Barba ci cova - 6

Vuolsi così scrivere — con digressione sapienzale — di Giacomo Casanova giovane abate barbuto e delle barbe risorgimentali

Giunto a questo punto della scrittura, considero giovevole alla lettura dare inizio a questo capitolo con una digressione sapienzale, nel ruolo, già interpretato scrivendo i capitoli precedenti, del ghostscriba al servizio di un fantasmatico studioso barbilogo sette-ottocentesco, prima di scrivere di Giacomo Casanova giovane abate barbuto e delle barbe d’Italia risorgimentali celebrate da (e in) una esposizione anniversaria organizzata ad hoc.

Scorsa dal lettore già scritta da noi succitamente in altri capitoli le serie dei tempi primevi, e illustrata la faccia del globo, riguardo al portare o nò la barba, il che vuol dire l’aspetto storico-geografico di questo importantissimo articolo d’erudizione, passiam’ora a considerarlo per un momento, come soggetto di riflessioni varie. Non può negarsi, che questa locale escrescenza di peli, detta barba, sia stata tenuta altre volte in altissima considerazione, e che l’abbia poi perduta. I greci, poi, particolarmente, in vece di chiedere, d’insistere, di supplicare «Per que’ vezzosi rai», oppure «Per quel paterno amplesso», avran detto «Per quella folta barba», oppure «Per que’ tuoi bei mustacchi», mentre, come vediamo nell’Ecuba di Euripide, quelle cose erano da lor riguardate, come oggetto di scongiuro per ottenere favori. Ma quanto a religiosa venerazione, è curioso ciò che ci racconta Svida d’una Venere barbuta, adorata dai romani. Convengono gli antiquari in quella strana divinità, ma diversamente la interpretano, e parmi con forzate allegorie. Svida ne dà una probabile spiegazione: Le donne, dic’egli, furono all’improvviso attaccate da un male, che potea chiamarsi opera di rasoio. Ricorsero supplici a Venere, perciò, ed ottenuta, al loro credere, dalla propizia deità la restituzion del perduto, aggiunsero al di lei mento la barba, come un ben sensibile monumento a ricordo di questa grazia. Di ben altra venerazione fu onorata la barba, in vece, in quei tempi che il fervor religioso portava i cristiani a moltiplicare e stringere fra loro i legami di spiritual fratellanza. Oltre le stabilite parentele, che si contraggono con tenere a battesimo, e a cresima; oltre quell’altro genere di più leggera affinità, che in alcuni paesi sussiste tra una coppia di sposi, e taluno o taluna che è scelto a pronubo o pronuba, converrebbe aggiungere, se non fosse andata in disuso, la curiosa maniera d’imparentarsi con qualcheduno, toccandogli in solenne modo la barba. Con tal gesto, per articolo convenuto, celebrarono e conservarono, per così dire, la pace Clodoveo re de’ Franchi, e Alarico de’ Goti: L’un d’essi divenne padrino dell’altro, che ne fu il figlioccio. Concorse ben presto al bell’uso non inopportunamente l’ecclesiastica assistenza: si benedisse la prima barba tagliata, e si fecero costituzioni «de radendis barbis».

***

Del giovane Giacomo Casanova (1725 -1797) abate comincio con l’informare il lettore che egli stesso ha scritto del suo arredo pilifero facciale giovanile, nomandolo «lanugine» e «peluria» per significarci, inconsapevolmente, che ha optato per la rasatura totale, presumibilmente giornaliera, restio a risultare (già diciottenne) portatore di una barba poco folta, simile a rada erbetta su terreno reso arido dalla siccità, insufficiente a mascherare la cicciosità delle sue guance destinate a essere raffigurate dal fratello Francesco in un ritratto datato 1750/55 considerato il più somigliante.

Il Casanova ha cominciato a scrivere della sua barba nel primo tomo della «Storia della mia vita». Già nel capitolo secondo, là dove narra di aver assistito durante la sua adolescenza (abate – seminarista – undicenne destinato al sacerdozio) al tentativo di scacciare il maligno dalla possessione di una tredicenne (Bettina), protagonista un frate cappuccino esorcista barbuto patavino (Frate Prospero da Bovolenta) irriso dalla presunta indemoniata, portavoce e alter ego del presunto maligno, nel momento in cui gli dice: «Tu sei vanitoso della tua barba, te la pettini dieci volte al giorno, e non te ne taglieresti la metà per farmi uscire da questo corpo. Tagliala, ed io ti giuro di uscirne»
.
Nel capitolo sesto, narrandosi, poi, ancora seminarista – abate – diciottenne, c’informa della sua statura e del suo rapporto con la peluria facciale: Non mi misero nella camera dei grandi perchè, nonostante la mia statura, non avevo l’età. Avevo del resto la vanità di conservare la mia lanugine, che avevo cara perchè era una prova della mia giovinezza. Era una cosa buffa, ma a che età l’uomo smette di essere vanitoso? È più facile disfarsi dei vizi che della vanità. La tirannia non ha esercitato su di me il suo dominio al punto da indurmi a radermi.

Ri-narrandosi renitente alla rasatura, anche durante un suo breve soggiorno a Loreto, strada facendo diretto a Roma, nel momento in cui ostacola un parrucchiere incaricato di raderlo. E nel capitolo ottavo dove è possibile leggere: Indovinando che non volevo essere sbarbato, s’offrì di aggiustare la mia peluria colla punta delle forbici, la qual cosa, mi disse, mi avrebbe fatto sembrare «ancor più giovane». «Chi le ha detto che cerco di nascondere la mia età?». «È semplice, perchè se monsignore non pensasse a questo, si sarebbe fatto radere da parecchio tempo».

Nel capitolo nono, infine, si narra portatore di barba bisognosa di rasatura perchè suscitatrice di commenti inopportuni: la dove scrive del viaggio Napoli-Roma effettuato in carrozza nel settembre 1743, avendo per compagni un avvocato con moglie e cognata, narrando d’altra rasatura rifiutata durante una sosta a Capua.
«Venne un barbiere che fece la barba all’avvocato e mi offrì, con un tono che non mi piacque, lo stesso servigio. Gli risposi che non avevo bisogno di lui ed egli ribattè che la barba era una sudiceria, dopodichè se ne andò».
Quando fummo in carrozza, l’avvocato mi disse che quasi tutti i barbieri erano insolenti.

«Si tratta di vedere», disse la signora, «se la barba è o no una cosa sudicia».
«Si», le rispose l’avvocato, «perchè è un escremento».
«Può darsi», io dissi, «ma non lo si considera tale. Forse che diciamo escrementi i capelli? Al contrario li curiamo, ne ammiriamo la bellezza e la lunghezza».
«Allora», riprese la signora, «il barbiere è uno stupido».
«Ma poi», le chiesi, «forse che io ho la barba?».
«Avrei detto di si». È la prima volta che mi sento rivolgere questo apppunto
«Allora comincerò a farmi radere a Roma».
Detto e fatto.
«Fu il primo ottobre 1743, che presi finalmente la decisione di farmi fare la barba. La mia peluria era diventata una barba. Ritenni di dover cominciare a rinunciare a certi privilegi dell’adolescenza». (…) L’avvocato mi disse che «facendomi la barba l’avevo sacrificata al mio spirito».

Ignorando che era destinato a narrarsi barbicultore suo malgrado, nel capitolo 13 del tomo quarto, narrando della sua carcerazione nei Piombi (26 luglio 1755 -1 novembre 1756). «Avevo una barba lunga quattro pollici (cm. 10,8, cinque mesi dopo l’arresto), che mi faceva ancora più imponente di quanto mi facesse la mia corporatura (altezza 187 cm.). Lorenzo (il carceriere) mi prestava spesso le forbici per tagliarmi le unghie dei piedi ma avevo la proibizione, pena gravi castighi, di tagliarmi la barba». Narrandosi barbuto simil abate Faria provvidenzialmente sbarbato poche ore prima dell’evasione, da un compagno di cella barbiere provvisto di forbici detenute da altro carcerato in altra cella (capitolo quindicesimo del tomo quarto).

***

Le barbe d’Italia risorgimentali hanno fatto notizia perchè protagoniste di una esposizione progettata e realizzata per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (1961-2011): esemplificate delle barbe dei suoi protagonisti più noti, riprodotte ad hoc da Giuseppe Festino. Star la barba guerrigliera di Garibaldi, quella intellettuale di Mazzini, la barba austroungarica di Francesco Giuseppe, quella sabauda di Cavour. Catia Lattanzi ha tradotto per l’occasione il libro Physiologie et hygiène de la barbe et des moustaches di Eugène Dulac, edito nel 1842, raccontando il modo di portare, curare e «coltivare» la barba nell’Ottocento.

Tale esposizione è stata allestita a Legnano nel Castello Visconteo (14 — 25 settembre 2011), ideata da Giovanna Mazzoni (collaboratore Enrico Ercole), con undici accuratissime riproduzioni delle barbe di altrettanti protagonisti del Risorgimento italiano, realizzate appositamente dal laboratorio Lia Parrucche di Legnano: supportate da riproduzioni dei ritratti più celebri di ogni personaggio uniti a pezzi unici come il ritratto di Vittorio Emanuele II realizzato appositamente per la mostra dal pittore legnanese Albert Flury, quello del generale Alfonso La Marmora realizzato dalla pittrice Anna Pennati e le eleganti grafiche di Salvador Aulestia con il volto barbuto di Giuseppe Verdi. Con l’aggiunta di reperti, testimonianze, giornali dell’epoca, figurini, documenti, passaporti, album di figurine, libri, monete, francobolli e stampe, per documentare quanto la barba sia stata importante contrassegno fisiognomico significante per l’uomo ottocentesco e in quante fogge sia stata modellata.

Successivamente, l’esposizione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia (1961-2011), è stata replicata dal 3 al 16 ottobre a Parabiago nella Villa Corvini e dal 14 al 25 novembre negli spazi dell’Atelier Gluck Arte di Milano.

Per carpire i segreti che si celavano sotto i baffoni a manubrio di Vittorio Emanuele che ispirarono ai pasticceri la forma dei biscotti krumiri e scolorivano la tinta nera sotto la pioggia durante le parate militari; per scoprire che le cosiddette «fedine» (basettone a scopettone) alla «Cecco Beppe» tanto di moda venivano chiamate così perché chi le portava ostentava fede austroungarica e quindi antiunitaria; per imparare a guardare con occhi diversi il tenebroso volto di Garibaldi nascosto dalla celebre barba rossiccia immediatamente riconoscibile sul campo di battaglia; per mettere a confronto l’ostentazione vanitosa di Napoleone III che impomatava i baffi per intere mezz’ore al fine di riuscire a farli stare perfettamente orizzontali, fino ai modestissimi baffetti del mite Francesco II re delle Due Sicilie. O, ancora, per meglio comprendere il vezzo ordinato e ben curato di uomini tutti d’un pezzo come Mazzini, D’Azeglio e Verdi, oppure l’originalità del pizzetto «bipartito” di La Marmora. Per passare dal generoso estro verdiano al rigore cavouriano in sol colpo di rasoio! La vicenda umana e politica di ognuno di loro viene raccontata da didascalie che chiariscono anche il loro rapporto con barba e baffi: molti ne furono letteralmente schiavi, come Vittorio Emanuele II o Napoleone III, mentre altri (apparentemente) indifferenti, come il rude Garibaldi. ( Sic! Barbara Micheletto Spadini) ★

Barba ci cova© Per gentile concessione dell’autore — Riproduzione vietata

Barba ci cova 6