Facce ride

Vignette velenose

Dopo le vignette su Maometto esibite sulla maglietta da un ministro leghista, che hanno dato scandalo in tutto il mondo, un’altra vignetta dedicata a un altro ministro italiano, quello del governo postfascista addetto alla sostituzione etnica, solleva un coro di critiche indignate negli ambienti di destra e non solo, riaprendo un dibattito vecchio come il cucco sui limiti del diritto di satira. Che, come dimostrato anche dalla vicenda di Charlie Hebdo, in una società libera e democratica non può avere limite alcuno. Salvo quello dell’insulto. Ma per quello ci sono i tribunali, non le piazzate.    

Una copertina di Charlie Hebdo

(I.R.) — Se ci eravamo tanto divertiti, qualche anno fa, per la maglietta con le vignette su Maometto indossata da un ministro leghista del governo italiano (nulla di scandaloso, un Paese libero e laico può permettersi di scherzare anche sul Papa), perché mai non dovremmo ridere adesso per le corbellerie che spara ad ogni piè sospinto un ministro postfascista -per la precisione quello addetto alla sostituzione etnica- dell’attuale governo?

E invece no. Pare non si possa. Neanche fosse un delitto di lesa maestà.

L’oggetto del contendere, che ha scatenato una ridda di reazioni indignate  –soprattutto negli ambienti di destra ma non solo- è ancora una volta, guarda caso, una vignetta, a conferma del fatto che fanno più paura due tratti di matita che due colpi di cannone. Proprio vero che, come diceva il proverbio, ne uccide più la lingua che la spada: multo quam ferrum lingua atrocior ferit.

La vignetta in questione, pubblicata da un quotidiano, mostra due persone a letto, una accanto all’altra, sotto le coperte. L’uomo, che è nero di pelle, dice alla donna: “E tuo marito?”. La donna, che è bianca di pelle, risponde: “Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica”.

Tutto qua. Roba da educande. Una vignetta (nemmeno troppo ispirata, peraltro) come se ne vedono tante, fin dagli anni Cinquanta, sulla Settimana Enigmistica. Nessun disegno osceno. Nessuna parolaccia. Nessuna volgarità.

Il “marito” cui si fa riferimento nella vignetta, parrebbe essere proprio il ministro della sostituzione etnica, e la signora distesa a letto con un altro uomo la sua legittima consorte. Che, guarda caso (ma è solo un dettaglio), è anche la sorella della premier in carica, la quale si indigna e parla di “ferocia” contro la sorella. Che comunque non c’entra nulla con il problema di cui si occupa il marito.

Tant’è. Si alza un coro indignato di voci postfasciste che chiedono scuse, condanne, giustizia. Dicono che non è satira ma solo spazzatura “dalla quale tutti dovrebbero prendere le distanze”. Dicono che è una vignetta offensiva, indecente, volgare, disgustosa, vomitevole, schifosa, squallida, sessista, razzista, che “oltrepassa qualsiasi limite di decenza”. Aggiungono, per metterci il carico da novanta, che “non è nemmeno divertente”.

Tutte le opinioni sono lecite, ci mancherebbe. Ed è assolutamente legittimo che qualcuno la trovi disgustosa come qualcun altro la trovi invece divertente. Non è questo il punto. Quello che non è assolutamente legittimo è sostenere che si tratti di una vignetta “offensiva”, e pretendere perciò delle scuse e chiedere addirittura delle prese di distanza, che nascondono, e neanche tanto bene, una pruriginosa e mai scomparsa voglia di censura.

Qualcuno dovrebbe spiegare, a questi governanti postfascisti che sembrano ignorare le regole del gioco democratico, e anzi spesso vorrebbero farsene beffe, che in un Paese libero, come nonostante tutto ancora è questo (ma forse è la parola libertà che per certa gente è già di per sé irritante), la satira, come la critica, non ha e non può avere confini. Di alcun tipo. Piaccia o non piaccia. L’unico limite, ed è un limite invalicabile, è l’offesa. L’insulto. L’ingiuria. E per questo ci sono le denunce e i tribunali. Non gli strilli di piazza, gli anatemi, le scomuniche, le purghe e i piagnistei.    

Vero che non sono adusi all’esercizio del potere (e nemmeno capaci di esercitarlo, ma questo è un altro discorso), i postfascisti. Ma dovranno abituarvicisi, se vorranno riuscire nell’impresa (al limite dell’impossibile, in verità), di terminare la corsa in piedi. Significa che, volenti o nolenti, dovranno fare il callo alle critiche più aspre e più dure, alla satira più impietosa e disgustosa, alle polemiche più velenose, agli attacchi più pesanti. Sempre nel limite imposto dalle leggi, ben s’intende. Niente offese né violenze. Ma parole (e vignette, appunto) acuminate come frecce al curaro.

E lasciate stare la privacy, che non c’entra. Almeno in questo caso. I personaggi pubblici, diversamente dai comuni mortali, non hanno diritto alla privacy proprio in quanto personaggi pubblici. La notorietà comporta –giustamente- dei prezzi da pagare. 

Comprensibile che tutto questo sia poco gradito ai camerati, che notoriamente hanno altre abitudini. Ma questo è il gioco democratico. Uno statista di quelli che loro neanche se li sognano, come “il divino” Giulio Andreotti, non ha mai querelato nessuno in tutta la sua vita. Eppure gli abbiamo detto e scritto di tutto. Ladro, bandito, assassino, mafioso, belzebù. Lui, mai una piega. La classe non è acqua. Al ministro della sostituzione etnica, il giorno che l’hanno nominato, da piazza Montecitorio gli hanno gridato: “A Lollo, facce ride!”.        

 

         

Facce ride