Sporco rumore

I confini sociali di scienza, politica e giornalismo

Di fronte all’evidenza dei numeri, dei dati, ma anche delle immagini della realtà quotidiana, siano esse filtrate o, a maggior ragione, vissute in prima persona, le posizioni che differiscono dalla decisione di vaccinarsi sembrano oramai controintuitive.

Sporco rumore.

MILANO — Se poi si persevera ostinatamente pure dal letto di una terapia intensiva, agonizzanti, e tuttavia rifiutando le cure senza alcun ripensamento sulla scelta compiuta; oppure se ci si spinge perfino ad organizzare cene, momenti conviviali talvolta a pagamento, allo scopo d’infettarsi con Sars-CoV-2 per ottenere la possibilità di non ricevere il vaccino, allora siamo di fronte alla negazione dell’umano istinto di sopravvivenza.
I no vax hanno disattivato il proprio istinto di sopravvivenza, lo hanno inibito; oppure, l’istinto di sopravvivenza dei no vax si è inibito. È un passaggio evolutivo. Che coinvolge generazioni incapaci di sopportare i sacrifici e la sofferenza.
Ma quali sono le cause di questo cortocircuito delle facoltà innate degli esseri umani?
Proviamo a rispondere con una versione meno provocatoriamente darwiniana e più morbida, spostando il punto di osservazione e distribuendo possibilmente in egual misura le responsabilità di gestione tra gli attori della tragedia Covid.
Prendiamo dunque a prestito le parole della sociologia, spesso emarginata dal dibattito e soprattutto dai comitati tecnici seduti intorno all’esclusivo tavolo della politica e di una parte delle scienze.
Flaminio Squazzoni, sociologo, professore all’Università degli Studi di Milano, ha rilevato alcune specifiche criticità emerse durante la pandemia: ambiguità di responsabilità nelle decisioni pubbliche; scarsa cultura scientifica; ridondanza d’informazione; differenze tra la razionalità scientifica e quella dell’individuo.
Andiamo con ordine.


Il barile: «Lo hanno detto loro»

L’insofferenza alle restrizioni e la sfiducia nel vaccino sono per Squazzoni riconducibili all’ambiguità creata dall’interazione tra scienza e politica, alla confusione di ruoli tra scienziati e politici. «La politica ha scaricato le responsabilità sulla scienza», come se questa fosse un tutt’uno granitico e coerente anziché un metodo di scoperta della verità attraverso tentativi ed errori. In Italia infatti «la cultura scientifica è poco diffusa»; vale a dire che non si conosce il metodo scientifico, non si sa che cosa sia, e quindi si tende a pensare che se qualcuno, soprattutto, per esempio, un politico o un giornalista, dice ‘la scienza ha detto che’, allora quella debba essere, istantaneamente, verità assoluta e risolutiva. Con tali errate convinzioni, che provengono da una deficitaria conoscenza di come procede la scienza, è poi un attimo stupirsi e indignarsi se scienziati diversi sostengono tesi diverse. In altre parole: non pretendiamo certezze immediate, universali e permanenti, su fenomeni nuovi e ancora tutti da comprendere quali Covid-19, da una scienza che peraltro si esprime con approssimazione statistica; sicché la tanto agognata e rassicurante ‘verità’, bisogna sforzarsi di trarla proprio dalla parzialità di quel grado di approssimazione, accettando l’esistenza della percentuale restante che sfugge alla regola, senza per questo vederci contraddizione, il motivo per dubitare e magari per respingerne la validità.


Invasione di campo

A sua volta la scienza, con alcuni suoi esponenti, ha comunicato attraverso i mezzi d’informazione prendendo posizione sulle decisioni pubbliche della politica. Bene (anzi male), tutto questo ha generato un «segnale sporco, ambiguo», che ha prodotto sfiducia nei cittadini, negli utenti, specialmente in assenza o carenza di filtri, degli strumenti di comprensione e accettazione della talora colpevole complessità della nostra epoca.
Un esperimento del maggio 2020, su 1.131 cittadini lombardi, aveva verificato il grado di adesione ad un eventuale nuovo inasprimento delle misure restrittive (proponendo addirittura uno stile quasi cinese), chiedendo inoltre di rinunciare al compenso economico per il test, devolvendolo ad un ospedale in prima linea sul fronte dell’emergenza sanitaria. Quando ai cittadini era stato detto che le restrizioni provenivano dagli scienziati, il grado di consenso era stato massimo; quando era toccato ai politici il risultato si era configurato come irrilevante; ma quando era stato comunicato che le limitazioni dipendevano da scienziati e politici insieme, l’approvazione era crollata, e il rifiuto all’inasprimento delle norme di contenimento e alla rinuncia monetaria si era rivelato totale. Ecco, una piccola dimostrazione di come la percezione dell’ambiguità tra i ruoli dei decisori sia determinante.
Ma scienziati e politici non sono stati gli unici responsabili involontari dell’invio di segnali sporchi alla popolazione: pure media e giornalisti hanno talvolta contribuito a confondere le idee.

Segnali e competenze

Il professor Squazzoni parla di iperconduttività, ovvero una velocissima trasmissione d’informazioni tra diversi sistemi che, in mancanza di confini, come il giornale di una volta, unico mezzo per informarsi, e che dunque in qualche modo tutelava il nostro accesso al sapere quotidiano, produce ridondanza e di conseguenza segnale ambiguo. «Questi confini tra sistemi oggi non esistono più, provocando il ‘rumore’» al quale siamo stati sottoposti durante l’evento pandemico. Per il sociologo questo trasferimento rapidissimo di segnali andrebbe necessariamente rivisto, fortificando i confini. «Quando una struttura non funziona, bisogna scomporla e studiare le singole componenti per capire come si interfacciano tra di loro, allo scopo di ridurre l’interdipendenza tra i vari sistemi».
A tutto questo si aggiunge la «scarsa propensione del giornalismo ad investire in competenze», come dimostra la «debolezza del giornalismo scientifico italiano», quando invece proprio un giornalista preparato sarebbe stata l’interfaccia fondamentale tra cittadini e, per esempio, comunità scientifica, che spesso non è capace di comunicare, perché non è il suo mestiere, e rischia d’invadere sfere di competenza altrui. Non solo. Secondo il docente la scienza commette un altro errore rilevante; pensa cioè di detenere l’unico modo di essere razionali.

La ragione intuitiva

Lo scienziato, infatti, si esprime con «razionalità probabilistica in termini di popolazione»; il rischio sulla vaccinazione a cui si allude è inteso come pericolo statistico globale. E qui si è creato un ostacolo di comprensione, perché «il singolo individuo pensa a sé stesso, non ragiona in termini di popolazione, ma di traiettoria individuale della propria vita. La mente umana — ricorda Squazzoni — è un sistema duale formato sì da procedimenti logici, legati al calcolo ragionato, ma anche intuitivi, rapidi, diretti, senza approfondire, evitando i costi d’informazione».
Uno studio trentino del 2021 ha dimostrato che i soggetti più inclini al procedimento intuitivo tendono di più a non vaccinarsi, perché evidentemente non considerano la propria decisione in termini di calcolo del rischio nell’accezione attribuita dalla scienza (rischio popolazionale), fidandosi maggiormente del proprio intuito. E questo è solo «un altro modo di essere razionali, con una forte componente emotiva; non possiamo quindi sostenere che i no vax siano tutti irrazionali». Ciò naturalmente non significa che sia giusto o consigliabile rifiutare il vaccino, ma solo che non tutte le argomentazioni possono essere efficaci per tutte le menti. «Pure tra coloro i quali decidono di vaccinarsi, non tutti usano la logica, ma talora l’intuito; e perfino tra gli studenti universitari di statistica sono emerse resistenze» sull’opportunità di aderire alla campagna.

Sono incerto. Allora (af)fidati

Ora, questa difficoltà a trasferire il concetto del calcolo probabilistico sul rischio di popolazione al singolo individuo ha creato un effetto pericoloso: «l’incertezza». L’incertezza «non può essere trattata razionalmente», ma si risolve unicamente con un altro sentimento fondamentale: «la fiducia». La fiducia va riposta nella fonte. E qui andiamo male, perché la fiducia nella politica latita, e la scienza, come detto, è considerata erroneamente quel monolite infallibile che delude le aspettative, quando invece erano le premesse ad essere sbagliate, cioè le condizioni di partenza, il bagaglio di sapere che si pensava di avere sul mestiere dello scienziato, dal quale si sono pretese fin da subito risposte celeri, esatte, senza eccezioni; ma non funziona così. La fiducia è poi ulteriormente minata dalle tesi del complotto sulle Big Pharma che circolano da mezzo secolo. «Negli anni settanta — commenta l’accademico — molti colleghi diffusero teorie cospirazioniste; oggi quei colleghi difendono a spada tratta l’operato delle case farmaceutiche, mentre quelle tesi rimangono ben radicate nel Paese».

Conclusioni: l’anziano e la cassiera

L’insieme di questi fattori ha provocato i problemi che abbiamo vissuto e che in parte stiamo ancora vivendo.
Politica, scienza e giornalismo giunsero totalmente impreparati ad un avvenimento imprevisto e globale di tali dimensioni.
«Tutti devono prendersi le proprie responsabilità — conclude Squazzoni — Anche la scienza deve fare autocritica ed essere più umile, magari provando a collaborare con la sociologia». Le chiusure, per esempio, si sarebbero forse potute evitare se virologi e sociologi avessero lavorato fianco a fianco, perché i primi hanno optato per il «lockdown calcolando che tutti abbiano gli stessi contatti e dunque la stessa possibilità di contagiarsi», ma non è così: «l’anziano e la cassiera del supermercato non hanno le medesime relazioni. Il lockdown funzionava durante le pestilenze dei secoli scorsi, ma forse non è l’unico sistema possibile oggi. La disonestà intellettuale è che non avremo mai la controprova, ed è un peccato stridente, in quanto la scienza per sua natura è controfattuale». Sapevamo insomma che chiuderci tutti a casa avrebbe avuto successo, ma avevamo il dovere di valutare eventuali procedure più moderne e aggiornate, grazie ad una collaborazione interdisciplinare che purtroppo è mancata: una lacuna che ha provocato «la tendenza a ridurre la complessità delle decisioni» nel contesto di società estremamente articolate.
Per affrontare le pandemie del futuro gli scienziati dovrebbero quindi sforzarsi di pensare alla complessità, in modo da consigliare la politica tenendo presente le differenze sociali del nostro tempo, con l’auspicio d’iniziare a correggere il tiro partendo dalla luce di speranza che si scorge sulla linea di un orizzonte non molto lontano.

 

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