Riviste perdute

La storia dell’arte (e della stampa) secondo Mauri Vianello

Se c’è una cosa che la modernità virtuale ha cancellato rapidamente e per sempre (secondo il Mauri Vianello, eccolo qua: «saluta i lettori, Mauri!») una cosa che pure ci ha tenuto compagnia per decenni, molti dei quali felici: è la stampa su carta di immagini e parole in riviste e giornali cosiddetti per soli uomini, o per uomini soli, se preferite.

Vulva in pietra (Paleolitico, Musée des antiquités nationales, Saint-Germain-en-Laye; fonte: commons.wikimedia.org).

VENEZIA — Secondo il Mauri, che durante il recente e ripetuto esercizio delle misure di contenimento causate dalla pandemia ha potuto approfondire e direi estendere a dismisura il suo già profondo ed esteso scibile fin quasi oltre ogni limite, la stampa di immagini e parole a contenuto erotico, per non dire addirittura pornografico, «el xe un apacs legomenon drento de la cultura e de l’arte dell’omo, e anca ovviamente de la dona».

Secondo dunque la teoria, comprovata da fatti incontrovertibili, elaborata dal Mauri Vianello (il più giovane pensionato della città; giovane non adesso: ma quando è andato in pensione) infatti e in effetti pertanto e quindi la rappresentazione di immagini e simboli a di organi ed azioni di carattere sessuale non solo precede, ma è la causa cogente dell’emerge dell’arte e addirittura della cultura del genere umano.

Con l’unica eccezione, mirabolante, della nobilissima e importantissima arte della stampa. Che fu usata, primieramente, non per divulgare nel mondo immagini piacevolissime di «tette culi cassi e mone» come scrisse (e poi venne stampato) indimenticabilmente il grandissimo poeta e nobilomo Zorzi Alvise Baffo. Ma bensì e altrimenti per pubblicare tesi religiose e addirittura libri sacri.

Incredibile, no? Fin dai tempi delle caverne, giù giù nel Paleolitico «e anca prima», sostiene sempre il Mauri, non furono né bisonti né gazzelle, né tampoco manipoli armati di cacciatori affamati, a spingere i primi artisti a inventare la pittura murale: ma simboli eccitantissimi di peni e vagine e copule sessuali.

Che, sostiene il Mauri, intere tribù, per millenni, ammiravano estatiche al fioco chiarore danzante di lumi d’olio («megio de la television») prima di abbandonarsi a riti orgiastici di fertilità oggi purtroppo dimenticati e inimmaginabili. «Se i gavesse voesto crear l’arte par l’arte — chiosa il Mauri, e come dargli torto — i gavaria piturà all’aperto: no drento caverne umide calde profonde e inarrivabili, che xe già una metafora de suo».

E così, secondo questa sua teoria, di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio, di era in era, gli esseri umani inventarono nuove forme d’espressione per rappresentare «sempre le stesse robe». Le veneri di pietra intagliate a mano nuda, le ceramiche e le erme dei greci, le sante estatiche del Barocco, i libri proibiti del secolo dei Lumi, le macchine ottiche, il cinema, la televisione, i videoregistratori, internet.

«Tette culi cassi e mone». E ogni volta inventandosi un contorno artistico di pura giustificazione, dalle antilopi alla realtà virtuale, passando per le macchine leonardesche e i festival di canzoni popolari, per raffigurare «le uniche cose che funsiona nea fantasia» (altre parole dell’ispiratissimo Mauri).

Ed arriviamo così di corsa, e anche saltiamo un poco indietro, agli ultimi decenni del Novecento, in cui la nobilissima e importantissima arte della stampa, maturata nei secoli dalle prime stampe a legno e caratteri mobili («ea bibia de Gutenber e le proposission de Lutero») alle raffinatissime policromie delle macchine offset digitali («enciclopedie a dispense de ricamo») produsse infine, al posto di libri sacri e santini pitturati a mano («più qualche version de grego»), magnifiche riviste che furono l’unico modo per intere generazioni di umani di vedere, ma soprattutto immaginare, un po’ di erotismo.

Venivano comprate di nascosto, in edicole lontane («gera una topografia tipografica da morir dal rider» sostiene il Mauri «tuti andava distanti da casa, ma nel stesso posto, secondo la zona»); custodite gelosamente in anfratti reconditi, mai gettate, ma lasciate con astuzia in luoghi scelti, come tesori per nuovi lettori.

Ora tutto questo non c’è più, da anni. In pochi hanno versato una lacrima, nessuno una prece, per questa tragica scomparsa: « xe come se li gavesse scancellà le grotte di Altamira, voria veder cossa che sucedaria» (questo è sempre il Mauri che parla). Solo il Genny (Gennaro Esposito, che ci aspetta da Ai Amighi da Chang e che ha già telefonato: «quando che rivè, xe drio desclarse el giazo») solo il Genny custodisce ancora un’intera collezione di numeri antichi di Caballero, Le Ore, Men, La Coppia Moderna et cetera (più alcuni numeri preziosissimi, perché importati dall’estero, di Color Climax e Bazooms e pericolosissimo Sex Bizzarre; altri del  Tromba, Lando, Sukia e Jacula). Chiusi in magazzino, dentro un cassone piombato a prova d’acqua alta.

Il Genny, che ha fatto tutte le scuole, dall’asilo al liceo, prima dalle suore e poi dai preti, sostiene infine di essere la prova vivente «che la consultazione di queste riviste non conduce assolutamente alla cecità!» come sempre gli avevano invece detto.

Ma adesso basta così, che come i giovinastri d’oggi, anche noi abbiamo bisogno del nostro spritz (uno non basta) quotidiano. Salute!!!!

Riviste perdute