Barba ci cova (I)
Vuolsi così scrivere dell’arredo pilifero facciale
Tra barbicultori, ovverossia i pensatori di barba, e barbicoltori, invero coltivatori di barbe proprie improprie e altrui, un viaggio negli ultimi cinquant’anni e oltre di onor del mento, su su per lo stivale italico e al di là dei patri confini.
Argomento di un libro che ho deciso di scrivere intitolato «Barba ci cova», sarà la barba considerata arredo pilifero facciale, comunque risulti modellata e variamente portata in ogni tempo e in ogni luogo, sia abitato sia disabitato, ornamento di facce diversamente covatrici e anagrafate. Compresa la barba sul volto di Daniel Craig inteprete nel 2012 del 23° James Bond. La barba sul volto dei tesorieri di partiti politici in dimestichezza con l’appropriazione indebita personale di milionate in euro pubblici ricevuti a titolo di rimborso spese elettorali. E la barba sulla faccia di Umberto Eco (nato nel 1932): faccia totalmente sbarbata nel tempo in cui è risultata porzione di una testa a forma di zucca halloweenmorfosata prima dei genetliaci antaizzati, faccia totalmente barbuta durante gli anni del successo editoriale internazionale anche come autore di romanzi, faccia soltanto baffuta durante la terza età. Alla domanda: Perché si è tagliata la barba? Il celebre scrittore ha risposto recentemente (3 gennaio 2012, la Repubblica), qualche giorno prima del suo 80° compleanno: L’ho tolta nel 1990, quando andai alle isole Fiji per scrivere «L’isola del giorno dopo». Volevo vedere i coralli marini e la barba non mi permetteva di tenere aderente al viso la maschera. Poi me la sono fatta ricrescere per colpa di Moravia. Durante la sua commemorazione tutti i fotografi m’inseguivano per farmi le foto senza barba. E allora l’ho fatta ricrescere. Adesso me la sono tolta nuovamente, perchè ho la barba tutta bianca e i baffi neri e nelle foto sembravo Gengis Kahn incazzato.
Non scriverò dei barboni anziani senza fissa dimora, portatori di barbe che covano disagi esistenziali irreversibili e imbarazzanti.
Per quanto mi riguarda, ho cominciato a scrivere della barba nell’autunno 1961, incaricato dal direttore del «Giornale di Lecco» d’intervistare brevemente alcuni barbicultori cittadini lecchesi, oppure provvisoriamente in soggiorno a Lecco. I primi due li avvicinai ch’erano seduti a due tavoli diversi di un bar della Piazza Garibaldi. Il pittore/scultore Aimone Modonesi (1916-1976), cittadino lecchese di origine ferrarese, e lo scrittore islandese Thor Vilhjalmsson (1925-2011) in soggiorno turistico.
Predisponendomi ad appuntare sul taccuino ciò che avrebbero detto e che avrei poi riassunto scrivendo il testo che mi era stato commissionato, li approcciai con questa domanda multipla: Quando ha cominciato a coltivare la barba? Perchè? Arredamento facciale, vezzo, ambizione o snob? L’ha mai tagliata la taglierà?
Thor Vilhjalmsson mi disse di essersi dedicato alla barbicultura per ribellione al conformismo morale e intellettuale dei popoli di ogni paese. Di aver cominciato a lasciarsi crescere la barba a Roma nel 1948, familiarizzando subito e facilmente col suo nuovo volto, a prescindere dai commenti canzonatori dei suoi conoscenti italiani. Tanto che se n’era tornato in patria col volto barbuto deciso a non modificarlo, poiché lo aveva considerato segno distintivo del suo anticonformismo da ostentare con disinvoltura vita natural durante. Mi disse che non l’avrebbe tagliata poiché aveva intenzione di continuare a portarla sul volto fino alla fine dei suoi giorni (detto e fatto!) come un abito sul corpo, per non denudarsi il volto in obbedienza allo stesso pudore che lo inibiva (come ognuno di noi) a portarsi a spasso nudi gli inquilini dei propri pantaloni.
Aimone Modonesi mi parlò tanto a lungo della sua barba che, trascrivendo i miei appunti, per il «Giornale di Lecco», lo feci monologare come qui di seguito.
È nata con me la mia barba. Il motivo devo cercarlo nel tempo lontano della noia: quando, meno antico, consideravo la terra un disco e dell’universo conoscevo una sola dimensione, quella verticale. Dovevo decidere e scegliere la maschera da portare, ascoltando le voci interne che, sollecitate da stimoli e motivi psicologici ed estetici, suggerivano l’ornamento facciale. Vuoi con piccoli paesaggi, con vele sull’acqua (Lecco e lacuale), vette che svettano, cupi riverberi, luci e ombre, chiaro-scuro, lampadari, case che crollano, draghi, cercopitechi di prima e seconda mano, autoblinde, visioni ancestrali, evocazioni, estasi, composizione di solidi, gelati, crateri fumanti, ti vedo non ti vedo, vita e morte, molti scarafaggi sulla faccia destra e un isolato incubo sulla sinistra… ecc. Possedevo, già piccolo poco antico, un corpo-mente, il cui compito era quello di viaggiare e di commettere azioni pure. Sballottato da un’accozzaglia di arrivati prima, volevo soltanto arrivare buon ultimo: solo fidando sulla mia generosa calma e il velo della barba. Rabbonito da una soluzione non moderna, ma pressoché consolatrice di vitali esigenze, a così buon costo, mi disposi, con barba, ad affrontare conseguenze isolate e in gruppo, con risultati (risatina) invero scadentucci. Ne nacque un gioco inaspettato e complesso. Come difendermi dalla risatine indisponenti delle femmine? Mi fu facile. Bastava guardar loro la linea delle gambe con sguardo obliquo e subito si sentivano fuori posto. Per gli uomini i bicipiti. Ma la cosa non andava sempre liscia. L’ho tagliata una sola volta perché a dirmi che «facevo schifo», fu l’uomo che più di ogni altro consideravo (e considero) irrimediabilmente cretino. Ma, già il giorno dopo, cominciai a ricoltivarmela: perchè la faccia pelata mi disgustava (mi disgusta), perché la faccia rasata mi ricordava (mi ricorda) certe rotondità (?) per ragioni estetiche o di moda o di barba. Le risposte alle domande postemi sono infinite. Non me la taglio se no mi taglio. Padre Mariano perché porta la barba? La barba per chi la porta, la barba per chi la vede: sembra poco? La barba da lusso, la barba igienica, la barba che fa dire «A che facia chel gà», oppure «A chi cà le che cà chi jen» (Guarda quelle case che case sono). E adesso che non ho detto perché porto la barba da quando sono nato, perché senza mi mancava la foglia, adesso dico, e dico, dico non così per dire: È discreto fare simili domande a chi ha bisogno di crearsi un’atmosfera con o senza barbera?
Altri cittadini lecchesi mi dissero ciò che pubblicai nel «Giornale di Lecco» il 6 novembre 1961, e che trascrivo fedelmente qui di seguito cinquant’anni dopo.
Luigi Colombo (ex sindaco di Lecco), ideatore dei Congressi Manzoniani – «Mio padre, oltre a una ricca biblioteca, mi lasciò in eredità anche la sua barba. Una eredità morale che non mi fu imposta, ma accettai per il desidero che avevo di somigliargli almeno nell’aspetto esteriore, incerto com’ero e come sono sulla possibilità di riuscire un giorno a somigliargli anche nello spirito». Mi disse che non l’avrebbe tagliata per non privare il figlio di un privilegio e di un blasone che vantava nelle dispute con alcuni suoi coetanei. «Mio padre ha tre automobili». «Mio padre ha una fabbrica in cui lavorano mille operai». «Mio padre ha una villa in Svizzera». «Mio padre ha molti milioni». «Mio padre ha la barba!».
Ugo Merlini, commercialista, sottotenente degli alpini in Russia nel 1942 – Mi disse d’aver deciso di coltivarsi la barba per far assumere al suo viso un aspetto meno giovane e un cipiglio più autorevole nei rapporti con i sottoposti di età superiore alla sua. Finita la guerra aveva continuato a coltivarla considerandola un amuleto, malgrado una certa derisone da parte della parentela e di alcuni concittadini. «Ha mai curato la sua barba per darle una forma particolare?», gli chiesi. «Non ho mai avuto molta cura per la mia barba. L’ho lasciata crescere a capra, così come veniva spontanea. Solo appena ho notato i primi peli bianchi ho cominciato a modellarla e ridurla, per non sembrare vecchio anzitempo». «Come giudica i giovani dediti alla barbicultura?», gli chiesi. «Non li giudico male, se coltivano la barba, anche su un viso poco serio, con parvenze di serietà. Non alla nazzarena, per esempio. Occorre fare intendere ai giovani barbicultori che la barba non deve essere coltivata per esibire narcisismo e suscitare attenzioni».
Giacomo Wilhelm, ingegnere – Mi disse di aver deciso di coltivare la barba, già quarantenne, per una ragione pratica di funzionalità. Per evitarsi, cioè, il male fastidioso che gli procurava la rasatura del mento. Durante il periodo della prima crescita viaggiò continuamente per motivi professionali, trascorrendo il suo tempo libero in compagnia di persone sconosciute (o quasi) a Milano: gli fu facile, così, abituarsi al suo nuovo volto che riscosse gli unanimi consensi della famiglia. Se la modellò durante i primi quattro anni senza l’ausilio di un barbiere, poi la tagliò. Ma, appena tornato a casa col volto rasato, non fu riconosciuto dal figlioletto Carlo che gli negò il bacio di prammatica dicendogli: «Vattene, tu non sei il mio papà, il mio papà ha la barba». L’accaduto lo obbligò a ricoltivarla per farsi riconoscere dal figlio. In seguito non l’ha più tagliata per affezione. Alla domanda se pensava di liberarsene un giorno o l’altro, rispose che non l’avrebbe tagliata per la venerazione cui l’aveva assoggettata il figlio Carlo divenuto nel frattempo un affermato architetto.
Leopoldo Rigoli, avvocato e letterato – Giovane studente, una febbre altissima e persistente l’obbligò a trascorrere più e più giorni di seguito immobile in un letto, impedendogli di radersi. «Hai la barba lunga, ma ti sta bene. Coltivala», gli disse una parente in visita di circostanza. Decise, perciò, di continuare a non radersi fino a che non sarebbe guarito. Appena convalescente esaminò il suo volto barbuto specchiandosi e decise di portare tra le gente la sua barba per vedere che effetto che avrebbe fatto: giudicando opportuno modellarla, però, in modo tale da esibire un pizzo somigliante al pizzo di Marcello della Bohème. Appena fuori casa, incontrò un gruppo di militari, uno dei quali lo indicò ai commilitoni dicendo: «Quello lì è un poeta». Svoltato il primo angolo fu abbordato da uno sconosciuto barbicultore che gli tese la mano dicendo: «Sa, sono stato pittore anch’io!». Estrasse dalla tasca una moneta da due lire e la pose sulla mano tesa. «Mi accorsi, presto, che in un uomo d’aspetto giovanile la barba coltivata produce lo stesso effetto delle tempie argentate», mi disse. Il giorno in cui si rese conto che la barba coltivata fornisce a chi la porta la possibilità di testare i propri interlocutori costringendoli a reagire con approvazioni, oppure disapprovazioni, prorogò di giorno in giorno la sua rasatura tanto a lungo da far trascorrere gli anni senza tagliarla.
Pasquale Bernabeo, ottantaduenne ospite dell’Istituto per anziani Airoldi e Muzzi a Germanedo di Lecco – Perseguitato e ridotto in miseria dal regime fascista, nel 1926 aveva deciso di lasciarsi crescere la barba per economizzare il costo del barbiere. Agli amici aveva detto: «La taglierò dopo che sarà finito il fascismo». Ma non aveva mantenuto la promessa. Alla mia domanda: «Perché hai continuato a lasciarla crescere, senza tagliarla?». Mi rispose: «Per far parlare i fessi». Lo incontrai nella sua cameretta all’Airoldi e Muzzi, nella quale trascorreva ogni giorno come fosse l’ultimo, sperando tuttavia nel giorno dopo, in compagnia di un cane sedicenne nomato Sutter.
Ha la data dello stesso mese, stesso anno, un elzeviro «barbiculturario» di Dino Buzzati pubblicato dal Corriere della Sera.
«Barba ci cova», perciò, è il titolo più esaustivo per il libro che ho deciso di scrivere. Poiché la barba portata come arredo pilifero facciale, anche nei casi in cui rimodella menti malformate, ha «covato» e continua a «covare» motivazioni confessabili e inconfessabili, esibite o dissimulate, gravata da un carico estetico e simbolico diversamente pesante per ogni barbicultore.
L’attore spagnolo Fernando Rey (1917-1994, anagrafato Fernando Casado D’Arambillet), che ho frequentemente incontrato nel ruolo di Augusto Murri a Bologna nel 1974 durante le riprese del film «Fatti di gente per bene» di Mauro Bolognini, alla domanda «Perché porti la barba?», mi ha risposto «Perché non ho mento».
Sia considerata equivalente a una prima pietra posata per dare inizio ai lavori di scrittura libresca, quindi, la breve premessa autorale che segue, redatta nel ruolo estemporaneo di ghostwriter postumo di un fantasmatico scrittore settecentesco editato fino ai primi anni dell’Ottocento. Avrà per seguito tant’altro da leggere.
BREVE PREMESSA AUTORALE
La barba vuolsi ora da noi primieramente riguardare in grande, cioè quando fosse portata e coltivata in ricca ampiezza, o in ricercata forma dai popoli in generale, e da certe classi di personaggi. In quell’aspetto potea giustamente nomarsi onor del mento, siccome disonore può dirsi e bruttura, quando trascurata o mal rasa annunzia sudiciume o squallore. Il capriccio pittoresco, lo spirito dei tempi le han dato talora delle forme curiose, ma questi accidenti non entrano nella interessante storia, di cui ora, dopo molte faticosissime lucubrazioni, vogliam pure offrire un cenno al pacifico e riposato lettore.
Argomento gli è questo, che a darne soltanto un saggio, so ben io, quanta e quale si richiederebbe vastissima erudizione, e come vi si ascondan per entro politica, morale e filosofia. In fatti dovrebbe trattarsi e dividersi in tre diversi aspetti: il primo, storico-antiquario, il secondo, fisico-geografico, e l’ultimo, religioso-politico.
Siccome nelle scienze, così negli usi tutti degli uomini, v’è una concatenazione, che li abbraccia, e li riduce a un generale sistema di rapporti. Dagli usi a grado a grado si passa alle qualità morali, delle quali essi di sovente sono indizi od effetti. Esaminando le diverse foggie del vestire, i gesti, le maniere di moda e di convenzione, non è difficile, né molto fallace il dedurre i caratteri e i modi di pensare.
continua…
Barba ci cova© Per gentile concessione dell’autore — Riproduzione vietata