Avanti al centro un poco a destra

Ma in Brasile non è (ancora) la fine del bolsonarismo

Il secondo turno delle elezioni amministrative brasiliana (domenica 29 novembre) conferma le indicazioni uscite dalla prima tornata elettorale: grande avanzata del centro destra, con una brutta notizia per il Partito dei Lavoratori che non ha ottenuto al ballottaggio nessuna delle capitali federali. In calo netto l’ultradestra del presidente Bolsonaro.

Fine delle elezioni amministrative in Brasile: urna elettronica.

SAN PAOLO — I partiti di centro, e un po’ più verso destra, come i Repubblicani (Republicanos: destra destra centro), i Democratici (Democratas: destra centro), il Partido Social Democrático (centro centro destra) e  i Progressisti (Progressistas, centro centro centro sinistra), hanno aumentato notevolmente nel 2020 il numero di municipi conquistati rispetto al 2016, con grandi risultati nelle capitali federali e nelle città medie e grandi.

Dall’altra parte, gli sconfitti: i tucanos del Partido da Social Democracia Brasileira (PSDB, centro), il Movimento Democrático Brasileiro (MDB centro) e il Partido dos Trabalhadores (PT, sinistra) sono stati i principali perdenti in questo confronto amministrativo.

I primi due hanno frenato bruscamente, pur ottenendo significative conquiste. In termini di popolazione, il Partido da Social Democracia Brasileira governa ancora la maggior parte della popolazione del paese (quattro capitali) ma geograficamente è sempre più limitato allo stato di San Paolo. Al secondo posto il Movimento Democrático Brasileiro che governerà di sicuro il secondo maggior numero di abitanti, e il maggior numero di municipi (e cinque capitali), ma ha subito un calo drammaticamente consistente: il 25% in meno rispetto al 2016. Amarissimo il risultato del PT, che ha non ha eletto nessuno dei suoi candidati al ballottaggio (nel 2012 aveva almeno ottenuto sindaci in quattro capitali).

Sconfitta netta dei candidati di Jair Bolsonaro: batosta a Rio de Janeiro per Marcelo Crivela (il suo uomo dei Republicanos), e il figlio Carlos Bolsonaro ha preso molti meno voti di quattro anni fa, quando suo padre non era neanche candidato. Le elezioni sono andate malissimo fin dal primo turno, per esempio a San Paolo, dove il suo candidato (Celso Russomanno, ancora Republicanos) era arrivato appena quarto. Magra consolazione la vittoria a Rio Branco (capitale dell’Acre, nel lontano ovest, ai confini con il Perù) del professor Tião Bocalom (Progressistas) da lui appoggiato, che ci provava per la terza volta.

Per gli analisti è ancora presto per decretare la fine del bolsonarismo, visto che che tutto può cambiare nei prossimi due anni e che la situazione economica è il campo in cui si giocano le elezioni presidenziali. Ma a due anni dalla prepotente vittoria del presidente macho, appare evidente un netto calo di forza  e potenza elettorale.

Si offusca tristemente la stella rossa dei petisti: il Partido dos Trabalhadores è sceso dai 630 sindaci eletti nel 2012, a 256 nel 2016, e 183 quest’anno, almeno secondo i dati preliminari. È all’undicesimo posto per numero di sindaci del Paese. Rimane una forza elettorale di medie dimensioni nei municipi del Nord-Est, del Nord e del Sud. Il PT paga lo scotto della campagna anti corruzione di tre anni fa, denominata Lava Jato (autolavaggio), anche se dimostrata largamente infondata e costruita spregiudicatamente ad arte; e in parte anche l’arroganza di considerarsi pubblicamente vittime innocente.

«Il PT dovrà reinventarsi. L’antipetismo è ancora forte, questo è chiaro. Queste sconfitte dimostrano che il rifiuto del PT è ancora preponderante»: sintetizzano le parole di Jairo Pimentel, scienziato politico, ricercatore del Centro per la politica e l’economia del settore pubblico della Fondazione Getúlio Vargas.

Avanti al centro un poco a destra