguri, sei nella merda toccati le palle sperando ti vada bene», oppure per dirmi di tirare fuori le mie, di palle… prendo buona la seconda perché per natura sono positivo ma ho la certezza di trovarmi ad un punto di svolta, ho la netta sensazione di aver l’occasione di attraversare un ponte che se non valicato svanirà nel nulla… proprio come una notte nera; questo è un ponte da passare, un ponte importante… viva i ponti, di qualsiasi materia o non materia siano fatti.
Lo faccio; no, meglio di no… sì, lo faccio. Se non lo faccio adesso, non lo farò mai più!

Voglio vincere la mia paura, così torno in coperta sistemandomi a poppa, dietro a Yannick che sembra anche divertirsi… e guardo, osservo il mare: la notte, buia, nera ha inglobato il cielo e solo la spuma delle onde, che solleviamo a volte a prua, imbianca il nulla.

Passano i minuti mentre surfando il Narayan continua a zigzagare, destra e sinistra accelerando di scatto come un centometrista, agile potente come un full-back del football americano; inizio ad osservare meglio Yannick ed i movimenti delle sue mani sul timone: lo muove di pochi gradi con colpi decisi con calma e controllo, così, isolato dal vento e dal mare, il movimento usato sulla barra del timone è illuminante. Ok Capitano, prendo il timone… ma restami vicino almeno dieci minuti; Narayan fatti portare.

Ho il sedere incollato alla barca, con le mani sudate e fuse con la barra, i capelli ed il volto bagnati dagli spruzzi che, a volte, diventano vere e proprie secchiate d’acqua mentre Yannick mi erudisce sulla conduzione, inizio a sentirmi tutt’uno con il Narayan, lo percepisco quando accelera, quando rallenta. Cose banali, se volete, così banali da farmi piangere per la gioia che riempie il mio cuore; sorrido e piango per i primi minuti… poi… solo di tanto in tanto, ve lo giuro, inizio a emettere poco contenute urla adrenaliniche che pongono in agitazione l’intero equipaggio.

Yannick è soddisfatto di me, si complimenta ed io, per un momento, mi riempio di gioia infinita… grazie Capitano, grazie Narayan.

La mattina presto Eric si mette al lavoro: questo è il nome che ho dato al pilota automatico che lavora per due uomini, non ha bisogno di riposare, non beve e mangia solo l’energia che Bimbo provvede a dargli. Bimbo è il nome che ho scelto per l’idrogeneratore: lo immergi in acqua, se fai almeno 6 nodi e lui carica instancabile, come un bimbo, dà energia all’intero sistema. Eric, Bimbo ed io, siamo una squadra.

Con le prime ore del mattino cala il vento ed il mare si placa, sveglio il resto dell’equipaggio e dormo un beato sonno da infante fino a ritrovarmi nelle scure acque del Tamigi.

Probabilmente, nell’immaginario di qualcuno, mio compreso, il rinomato fiume è azzurro, con le rive di bruna terra inglese, contornate da salici piangenti e da verdi prati e, probabilmente, così è solo dopo la fagocitante Londra. In realtà, nelle circa trentacinque miglia che vanno dalla sua foce al Tower Bridge, l’acqua ha un innaturale colore marrone metallizzato… penso che abbiano sottratto il brevetto Montedison dell’acqua lagunare dandogli il solito tocco inglese; su entrambe le rive decadenti costruzioni industriali dismesse, quasi ininterrotte per tutto il percorso, sembrano croci di un cimitero ricco di fasti del passato.

Giorgio è silenzioso, Yannick disinteressato, visto che come francese si trova quasi in territorio «nemico», io ammutolito e deluso dallo squallore del paesaggio; l’unico entusiasta è Patrick, appassionato cultore di storia industriale che vede in quegli obbrobriosi edifici rettangolari, ciminiere comprese, come autentiche opere rappresentative dell’ingegno e della operosità umana; in piedi a prua, Patrick le ha elencate quasi tutte grazie ad un libro fotografico sull’argomento che tiene in mano mentre con l’altra indica, in puro stile guida turistica, edifici e storia correlata… Contento lui; a me, che ho tanto viaggiato, per stupirmi e meravigliarmi dell’umano ingegno basta guardare la forcola di una gondola.

Teoria sui motivi della creazione dell’impero inglese

Questa personalissima teoria sul perché gli Inglesi iniziarono ad uscire dall’isola provando a colonizzare, con la scusa di civilizzare svariate nazioni e continenti, si basa su una constatazione del «fattore alimentare»: alquanto annoiati di mangiare pesce con patate fritte, unica cibaria rimasta per secoli, sin dai tempi dei Romani, intuirono, probabilmente dopo la guerra dei cent’anni proprio dai Francesi, che sulla tavola, in cucina, ci poteva stare qualcosa d’altro, poi, per puro orgoglio britannico, ma soprattutto perché non erano riusciti a conquistarli e nell’impossibilità di possedere il terreno del vicino, si rivolsero altrove, colonizzando mezzo mondo, ghiotti di altre cucine per venire colonizzati a loro volta, nel tempo, soprattutto dalla saporita e ricca cucina dell’India.

Generalizzando posso dirvi la mia personale opinione lapidaria su questo popolo e visto che la cultura puritana, incapace di esimersi dal giudizio e che spesso, appunto generalizzando, dipinge con banali luoghi comuni gli stranieri, dagli italiani al resto del globo vengono rappresentati in pittoresche maniere con i più svariati epiteti, vi dirò, in maniera sintetica e diretta ciò che penso, e cioè, che il più delle volte sono semplicemente dei bifolchi autoblasonati.

Con gli Inglesi raramente ho delle buone sensazioni, nonché esperienze: quest’anno uno di loro mi ha rubato il computer, un altro le infradito ed il terzo l’ho beccato mentre si scolava la mia birra appena appoggiata sul banco del pub; poi ho un conto in sospeso con un bastardo da eliminare, se questo lo prendo, è rovinato, parola mia.

Ho un conto in sospeso con un certo tipo inglese che dalla giovane età mi ha rovinato l’esistenza: probabilmente gira ancora in barca sul Tamigi insieme ai sue due amici ed a un cane… se lo becco, giuro che lo sperono con il Narayan; tale ignobile essere umano si è permesso di scrivere un libro, reo di aver rovinato intere generazioni; lui, un giornalista con pretese letterarie che con «Pensieri oziosi di un ozioso» mi ha deviato dalla retta via.

Giuro che se non avessi letto quel dannato libro all’età di quindici anni sarei divenuto, probabilmente, un essere più o meno normale, come tutti gli altri… maledetto inglese.

Le enormi chiuse, e poi: il cuore della città

Avanziamo nel liquido marrone mentre la città comincia a coprire le rive e le campagne adiacenti, gradualmente i suoi edifici iniziano ad alzarsi riempiendo spazi e paesaggio; passiamo le enormi chiuse (Thames Barrier) che sono un vero capolavoro di ingegneria idraulica ed in poche miglia saremo nel cuore della città, all’interno della Lime House Basin.

Lime House Basin è uno dei tanti vecchi bacini esistenti nella antica Londra, da questo, come dagli altri, venivano scaricate le mercanzie giunte via fiume con grossi navigli che venivano, in questi piccoli porticcioli, ripartite, trasportate e distribuite attraverso stretti canali, propaggini, ramificazioni acque che raggiungevano il cuore della città; entriamo passando una piccola chiusa che ci innalza di qualche metro a livello del bacino immerso tra case e grattacieli, automobili e frastuono.

Qui l’acqua è marrone scuro e vedo strani pesci con più pinne, uno, mi pare, abbia tre occhi e senza nostalgia mi ricordano le nostre vongole veraci geneticamente modificate della laguna (brevetto SAVA alluminio) di fronte a Marghera… forse è solo la stanchezza.

Ormeggiato il Narayan guardo il computer di bordo con la rotta che dalla Francia ci ha portato a Londra e quasi non credo al fatto che anch’io ho fatto parte di quella piccola linea tratteggiata, c’ero anch’io.

I cinque seguenti giorni scorrono rapidi, tra preparativi, visita di mia figlia grande Giovanna, gite culturali ai pub della zona e cambio di equipaggio: il Capitano Yannick torna i Bretagna così come Patrick, mentre arrivano Marta ed Howard, a definire il nuovo assetto. Skipper Giorgio, io secondo, Marta M. di Venezia che viene da una famiglia di velisti e Howard, un amico inglese conosciuto in India qualche anno fa che per la prima volta (suppongo sia anche l’ultima) sale su di una barca a vela per attraversare la Manica… ops pardon, gli Inglesi, che sono quasi sempre proprietari, lo chiamano Canale Britannico.

Il morale è alto e fervono i preparativi, mentre Giorgio guarda la meteo, rotta, correnti di marea e quant’altro, noi prepariamo al meglio la barca con adeguato cibo, carburante, acqua, controllando cime, drizze e scotte, carrello e puleggie.

La mattina della partenza Narayan entra nello spazio della chiusa che in breve ci cala di qualche metro per aprirsi alle melmose acque del Tamigi, salutiamo Lime House Basin senza nostalgia e raggruppatasi la piccola flotta, ci dirigiamo verso il mitico Tower Bridge che si aprirà al nostro passaggio: siamo solo nove imbarcazioni, sette partite da Amburgo e quasi tutti, tranne due che a Gibilterra entreranno in mediterraneo, siamo diretti alle isole Canarie, Lanzarote, i più per poi andare dall’altra parte dell’oceano.

Poche miglia e ci appare, in tutta la sua magnificenza, il sacro ponte inglese che dal basso appare ancor più affascinante; Narayan in testa alla piccola sfilata, sul volto dell’equipaggio un sorriso tra il compiaciuto ed il non ci credo mentre i grandi bracci del ponte iniziano ad alzarsi ed una folla incuriosita guarda il passaggio, io saluto; loro un po’ meno, visto che batto bandiera francese… poco male, immaginate solo se sapessero che sono italiano.

Una volta passati sotto il ponte, lo spazio, di circa seicento metri, ci imprigiona per una mezz’ora finché viene riaperto decretando la partenza della European Odyssey 2014, ripassiamo salutando… qualcuno sembra abbia anche risposto.

La mezza giornata sul fiume scorre a motore tra rive fangose e vecchie industrie in disarmo che ora mi sembra quasi di conoscere grazie a Patrick… non le apprezzo comunque, ma ora capisco bene perché le demolirei; vento assente sino al tramonto dove alziamo tela e ci facciamo portare da una decina di nodi al traverso che in qualche ora ci portano a Ramsgate sulla foce del Tamigi, mentre il mare inizia a gonfiarsi ed il vento rinforza e come previsto ci soffia in faccia.

Fuori dalla foce del Tamigi

Piena notte e Giorgio sta male, vomito e diarrea lo costringono a letto a riposare: domani starà meglio; Marta a riposare ed io con Howard che mi fa compagnia anche se lo vedo leggermente intimorito dall’oscurità e dal vento, mentre barro forzatamente incapace di usare il pilota automatico… con quello che costa.

È l’alba. Pensavo, che il giorno portasse condizioni migliori, invece il vento è aumentato a venticinque nodi con raffiche di trenta, come le onde. Sveglio Giorgio che barcollante mi aiuta a prendere una mano di terzaroli per poi tornare in cabina.

Iniziamo a tagliare il Canale della Manica verso le dieci del mattino, Giorgio ha l’aria di essersi rimesso in sesto, passo la barra perché ho assoluta necessità di riposare un poco per riprendermi dopo più di ventiquattro ore dalla partenza; Marta e Giorgio di turno, Howard ed io a riposare; levo la cerata, abbasso i pantaloni, mi immergo in un caldo piumino che mi accoglierà per la prossima ora e mezza… teoria.

Tempesta sulla Manica

In pratica vengo svegliato da rumori inquietanti, un violento sbattere di vele, il Narayan che si inclina un po’ troppo precedendo di poco l’arrivo di Marta sottocoperta che mi desta completamente dandomi una poco simpatica notizia con sole tre esaustive parole: skipper in panico.

Le chiedo se ne è certa e lei, fortunatamente velista e figlia di velisti me lo conferma; non ho tempo per pensare… anzi, non c’è proprio niente da pensare.

Salgo in coperta: andatura di bolina, vento reale 32 nodi quasi costanti, onda considerevole tra i tre ed i quattro metri, si sveglia anche Howard che pur rispondendo al mio «come va?» in maniera positiva, sembra essere in acido, Giorgio con gli occhi sbarrati continua a vomitare, Marta mi osserva abbastanza tranquilla mentre enormi cargo sparati a venti nodi di velocità attraversano la nostra rotta; o noi la loro: questo evidentemente dipende dal punto di vista.

Prendo la barra, mando Giorgio a dormire, Marta a preparare un tè e Howard a rollarmi una sigarettona di trinciato forte… Quanto a me, incollato alla barra, affronto, mio malgrado, per la prima volta il mare da Capitano con un unico pensiero formulato dal mio neurone solitario: portare sano e salvo l’equipaggio e la barca a destinazione e così timono per ore con vento e onde mai vissute prima, il meteo impietoso mi sferza il volto bagnato mentre sorrido fintamente a Marta per rassicurarla.

Barro senza rendermi conto di niente, tranne i filetti segnavento del fiocco, le onde, le raffiche ed i cargo: sto solo sopravvivendo per portare la barca dall’altra parte, a questo punto non importa più se a Cherbourg o dove altro, l’importante è atterrare; mancano troppe miglia nautiche di bolina ed il bozzello che sta alla fine del boma, nel quale passa la scotta di randa, si è staccato, la guaina della scotta è mangiata tra il boma ed il carrello di randa ed ho paura che ceda tutto.

Continua la battaglia per ore che mi sembrano infinite e nel primo pomeriggio, conoscendomi abbastanza bene, capisco che mi restano ancora poche energie psico-fisiche prima di crollare dalla stanchezza ed iniziare a fare qualche cazzata, già inizio a sentirmi poco lucido, oltre a questo la scarsa conoscenza della vela, mi inibisce fortemente nel trovare proprio quella lucidità necessaria per uscire dalla situazione… devo prendere una decisione… adesso.

Mi rendo conto che lo skipper si è sbagliato sulla marea, sulla corrente, sul dove e sul quando tagliare la Manica, lo abbiamo tagliato male e troppo presto: il vento soffia in direzione opposta alla forte corrente di marea che ha un coefficiente di 102 e le onde sono veramente alte. Scoprirò in seguito, che siamo stati l’unica imbarcazione del gruppo ad aver attraversato in queste condizioni… gli altri a vedere la partita di calcio sulla costa inglese.

Appena passata la zona di transito dei cargo, chiamo in coperta Giorgio per avere il punto su rotta e tempo di arrivo alla nostra meta; scende sottocoperta per risalire dieci minuti dopo con confuse affermazioni su rotta e distanza… Lo rispedisco a dormire e per fortuna che c’è Marta che in pochi minuti mi stabilisce una nuova rotta e spalle al vento copriamo le 45 miglia nautiche in poco più di tre ore, per atterrare sani e salvi, Narayan compreso.

Ammissione di responsabilità

A Dieppe (sempre coefficiente 102) l’escursione di marea di quel giorno è di nove metri e mezzo (cresce sempre in sei ore). Siamo salvi: sono riuscito nel mio compito e l’atterraggio è stato impeccabile; il bozzello attaccato al boma si è staccato rompendo il Dynema (tipo di cima molto resistente) facendo sfregare la scotta di randa sino quasi a consumarla… ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta, ma adesso so, molto meglio di prima, che non mi basta aver preso in mano una situazione difficile per essere un Capitano e per poter navigare in sicurezza mi mancano troppe conoscenze e la mia ignoranza inizia a farmi paura.

Marta e Howard partono tra abbracci e ringraziamenti, dò un grosso bacio a Marta che ci ha salvato il culo e un abbraccio ad Howard per il coraggio dimostrato: entrambi sono stati un ottimo equipaggio perché hanno dato il massimo di quel che potevano dare, mentre io perdo l’uso della parola per due giorni.

Giorgio è un uomo e dopo la sua triste ammissione di incompetenza vuole sbarcare a Dieppe perché si è sopravvalutato mettendo a rischio equipaggio ed imbarcazione e questo è grave… se ne rende tristemente conto di aver mancato alle prerogative del suo ruolo e se ne vuole andare, vuole sbarcare subito, con una pesante pietra della vergogna che ricorderà.

Onestamente se fosse stato uno sconosciuto sarei, molto probabilmente, passato alle mani appena fissata l’ultima cima d ‘attracco ma, data la più che decennale amicizia lo obbligo a restare ancora una settimana… sbarcherà dopo aver navigato ancora… fino a Saint Marine.

Notte folle a S. Peter Port

Telefono subito a Yannick che prego vivamente di raggiungermi per condurre me ed il Narayan al cantiere; lui arriva impeccabile due giorni dopo conducendoci prima a Cherbourg per un incontro con la organizzazione e poi a Peter S. Port, in un’isola nel mezzo della Manica dove ci sbronziamo in allegra compagnia di un altro equipaggio conosciuto pochi mesi prima in Bretagna… dico sbronza per una semplice deduzione, che Yannick nega, visto che al quarto pub siamo stati, tutti e sette, accompagnati alla porta anche se a noi pareva altamente ingiusto.

Notte folle a S. Peter Port e partenza pomeridiana con mal di testa dovuto ad uno strano irradiamento solare… cambiamenti del clima.

Atterrati sani e salvi a Saint Marine, parte Giorgio ed il cantiere ripara celermente i piccoli danni al Narayan che nel giro di pochi giorni è pronto a ripartire.

Attendo ancora qualche giorno il ritorno di Yannick in compagnia della moglie incinta al quinto mese per tre giorni di navigazione sulla costa bretone che si concludono con un magnifico atterraggio a vela fino all’inizio del canale di Vannes dopo aver attraversato lo splendido golfo di Morbhian che molto mi ricorda la mia laguna.

Attraverso il Golfo di Biscaglia

Notte nella affascinante Vannes e al mattino presto Yannick ed io siamo pronti per attraversare il golfo di Biscaglia: trecento trentaquattro miglia nautiche in due, fino ad A Coruña, in Galizia; questa è la prima volta che affronto una navigazione in due con la mia barca e sono tanto emozionato quanto impaurito, i tre giorni passati tra ancoraggi e piccole navigazioni mi hanno rilassato e ritemprato: ora inizia la discesa verso Lanzarote… in due.

Come proprietario vieto a Yannick di occuparsi altro che della conduzione, io pulizie bagno, camere, cucina che non devono distrarlo, visto che è sia skipper che formatore (ruoli che in Francia sono distinti).

Partiamo di buon mattino con un vento costante da Nord di iniziali 15/20 nodi che alla sera ci pompa dietro 30/35 nodi di anticiclone delle Azzorre che nel mese soffia poderoso sul Golfo di Biscaglia e sulla costa della Spagna e del Portogallo.

Poderoso Narayan: percorriamo le 330 miglia nautiche in 34 ore con una sola strambata finale sotto spi a 25 nodi di vento, a poche miglia dall’entrata di A Coruña, nella incantevole terra di Galizia.

Personalmente, le trentaquattro ore di navigazione mi sono sembrate eterne, soprattutto la notte vissuta sempre con apprensione e paura evoca e amplifica le mie paure… mi sento menomato e piccolo: nonostante i miei quasi cinquant’anni e le quattro conoscenze acquisite (non è che siano proprio quattro… anche meno, semmai) mi sento incapace ed impotente come un bambino che vede gli adulti compiere cose a lui sconosciute, quasi mistiche… le vuole conoscere e fare anche lui, ed è motivato ma si rende anche conto del frustrante peso della ignoranza e si pone quasi costantemente la domanda: ce la farò?

Atterrati alla Marina di A Coruña incontriamo il resto della flotta European Odyssey pronta a partire in un paio di giorni; Narayan ha un piccolo problema all’impianto idraulico del pilota automatico, dovrò aspettare almeno una decina di giorni, tempo che il pezzo arrivi.
Intanto sono arrivato, vivente, ad A Coruña , Galizia, Spagna, Europa…
Saluti beneamati concittadini. Prosperità e benessere.

NOTA. AIS. Sistema di identificazione automatica (SIA) o transponder è un sistema automatico di tracciamento utilizzato in ambito navale, in ausilio ai sistemi radar, allo scopo di evitare le collisioni fra le unità in navigazione. In inglese: Automatic Identification System — AIS; in francese Système d’identification automatique — SIA.

https://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_di_identificazione_automatica

Londra, sul Tamigi  sotto il Tower Bridge (foto MMM).,…

Tempesta sulla Manica