Voleva ammazzare
il tempo, il tempo
ha ammazzato lui
Ricordo di uno scrittore fuori dal comune
La scomparsa di Andrea G. Pinketts stroncato da un tumore alla gola a soli cinquantasette anni. Era considerato uno scrittore di noir, ma era un modo di dire. Scriveva solo nei bar e preferibilmente di notte. Raccontava storie folli e bizzarre di personaggi stravaganti e spesso ai margini. La sua penna era strepitosa: funambolica, ironica, grottesca, ricca di invenzioni linguistiche e di giochi di parole. Giocava a fare il duro ma aveva il cuore tenero. Diceva che la vita è piena di insidie, la morte invece no. Oddio, forse proprio bella non è -aggiungeva- «ma sul fatto che è di tutto riposo non ci piove».
(r.b.) — “Cercavamo di ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzasse noi”. Scriveva così, con tutta la sua limpida, meravigliosa ironia, nell’incipit folgorante de “Il conto dell’ultima cena” (Mondadori, 1998), uno dei suoi romanzi più riusciti, che chiudeva la trilogia dedicata a Lazzaro Santandrea, investigatore perdigiorno sui generis, che era una sorta di suo alter ego. Non ce l’ha fatta. Il tempo ha ammazzato lui. Un tempo corto, cinquantasette anni appena, con la complicità di un tumore alla gola.
Le pose da Marlowe, borsalino spiegazzato in testa, camicie colorate, giacche improbabili, sigaro toscano penzoloni all’angolo della bocca, pinta di birra scura sempre davanti, la voce possente e la risata contagiosa, Andrea G. Pinketts (nome vero Andrea Pinchetti, la G. l’aveva aggiunta lui, voleva dire Genio), era uno scrittore da bar. Nel senso che amava i bar e scriveva solo nei bar. Preferibilmente la notte, preferibilmente nella sua tana milanese del Trottoir. E rigorosamente a mano, con una vecchia stilografica francese, su quadernacci sgualciti macchiati di birra e di caffè, unti di ditate di polpette e sfrigolanti di pezzettini di foglie di tabacco.
“Mi piace il bar –diceva e scriveva in un libro dallo stesso titolo- è un luogo di profeti un poco malandati con del cinismo e delle ingenuità. Mi piace il bar, è il posto in cui per ore, se fai il cane in calore, qualcosa prima o poi succederà. Mi piace il bar,è un centro di bugie, non sono solo mie, e tutte insieme fanno verità. Mi piace il bar, i piccoli problemi diventano i più estremi e quelli grossi restano un po’ in là. Mi piace il bar, ma quando i deficienti si sentono importanti e irrompono nella comunità, io cambio bar”.
Era uno scrittore di noir per modo di dire. Raccontava storie di vita. Spesso balzane. Di personaggi stravaganti e sovente marginali. Magari non erano grandi storie. Però lo era la sua scrittura: acrobatica, funambolica, scoppiettante, divertente, ironica, grottesca. Amava i giochi di parole, di cui era maestro, fino all’eccesso. E aveva come pochi “il senso della frase”, come il titolo di un suo libro. Le sue descrizioni di ambienti e personaggi erano impagabili. Come i titoli dei suoi libri, tutti folli e bizzarri: Il dente del pregiudizio, La capanna dello zio Rom, Depilando Pilar, Ho una tresca con la tipa nella vasca, L’assenza dell’assenzio, Io non io neanche lui, L’ultimo dei neuroni, Lazzaro vieni fuori, Il vizio dell’agnello, Sangue di yogurt, Fuggevole turchese, Ho fatto giardino, Nonostante Clizia, Mi piace il bar, Il senso della frase, Il conto dell’ultima cena. Niente male anche quello che aveva appena terminato e uscirà postumo: E dopo tanta notte strizzati le occhiaie.
Nella sua vita, oltre a scrivere, aveva fatto di tutto. Almeno così raccontava nei bar. Chissà se era vero. Il fotomodello, l’animatore, il cacciatore di dote, il giornalista investigativo, l’istruttore di arti marziali (il micidiale atami al plesso solare il suo colpo preferito), persino il pornodivo col nome di Udo Kuoio, “il re della frusta”. Diceva di avere “una passione sfrenata” per le cattive compagnie, la letteratura, i bar equivoci, i sigari e le donne. “Non necessariamente in quest’ordine”. A Milano aveva fondato, con altri sballati come lui, la “Scuola dei Duri”, un movimento letterario che si proponeva di “esplorare la realtà attraverso l’indagine poliziesca”. In realtà, dietro la maschera, Pinketts era un tenerone. Un uomo di un’ingenuità e di una bontà imbarazzanti. Un duro col cuore di meringa, che dopo le baldorie notturne la mamma, cui era legatissimo, si ritrovava in casa che faceva il bagnetto nella vasca che riempiva di palle profumate che la sommergevano di schiuma.
La vita, raccontava, “è piena di insidie. La morte no, è bella tranquilla. Oddio, forse proprio bella, no. Ma sul fatto che è di tutto riposo non ci piove”.
Leggere i suoi libri era come vedere un vecchio film western pieno di pistolettate. Ci si divertiva un sacco. Ci mancherà.
LA PAGELLA
Andrea G. Pinketts. Voto: 8