I tamburi di Marte 

In controtendenza, questo mese (febbraio 2022) un grottesco tragicomico racconto fantascientifico, che in realtà è un capitolo del romanzo Le Sirene di Titano (1959) dello scrittore statunitense Kurt Vonnegut Jr. (1922 – 2007) (nella traduzione italiana di Roberta Rambelli e T. Bordi, 1981 Editrice Nord). Nonostante la sua età, il racconto è sempre attuale e può essere variamente interpretato, a piacere, dal lettore. Lo abbiamo scelto in omaggio al progetto dell’imprenditore (sudafricano con cittadinanza canadese naturalizzato statunitense) Elon Musk (nato nel 1971) di costruire ad ogni costo una città di un milione di abitanti su Marte (governata democraticamente) nei prossimi decenni, usando i suoi razzi riutilizzabili e partendo con un primo sbarco nel 2026. Il progetto di Musk sorvola alla grande su alcune difficoltà inerenti il pianeta Marte e l’anima umana; il racconto di Vonnegut invece è molto più realistico. In ogni caso: il romanzo non è ambientato solo su Marte, non è proprio di fantascienza, ed è una lettura indispensabile (come gli altri dello stesso autore).

Arnold Schwarzenegger ha problemi di respirazione su Marte (in Total Recall, Atto di Forza 1990)

Gli uomini avevano marciato fino alla piazza d’armi al suono d’un tamburo. Il tamburo aveva questo da dire loro: 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda; 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda. 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una ten, prendi una tenda! 

Era una divisione di fanteria composta di diecimila uomini, disposti in un quadrato cavo, su una piazza d’armi naturale, fatta di ferro massiccio e spessa un miglio. I soldati stavano sull’attenti sopra la ruggine arancione. Fremevano, rigidi, sebbene fossero simili al ferro quanto era possibile esserlo… ufficiali e soldati. Le loro uniformi erano d’un tessuto rozzo, verde, gelido: il colore dei licheni. 
L’esercito era scattato sull’attenti in un silenzio assoluto. Non era stato impartito alcun segnale udibile o visibile. Erano scattati tutti sull’attenti come un sol uomo, come per una sorprendente coincidenza. 
Il terzo uomo della seconda squadra del primo plotone della seconda compagnia del terzo battaglione del secondo reggimento della prima divisione di fanteria d’assalto marziana era un soldato semplice che era stato degradato da tenente colonnello tre anni prima. Era su Marte da otto anni. 
Quando in un esercito moderno qualcuno viene degradato da ufficiale a soldato semplice, è probabile che sarà molto vecchio, come soldato, e i suoi compagni d’armi, una volta abituatisi al fatto che non è più un ufficiale, lo chiameranno, per rispetto alle sue gambe, ai suoi occhi e al suo fiato indeboliti, qualcosa come Pop, Paparino, o Gramps, Nonnino, o Unk, Zietto
Il terzo uomo della seconda squadra del primo plotone della seconda compagnia dei terzo battaglione del secondo reggimento della prima divisione di fanteria d’assalto marziana era chiamato Unk. Unk aveva quarant’anni. Unk era un uomo ben fatto… un po’ più pesante del dovuto, scuro di pelle, con labbra da poeta, e dolci occhi castani nelle orbite ombrate da una fronte di Cro-Magnon. L’incipiente calvizie aveva isolato un drammatico ciuffo di capelli. 
Un aneddoto illustrativo su Unk: 
Una volta, mentre il plotone di Unk stava facendo la doccia, Henry Brackman, sergente del plotone di Unk, chiese a un sergente di un altro reggimento di scegliere il miglior soldato del plotone. Il sergente in visita, senza alcuna esitazione, scelse Unk, perché Unk era un uomo solido, muscoloso e intelligente in mezzo a quei ragazzi. 
Brackman roteò gli occhi. 
— Gesù… davvero? — disse. — È il fesso del plotone. 
— Mi prendi in giro? — ribatté il sergente in visita. 
— Diavolo, no, non ti prendo in giro — disse Brackman. — Guardalo: è lì fermo da dieci minuti, e non ha ancora toccato un pezzo di sapone. Unk! Svegliati, Unk! 
Unk rabbrividì, e smise di sognare sotto la pioggerella tiepida della doccia. Guardò con aria interrogativa Brackman, triste e volonteroso. 
— Usa un po’ di sapone, Unk — l’esortò Brackman. — Per amor di Dio, usa un po’ di sapone! 
Ora, sulla ferrea piazza d’armi, Unk stava sull’attenti, nel quadrato cavo, come tutti gli altri. 
In mezzo al quadrato cavo c’era un pilastro di pietra cui erano infissi anelli di ferro. Dentro gli anelli erano state fatte passare tintinnanti catene di ferro… erano state strette attorno a un soldato dai capelli rossi ritto contro il pilastro. Il soldato era un soldato molto lindo… ma non era un soldato in ordine, poiché tutte le mostrine e le decorazioni gli erano state strappate dall’uniforme, e non aveva né la cintura, né la cravatta, né le mollettiere bianche come la neve. 
Tutti gli altri, compreso Unk, erano azzimati. Tutti gli altri avevano un bell’aspetto. 
Qualcosa di doloroso stava per accadere all’uomo legato al palo… qualcosa cui l’uomo avrebbe desiderato moltissimo sfuggire, qualcosa cui non sarebbe sfuggito, per via delle catene. 
E tutti i soldati avrebbero assistito. 
Era stata data grande importanza all’avvenimento. 
Persino l’uomo incatenato era sull’attenti, per essere il miglior soldato che sapeva essere, in quelle circostanze. Di nuovo… nessun ordine visibile o udibile fu impartito, ma i diecimila soldati eseguirono il movimento di riposo da parata come un sol uomo. 
E così fece anche l’uomo incatenato. 
Poi i soldati si rilassarono, come se avessero ricevuto l’ordine del riposo normale. Di fronte a quest’ordine avevano l’obbligo di rilassarsi, ma di tenere i piedi a posto e di rimanere in silenzio. I soldati erano liberi di pensare un poco, adesso, e di guardarsi intorno e di mandare messaggi con gli occhi, se avevano messaggi da mandare e se trovavano chi li ricevesse. 
L’uomo incatenato tirò le catene e girò il collo per valutare l’altezza del pilastro cui era incatenato. Era come se pensasse di poter fuggire servendosi di un metodo scientifico, se solo fosse riuscito a scoprire quanto era alto il pilastro e di che cosa era fatto. 
Il pilastro era alto cinque metri, ottanta centimetri e quattro millimetri, senza contare i quattro metri, dieci centimetri e due millimetri piantati nel ferro. Il pilastro aveva un diametro medio di settantaquattro centimetri e tre millimetri, variando da questa media, tuttavia, fino a diciassette centimetri e otto millimetri. Il pilastro era composto di quarzo, alcali, feldspato, mica e tracce di tormalina e di orneblenda. Per informazione dell’uomo incatenato: era a duecento milioni, trecento quarantaseimila novecento undici chilometri dal Sole, e nessuno stava arrivando in suo aiuto. 
L’uomo dai capelli rossi incatenato al pilastro non faceva rumore, perché i soldati nella posizione di riposo non erano autorizzati a fare rumore. Mandò un messaggio con gli occhi, tuttavia, mentre avrebbe voluto gridare. Mandò il messaggio a chiunque i cui occhi incontrassero i suoi. Sperava di far pervenire il messaggio a una persona in particolare, al suo migliore amico… ad Unk. Stava cercando Unk. 
Non riuscì a trovare il viso di Unk. 
Se anche avesse trovato il viso di Unk, non vi sarebbe stata alcuna fioritura di riconoscimento e di pietà sul viso di Unk. Unk era appena uscito dall’ospedale della base, dove l’avevano curato per malattia mentale, e la mente di Unk era quasi vuota. Unk non riconosceva il suo migliore amico incatenato ai pilastro. Unk non riconosceva nessuno. Unk non avrebbe saputo neppure di chiamarsi Unk, non avrebbe neppure saputo di essere un soldato, se non gliel’avessero detto quando l’avevano dimesso dall’ospedale. Era venuto dall’ospedale direttamente alla formazione in cui si trovava ora. 
All’ospedale avevano continuato e continuato e continuato a dirgli che lui era il miglior soldato della migliore squadra del miglior plotone della migliore compagnia del miglior battaglione del miglior reggimento della migliore divisione del miglior esercito. Unk indovinava che era qualcosa di cui doveva essere orgoglioso. 
All’ospedale gli avevano detto che era stato molto malato, ma adesso era completamente guarito. Questa sembrava una buona notizia. 
All’ospedale gli avevano detto come si chiamava il suo sergente, e che cosa era un sergente, e che cosa erano tutti i simboli e i gradi e le specialità. 
Avevano cancellato così bene i suoi ricordi che avevano dovuto insegnargli da capo perfino i movimenti dei piedi e il maneggio delle armi. 
All’ospedale avevano dovuto spiegare a Unk che cosa erano le Razioni Respiratorie di Combattimento o RRC o pillole-per-scemi: avevano dovuto dirgli di prenderne una ogni sei ore per non soffocare. Erano pillole d’ossigeno che rimediavano al fatto che nell’atmosfera marziana non c’era ossigeno. All’ospedale avevano dovuto persino spiegare a Unk che aveva un’antenna radio sotto la volta del cranio, e che gli avrebbe fatto male ogni volta che lui avesse fatto qualcosa che un buon soldato non deve mai fare. L’antenna gli avrebbe anche dato gli ordini e avrebbe fornito il rullo di tamburi per marciare. Avevano detto che non solo Unk ma anche tutti gli altri avevano un’antenna come quella… compresi i medici e le infermiere e i generali con quattro stelle. Era un esercito molto democratico, avevano detto.
Unk immaginò che fosse una bella cosa, per un esercito, essere così. 
All’ospedale avevano dato a Unk un piccolo esempio dei dolore che la sua antenna gli avrebbe inflitto se avesse fatto qualcosa di sbagliato. 
Il dolore era orribile. Unk era obbligato ad ammettere che un soldato sarebbe stato pazzo se non avesse sempre fatto il suo dovere. 
All’ospedale avevano detto che la legge più importante dì tutte era questa: obbedire sempre ad un ordine diretto senza un attimo d’esitazione. 
Mentre se ne stava in formazione sulla ferrea piazza d’armi, Unk si rese conto che aveva molte cose da imparare di nuovo. All’ospedale non gli avevano insegnato tutto quello che c’era da sapere sulla vita.
L’antenna che aveva nella testa lo riportò sull’attenti e la sua mente si vuotò. Poi l’antenna rimise Unk nella posizione di riposo, poi di nuovo sull’attenti, poi lo costrinse a fare il presentatarm, poi lo mise di nuovo in posizione di riposo. 
Ricominciò a pensare. Colse un’altra occhiata del mondo che lo circondava. 
La vita era così, si disse. Unk a titolo sperimentale: vuoti e occhiate, e ogni tanto, magari, quello spaventoso lampo di dolore per aver fatto qualcosa di sbagliato. 
Una piccola luna che volava bassa e veloce veleggiò nel cielo viola, lassù. Unk non sapeva perché pensasse così, ma pensava che la luna si muovesse troppo rapidamente. Non gli sembrava giusto. E il cielo, pensò, avrebbe dovuto essere azzurro invece che viola. 
Unk aveva freddo, inoltre, e desiderava più calore. Il freddo interminabile sembrava sbagliato ed ingiusto, in un certo senso, come la luna troppo rapida e il cielo viola. 
Il comandante della divisione di Unk stava parlando ora con il comandante del reggimento di Unk. Il comandante
del reggimento di Unk parlò al comandante del battaglione di Unk. Il comandante del battaglione di Unk parlò al comandante della compagnia di Unk. Il comandante della compagnia di Unk parlò al capo del plotone di Unk, che era il sergente Brackman. Brackman si avvicinò ad Unk e gli ordinò di marciare verso l’uomo incatenato a passo militare e di strangolarlo fino ad ucciderlo. 
Brackman disse a Unk che era un ordine diretto. 
Quindi Unk obbedì. 
Marciò verso l’uomo incatenato. Marciò al ritmo della musica secca e metallica di un tamburo. Il suono del tamburo era nella sua testa, e usciva dalla sua antenna: 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda; 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda, 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una ten, prendi una tenda! 

Quando Unk raggiunse l’uomo incatenato, esitò per un secondo… perché l’uomo dai capelli rossi incatenato al pilastro sembrava così infelice. Poi vi fu un piccolo dolore ammonitore nella testa di Unk, come la prima puntura in profondità del trapano di un dentista. 
Unk posò i pollici sulla trachea dell’uomo dai capelli rossi, e il dolore cessò immediatamente. Unk non premette i pollici, perché l’uomo stava cercando di dirgli qualcosa. Unk era stupito del silenzio dell’uomo… poi si rese conto che l’antenna di quell’uomo doveva imporgli il silenzio, così come le antenne imponevano il silenzio a tutti gli altri soldati. 
Eroicamente, l’uomo incatenato sopraffece la volontà della sua antenna e parlò rapidamente, rabbrividendo. — Unk… Unk… Unk… — disse, e gli spasimi provocati dalla lotta tra la sua volontà e la volontà dell’antenna gli fecero ripetere quel nome, stupidamente. — Pietra azzurra, Unk — disse. — Caserma dodici… lettera. La sofferenza ammonitrice si fece sentire di nuovo, tormentosa, nella testa di Unk. Con diligenza, Unk strangolò l’uomo incatenato… lo soffocò fino a che il viso dell’uomo divenne purpureo e la lingua penzolò. 
Unk indietreggiò, si mise sull’attenti, fece un perfetto dietrofront e ritornò al suo posto nei ranghi… accompagnato di nuovo dal tamburo che gli suonava nella testa: 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda; 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda. 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una ten, prendi una tenda!
 
Il sergente Brackman fece un cenno del capo verso Unk, e gli strizzò l’occhio con affetto. 
I diecimila si misero di nuovo sull’attenti. 
Orribilmente, il morto incatenato al pilastro si sforzò di mettersi a sua volta sull’attenti, facendo tintinnare le catene. Non riuscì — non riuscì ad essere un perfetto soldato — non perché non lo volesse ma perché era morto. 
La grande formazione si ruppe nelle sue componenti rettangolari, che si allontanarono marciando stolidamente; ogni uomo udiva un tamburo nella propria testa. Un osservatore non avrebbe udito nulla, tranne la cadenza degli stivali. 
Un osservatore non avrebbe capito chi era veramente il comandante, poiché persino i generali si muovevano come marionette, tenendo il tempo delle parole idiote: 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda; 
    Prendi una tenda, una tenda, una tenda. 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una tenda! 
    Prendi una ten, prendi una tenda! 


I tamburi di Marte