Un alchimista a Venezia
Una storia vera che pare inventata
Quando la realtà supera la fantasia (il che succede quasi sempre, solo che noi facciamo finta di niente). Dalla Pubblicazione periodica dell’Archivio Veneto, del 1871 (tomo primo, pagine 171-172) un aneddoto raccontato da Bartolomeo Cecchetti (1838-1899) storico e archivista, che fu del sunnominato anche direttore. Un viaggio nella storia ( e anche nella geografia: dalle campagne bresciane fin dentro le stanze private del doge in Palazzo a San Marco) che a riscriverlo romanzato non verrebbe così bello come invece è nei documenti originali. Ove possibile nomi e cose notevoli sono collegati a pagine esterne per approfondimenti o schiarimenti (se selezionate, le parole diventano rosse); i corsivi sono nell’originale. Buona lettura e non vale copiare.
A Torbiato, nel territorio bresciano, sullo scorcio dell’anno 1589, trovavasi un ex-cappuccino, messer Marco Bragadin, di Cipro, allora venuto di Francia, che scialava da gran signore. Banchettava splendidamente, ed era visitato da molte distinte persone, fra le quali Alfonso Piccolomini e il duca di Mantova; aveva per amici alcuni gentiluomini, quali il conte Marc’Antonio Martinengo di Villachiara.
Il Consiglio dei Dieci, avuto sentore delle ingenti spese che andava facendo il messere, volle saperne la fonte, ed ebbe, che il Bragadin ritraea i suoi copiosi scudi da un suo secreto di convertire l’argento vivo in oro. I rettori di Brescia (Lettea 30 Ottobre 1589 al Cons. dei X) aggiungevano ch’egli aveva già preparato di quella sua pietra filosofale tanta da farne più di centomila cecchini; e trasmettevano al Consiglio dei Dieci alcune oncie dell’oro da lui formato.
Corsero colloquî e lettere per indurre il Bragadin (sollecitato dal duca di Mantova a recarsi nel suo Stato) a trasferirsi a Venezia, per arricchire, colla maravigliosa invenzione, il suo principe naturale.
Giungeva egli infatti a Padova (25 Novembre 1589), accompagnato dal conte Martinengo, da altri gentiluomini bresciani e vicentini, scortato da due compagnie (circa 100) di cappelletti, da alquanti bombardieri della città di Vicenza e da 50 cavalli mandati ad incontrarlo; ed era accolto onorevolmente nel palazzo pubblico del podestà e vicecapitano di Padova, cav. Zuanne Soranzo.
Arrivato a Venezia, cominciarono gli esperimenti; il Senato invitò i Provveditori in Zecca a trovarsi col Bragadino, «e a ragionar seco, o con alcuno delli suoi più confidenti, per penetrar con ogni destrezza et prudenza nella verità di questo negotio, et in quello che si possa assicurarsi et promettersi della riuscita di esso».
Non si poté però subito persuaderlo a ripetere la proiezione, dinanzi a Sua Serenità: ora diceva voler attendere alle cose dell’anima; ora esser sturbato dalla grande frequenza di nobili in sua casa; ora incerto se accettare le larghe offerte e gl’inviti direttigli dal duca di Baviera Ferdinando, che vagheggiava anch’egli (come il duca di Mantova e tutti gli Stati e i principi antichi e moderni) il nobile metallo. Ma finalmente nel giorno dell’Epifania, il 6 Gennaio 1590, venne in palazzo ducale assieme al Martinengo, che innocente o di mala fede, gli teneva bordone, e si offerse di formar l’oro sotto gli occhi del doge Pasquale Cicogna, «uomo di santi ed illibati costumi, e di religiosa carità». E qui le scritture officiali contemporanee di dipingono i Consiglieri, i Capi della Quarantia, i Provveditori di Zecca, un nipote del doge, il suo scudiere ed altri…
L’esperimento ebbe luogo nella stanza medesima, e fra gli alari del caminetto del doge; fu comperato il mercurio dal suo scuderie, gettato nel crogiuolo sotto gli occhi di tutti, aggiuntavi una polvere color arancio — la polvere trasmutatrice — ed un pezzetto di altra materia detta dal Bragadin di nessun valore, ed invitato il doge a seguire attentamente i fenomeni del processo. «Serenissimo Principe, Vostra Serenità sia contenta venire ancor lei, perché l’opera si fa a sua contemplatione — Et Sua Serenità si levò, et venne a vedere, standovi un poco; et il clarissimo Querini si sentò per alquanto spatio sopra una sedia vicino al foco», che era ravvivato dagli stessi patrizî. Raffreddato il crogiuolo, ne fu estratto un pezzo d’oro.
Così era finita la commedia — mentre uno dei più increduli, il consigliere Donà, stava sempre lontano senza curarsi di veder cosa alcuna.
Il Bragadin assicurava che del suo oro «erano stati fatti cimenti grandi, et è stato conosciuto finissimo». Ma così non la pensarono i Provveditori della Zecca, che riportarono due giorni dopo il risultato dell’assaggio fattone eseguire — e l’oro apparente fu dimostrato una lega di argento e di rame.
Pochi mesi dopo, il ciurmadore (sulla cui vita passata, mezzo-secolare, mezzo-fratesca, e tutta intrighi, s’era fatta intanto luce) si trafugava quasi vittima delle persecuzioni, raccomandando da Bassano (6 Agostro 1590) a Giacomo Alvise Corner «di smorzare colle sue parole qualche opinione a sé sfavorevole». Veggansi tutti i documenti relativi al Bragadino nei codicetti N. 80, primo e secondo, già della collezione Brera, ora nel R. Archivio Generale di Venezia.
Questo episodio vale a dimostrare che, qualunque fossero lo stato delle scienze sperimentali, e le credenze superstiziose dei tempi passati, il Governo Veneto si mostrava superiore agli altri nello scoprire il vero, sotto gl’inganni di que’ sedicenti filosofi che furono quasi tutti più frodatori che illusi.