Litus Minor

Casca una goccia d’acqua su quella pozzanghera di una terra sabbiosa e salmastra, l’unica cosa che mi preoccupa è cercare un riparo. Una terra come tante, una di cui non ci si accorge se non la si vuole guardare. Non potevo di certo immaginare che quel silenzioso e umile suolo sabbioso potesse avere un trascorso così diverso da quello che i miei occhi vedevano in quel frangente. Capii solo dopo tanto tempo che quel luogo aveva intrappolato la sua essenza in un distillato di colori e profumi, e perché per anni li volle proteggere gelosamente in un labirinto invalicabile di rovi selvatici.

Un occhio distratto avrebbe potuto credere che si fosse pian piano lasciato morire, perché di lui appariva solo l’aspetto trasandato, invece guardandolo sotto la giusta prospettiva, si intuiva che aveva saputo rinnovarsi e adeguarsi ai cambiamenti, ed io, che inizialmente l’avevo ignorato, mi dovetti ricredere.
Quella terra, l’avevo calpestata tante volte, come fosse una distesa insignificante, proprio come quella pozzanghera.
Guardavo a dritta e a manca per trovare qualcosa che mi incuriosisse, che attirasse la mia attenzione, qualcosa che apparentemente non trovavo, ma più camminavo, più avevo la sensazione che quella terra mi nascondesse qualcosa.
Forse il suo glorioso passato, la sua anima? Chissà?
Quindi, quello che era inizialmente sfuggito sì rivelò ben presto ai miei occhi, facendomi capire quanto l’avevo sottovalutata.
Mi mostrò i suoi colori, mi inebriò con i suoi profumi, ma soprattutto mi mostrò il carattere fiero di chi non si lascia intimorire, né dalla pomposità di una ridondante Venezia, né tantomeno dalle sue rivali: la superba Lido e la titanica Pellestrina.
Litus Minor è il suo vero nome ed è nata per volontà della natura.
La sua consacrazione non è avvenuta con lo sposalizio del mare che il Doge di Venezia Pietro Orseolo volle per sancire il dominio marittimo della grande Repubblica, ma grazie ad un matrimonio, per la verità, né voluto, né cercato.
Quel bacio tra il fiume e il mare fu un colpo di fulmine; le sabbie lagunari e marine si mescolarono e dalla loro unione nacque il loro primo figlio Litus Minor, allevato e cullato dalle grandi braccia della barena.
Il piccolo crebbe secondo i tempi della terra, a passi secolari, passando dall’infanzia all’adolescenza, ma, ahimè, con le debolezze dell’uomo, e quando venne vezzeggiato, corteggiato e invogliato a spingersi verso una realtà che non gli apparteneva, cedette alle lusinghe, si fece imbrogliare e ne rimase intrappolato.
Litus Minor divenne un importante snodo commerciale nel periodo del grande Impero Romano, ma, ad un certo punto, accortosi dell’inganno, si ribellò e decise di nascondere nel sottosuolo delle sue barene quel trascorso impertinente.
Le grandi pavimentazioni in mosaico lasciate in eredità dall’uomo furono volutamente fagocitate ed il piccolo lido riconquistò la sua vera identità.
Aveva capito quanto la civilizzazione l’avesse allontanato dalla sua vera natura, decise quindi di abbandonare quel vivere frenetico e poco sincero che aveva svilito la sua personalità.
Per anni l’avevano imbellettato per scopi personali, ma certamente non ne aveva bisogno; era profondamente amareggiato dal fatto che di lui avevano visto solo l’aspetto logistico. Così una mattina si svegliò e fece calare una fitta nebbia sulle sue terre, rese i canali non navigabili, si nascose e si chiuse nel suo autismo.
Lio era così arrabbiato con sé stesso che la malattia progredì rapidamente. Per anni volle rimanere invisibile agli occhi del mondo. E vi riuscì.
Come per i bambini autistici, i suoi pensieri viaggiavano a velocità supersonica, ma nessuno capiva cosa gli stesse passando per la testa, e piano, piano invece di ricevere aiuto, quasi tutti incominciarono ad abbandonarlo.
Solo una povera famiglia, per necessità prima e per volontà in seguito, rimase al suo fianco sfidando ogni difficoltà. Umberto, il figlio quarantenne di Ada, l’anziana madre, si era impossessato di un elegante casolare in muratura.
Umberto non aveva più denti, se non qualche piccola scheggia annerita, il volto era solcato da rughe profonde, il fisico nerboruto lo faceva sembrare molto più vecchio di quanto fosse in realtà.
A Lio Piccolo si era insediato durante il periodo della peste a Venezia, perché all’epoca lavorava come beccamorto, e non sopportava più l’odore della morte.
Tutti i giorni, col remo di poppa spingeva la sua barca, sulla quale erano accatastate decine di corpi senza vita.
Il 3 novembre, salito a bordo, Umberto trovò il padre e il fratello minore ammassati come sacchi di patate; a fatica trattenne un conato di vomito.
La sua famiglia in un sol giorno era stata falcidiata dalla pestilenza, e si soffermò a pensare al suo futuro e a quello di sua madre.
In quell’anno buio, di grandi perdite e sofferenze, ne aveva viste di cotte e di crude, il suo cuore ferito e stanco lo fece vacillare; cercò dentro di sé una soluzione a quella condizione disperata, e con le lacrime agli occhi la trovò nella sua determinazione e nella forza dei suoi muscoli.
Non volle più pensare a quelle immagini di dolore, recuperò un pastrano dalla casa di un ricco signore e decise di abbandonare Venezia con l’anziana madre. Prese i remi, montò in barca e cominciò a vogare per ore ed ore.
Raggiunse le sponde deserte di quel Lio piccolo che in quel periodo, oltre a non poter offrire nulla, era anche un luogo difficile da colonizzare, e non solo per il fatto che non vi era alcuna possibilità di approvvigionamento di viveri. Umberto, ormai esausto, ma con la mente ancora lucida, intravide una possibilità, e con il suo gesto apparentemente vigliacco salvò due vite e quel lido ormai abbandonato.
Umberto, l’uomo dal pastrano nero, dopo mesi di completa solitudine, aveva ripreso ad andare col suo sandolo al mercato di Rialto, per barattare i suoi pesci o altro con un po’ di sale e del vino.
Ada, l’anziana madre, accudiva l’orto e le galline, ed era sempre impegnata con le faccende domestiche.
Umberto, l’uomo dal pastrano nero, aveva cambiato il volto di quel Lido.
L’aveva ripulito dalle sterpaglie, aveva zappato la terra cercando di ossigenarla, e ben presto incominciò a impiantare alberi di giuggiole e carciofi, dandole una nuova ragione di vita.
Per distrarsi dalle fatiche quotidiane, la mattina presto, verso le cinque, con la rugiada sui baffi, vogava per i canali delle sue barene, tra una nebbiolina a mezz’acqua, il leggero tepore del sole che sorge e i tuffi dei cefali che andavano a salutarlo.
Era diretto in “bacan” per prendere le «corbole», esche di qualità per la pesca del branzino, mentre con la fiocina si dilettava ad infilzare i «passarini», vera leccornia per la golosa madre.
Le sue mani sembravano ricoperte di cuoio, quanto erano spesse. Non c’era giorno che Umberto non andasse al mercato. Ben presto cominciarono tutti a riconoscerlo, e ad apprezzare la bontà dei suoi prodotti. Lo soprannominarono » El Sior dee castraure», ma lui era indifferente alle lusinghe, e non si perdeva in chiacchiere, anzi appena aveva incassato sgattaiolava sul suo sandolo per tornare di nascosto al suo lido.
Non passò molto tempo e la gente capì dove si era insediato, ma soprattutto da dove arrivavano quelle primizie.
Dopo anni di chiusura totale, Lio Piccolo, grazie ad Umberto e Ada, aveva ritrovato il modo di regalare il suo amore.
Le nebbie scomparvero e ripresero a nidificare uccelli delle più disparate specie, arrivarono persino i fenicotteri, anzi si narra che quelle eleganti creature siano nate proprio a Lio Piccolo, dal rosa del tramonto riflesso dalla laguna su di un uovo di «garzetta.»
Le piante cominciarono a crescere rigogliose e i loro frutti erano così saporiti che si sparse la voce velocemente.
Lio piccolo stava ritrovando l’equilibrio e la fiducia necessari per poter riprendere il dialogo con l’uomo, ma Umberto, il suo portavoce, era scettico. Lio, dal canto suo, in piena innocenza, pensava invece si trattasse di semplice gelosia.
Eppure, in tutti quegli anni solo Umberto aveva dimostrato di saper amare quella terra così ostile.
Nonostante tutto, Lio decise comunque di abbandonare quell’atteggiamento diffidente, si liberò dai suoi blocchi e, lusingato dal successo che stava riscuotendo, mostrò il meglio di sé: la perfetta fusione dei colori che aveva tenuto nascosta per anni nasceva da quel lungo periodo di introspezione, e non posso dire che sbocciò alla velocità dei funghi, ma piano, piano si mostrò come un esuberante bocciolo di rosa.
Era evidente che aveva ritrovato l’entusiasmo per la vita e per l’uomo e come una donna innamorata lasciò esplodere la sua felicità regalando quell’amore con lo stesso sorriso di una madre mentre culla il suo bambino.
Umberto comunque continuò ad accudirla quella terra, ad amarla a suo modo, e non fece nulla per proteggerla dagli avidi investitori; d’altro canto non era poi semplice capire chi la desiderasse per amore, per la sua bellezza, e chi invece la volesse sfruttare, come sempre era accaduto.
Dopo tanto aver visto e camminato, ho conosciuto Umberto, o meglio la sua discendenza, e con Alberto mi sono seduto sul piccolo molo di legno con i piedi ad accarezzare l’acqua: guardavamo in silenzio la meraviglia di quella laguna, mentre dietro di noi i trattori giravano la terra all’interno delle grandi serre in PVC verde.

(1-continua)

Alba a Lio Piccolo (fonte: Pentaxiani)

Litus Minor