Socialisti e comunisti

Cent’anni di solitudine

Senza la scissione di Livorno del 1921 tra socialisti e comunisti italiani, le cose forse sarebbero andate in un altro modo per le forze progressiste e per il Paese. Proviamo a rileggere, per capire, alcuni passi (molto profetici) del discorso che il deputato socialista Filippo Turati fece proprio al congresso di Livorno. Il Pci, nato per scardinare le istituzioni, fu poi determinante nella difesa della democrazia in Italia. Ma la sua troppo lunga dipendenza da Mosca ha frenato lo sviluppo di un’area progressista nel Paese e la possibilità dell’alternanza tra governi diversi.

15 gennaio 1921, inaugurazione del XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, delegati davanti il Teatro Goldoni di Livorno (fonte: it.wikipedia.org).

LIVORNO – …Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista, ma la valutazione della maturità della situazione e l’apprezzamento del valore di alcuni mezzi episodici. Primo fra questi, la violenza, che per noi non è, e non può essere, programma… Altro punto di distinzione è la dittatura del proletariato, che per noi, o è dittatura di minoranza, ed allora non è che dispotismo, il quale genererà inevitabilmente la vittoriosa controrivoluzione, o è dittatura di maggioranza, ed è un evidente non senso, una contraddizione in termini poiché la maggioranza è la sovranità legittima, non può essere la dittatura. Terzo punto di dissenso è la coercizione del pensiero, la persecuzione, nell’interno del Partito, dell’eresia, che fu l’origine ed è la vita stessa del Partito, la grande sua forza salvatrice e rinnovatrice…

Questo culto della violenza, che è un po’ negli incunaboli di tutti i partiti nuovi, che è strascico di vecchie mentalità che il Socialismo marxista ha disperse, della vecchia mentalità insurrezionista, blanquista, giacobina, che volta a volta sembra tramontata e poi risorge di nuovo, e a cui la guerra ha ridato un enorme rigoglio, non può essere di fronte alla complessità della lotta sociale moderna, che una reviviscenza morbosa ed effimera. Organicamente la violenza è propria del capitalismo, non può essere del socialismo. È propria delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare le maggioranze, non già delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali e coi mezzi normali di lotta, imporsi per legittimo diritto. La violenza è il sostitutivo e il preciso contrapposto della forza. È anche un segno di scarsa fede nell’idea che si difende, di cieca paura delle idee avversarie. È insomma, in ogni caso, un rinnegamento, anche se trionfi per un’ora, poiché apre inevitabilmente la strada alla reazione delle insopprimibile libertà della coscienza umana, che ben presto diventa controrivoluzione, che diventa vittoria e vendetta dei comuni nemici…

Quand’anche voi aveste impiantato il partito comunista e organizzati i Soviety in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionaria, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe.

E dovendo fare questa azione graduale, perché tutto il resto è clamore, è sangue, orrore, reazione, delusione; dovendo percorrere questa strada, voi dovrete fino da oggi fare opera di ricostruzione sociale… Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite di lasciar crollare la casa comune, e fate vostro il «tanto peggio, tanto meglio!» degli anarchici, senza pensare che il «tanto peggio» non dà incremento che alla guardia regia e al fascismo. Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per sé stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il migliore slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Ed allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno: troppa gente nuova è venuta che renderà aspra la via, ma non importa. Maggioranza o minoranza non contano. Fortuna di Congressi, fortuna di uomini, tutto ciò è ridicolo di fronte alle necessità della storia. Ciò che conta è la forza operante, quella forza per la quale io vissi e nella cui fede onestamente morrò, eguale sempre a me stesso. Io combattei per essa, io combattei per il suo trionfo: e se trionferà anche con voi, è perché questa forza operante non è altro che il socialismo. Ebbene, evviva il Socialismo!

(dal discorso dell’Onorevole Filippo Turati al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano al Teatro Carlo Goldoni di Livorno, il 19 gennaio 1921).

(r.b.) Cent’anni sono passati da queste profetiche parole. Il Pci, nato da questa scissione con l’intento di sovvertire le istituzioni democratiche alla moda sovietica, ha poi avuto un’esistenza contraddittoria, ma paradossalmente determinante nel costruire un’Italia che dopo il fascismo non è più ricaduta nel baratro della dittatura. Nelle stanze del Pci si respirava un’aria vecchia, grigia, polverosa, triste. Sovietica, appunto. Assai poco attraente. Ma il Pci è stata un’importante forza progressista, un baluardo democratico contro le derive eversive del brigatismo rosso, schierata sempre a difesa dei più deboli e in prima fila nella lotta contro mafie e corruzioni. Dice bene Maurizio Caprara sul Corriere della Sera: «Con tutte le sue contraddizioni e i suoi errori, merito del Pci nel dopoguerra è stato di aver instradato nel circuito democratico definito dalla Costituzione molti cittadini che altrimenti ne sarebbero rimasti fuori, e di aver trasformato numerosi italiani ignoranti in militanti istruiti, figli di povera gente in rappresentanti politici in municipi e aule parlamentari».

Ma non c’è nulla da festeggiare in questo triste centenario comunista, se si pensa ai danni che la scissione di Livorno ha comportato per le forze progressiste e per il Paese. Perché quella frattura ha ridotto per decenni le possibilità di iniziativa di uno schieramento riformista, e ha portato larghi settori della società a una rimozione collettiva del dissenso nell’Unione Sovietica.

Questo il motivo per cui l’Italia è stata, tra il 1947 e i primi anni Novanta, una «democrazia bloccata – sostiene Caprara – un Paese libero al quale era tuttavia preclusa un’alternanza tra forze di segno opposto nei governi. E a impedirla fu l’appartenenza, solo più tardi messa in discussione, del secondo partito italiano alla parte opposta all’Occidente del mondo diviso in due nel 1945 dalla conferenza di Yalta». È perciò che, nel bilancio di un secolo, «non si può omettere che il Pci, per troppo tempo, fece capo a un’area dominata dall’Unione Sovietica, mentre l’Italia rientrava in quella filo-americana».

Morto il comunismo, caduto il muro, sciolto il Pci, è seguita solo una tragica sequenza di errori ed orrori (Pds, Ds, Pd), in cui non è stata fatta l’unica cosa che poteva fare chi era comunista e aveva deciso, constatato l’errore, di non esserlo più: diventare socialista.

LA PAGELLA

Filippo Turati. Voto: 8
Socialismo. Voto: 7
Comunismo. Voto: 5
Unione Sovietica. Voto: 4

 

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