La maledizione dell’autostrada
Appena la vide, l’uomo in cuor suo pensò che non aveva mai visto una ragazza così bella. Capelli lunghi scurissimi, viso angelico, labbra appena dischiuse, corpo turgido, fianchi di una dea (anche se lui forse le dee non le aveva viste nemmeno al museo). Vita stretta, braccia e gambe ben tornite, mani e piedi piccoli e graziosi. Pelle candida, forse anche troppo, la luce irreale di quei neon appesi qua e là al soffitto grigio confondeva le ombre. Insomma di ragazze ne aveva viste, ma lasciatemelo ripetere, così belle no, mai. Gli occhi della ragazza però non poteva vedere di che colore fossero, visto che qualcuno prima di lui glieli aveva chiusi.
La ragazza era immobile, davanti a lui. Intatta, perfetta, stesa su quel tavolo freddo d’acciaio, morta. Il medico legale che aveva appena terminato l’autopsia aveva riferito che era morta sul colpo: colpo di frusta, l’urto del tamponamento le aveva spezzato l’osso del collo. Non aveva sofferto, disse.
L’uomo riavvolse il corpo per metterlo assieme agli altri cadaveri, sarebbe arrivato qualcuno a vestirla e poi tutto avrebbe fatto il suo corso. Non era l’unico cadavere che aveva visto quel giorno, ma meglio evitare di soffermarsi sui particolari. Anzi sì.
L’incidente del marzo 2003, quello si che aveva fatto storia ed era, sarebbe, rimasto nella memoria. Tredici morti sul colpo, settantotto feriti di cui quindici in prognosi riservata e quattro in pericolo di morte. C’era stato un tamponamento a catena, complice la nebbia e l’alta velocità dei mezzi, dissero poi gli inquirenti: un camion che trasportava bombole di idrogeno, coinvolto nel tamponamento, aveva trasformato il groviglio di mezzi in un gigantesco rogo; un elicottero gli aveva versato sopra ettolitri d’acqua per evitare che altre bombole esplodessero. Alla fine erano rimasti da estrarre i cadaveri, o frammenti di essi, non tutti riconoscibili. L’alta temperatura aveva fatto scempio dei corpi. Qualcuno scrisse che non fossero nemmeno tutti d’accordo sul numero dei cadaveri: il conto totale del numero dei denti, diviso per quello dei corpi, non tornava, c’erano denti in più. Quindi voleva dire che almeno un corpo era scomparso, completamente bruciato, disintegrato.
Chi cerca altri particolari può digitare «autostrada A4 incidenti Cessalto» sul proprio motore di ricerca. Li troverà tutti, anche quello dell’otto agosto 2008, fino a quello più recente, di ieri, di oggi. Qui, a Cessalto, 3700 abitanti, l’autostrada è arrivata circa nel 1966. Doveva portare lavoro e ricchezza. Qualcosa si, certo, ma anche allora come adesso il futuro si poteva solo supporre, non prevedere con esattezza, poi ognuno ha la sua opinione. Il territorio comunale è tagliato in due dall’autostrada, e ricollegato da sette cavalcavia. Costruiti allora, molto stretti, senza camminatoi né piste ciclabili, con una rete alta a protezione delle sponde. Giustamente, che qualche deficiente non vada a fare malanni. La stazione di servizio nelle due direzioni si chiama Calstorta: il nome di una vecchia strada, come altre: Callunga, Callunghetta, Callalta, Calbassa. Qui alle strade davano il nome che si meritavano, e quello è rimasto. Come ai canali: uno scolmador non è un piovego e nemmeno una fossa, anche se a vista sembrano uguali. Come anche le strade: statali regionali provinciali comunali, tutte piste d’asfalto più o meno liscio buone per fare incidenti. Anche l’autostrada.
Ma non deviamo. Questo tratto di autostrada Noventa di Piave — Cessalto — San Stino di Livenza è ormai tristemente famoso per gli incidenti mortali quasi all’ordine del giorno: quasi una maledizione insomma. Già, qui oltre al rombo continuo dell’autostrada — non provvista di barriere fono assorbenti — devono ascoltare spesso anche il via vai di sirene e il rombo degli elicotteri del soccorso. Rumori che si sopportano a fatica, con l’astio e l’irascibilità continua del fastidio, ma cui non ci si abitua. Rumore anche nella recente piazza centrale del paese: per evitare che si ecceda con la velocità, il pavimento stradale di porfido è intervallato da righe trasversali di pietre rialzate, così che quando passano i veicoli fanno botti ritmici che svegliano e fanno sussultare la gente a distanza di mezzo chilometro (e quando transitano i camion vuoti sembra il fracasso della ritirata dei carri armati tedeschi). Anche per questo la zona del centro è poco abitata e sembra strano che tante case del centro di un ricco paesino del nordest stiano là così, vuote e disabitate. Poi vedi passare camion giganti a filo del marciapiede, e si capisce tutto. Cessalto, suo malgrado, si trova a essere diventato famoso per l’autostrada. Che passa, questa Venezia-Trieste, anche per Noventa e San Stino, e pure per Portogruaro: tutti e tre in provincia di Venezia, mentre Cessalto, che sta fra Noventa e San Stino, è provincia di Treviso. Ecco perché sulla mappa vedete tre caselli autostradali così vicini: perché anche la provincia di Treviso voleva il suo.
Ora, a nord, sull’A4 stanno lavorando e aprendo la terza corsia, prima che arrivino anche qui ci vorranno anni. C’è ancora chi ricorda bene cosa successe qui, nel territorio, quando arrivò l’autostrada: espropri, campi tagliati in due, case contadine abbattute, famiglie sloggiate. Per carità, nessuno rimase su una strada, ma dover abbandonare la terra e la casa in cui si è vissuta tutta una vita, specie per gli anziani può essere la rovina interiore. Lasciare i tuoi campi, vederti abbattere la casa e il pollaio, dover ammazzare tutti i polli contemporaneamente, vedere gli alberi da frutto che hai piantato sradicati dalle ruspe (magari con la frutta già matura) può essere peggio della morte. E credetemi, lo dico perché so cosa vuol dire. Nessun rimborso, nessuna nuova casa più moderna, niente di niente ti può compensare. Ovvio, è arrivato il congelatore, tutti i polli ammazzati in un colpo solo li puoi conservare anche per mesi, per mangiarli quando vuoi. Ma è carne avvelenata. Ecco, ogni volta che vedo un congelatore penso a questo. I contadini mangiano sempre roba vecchia — dice un mio amico sacerdote — ammazzano un pollo, lo mettono in congelatore e ne tirano fuori uno ammazzato un mese fa. Ecco, anche questo è il progresso: a cento metri, e ne senti bene il rombo, hai il passaggio della produzione europea, mondiale forse. Qualcuno lo ha definito il canale di Suez del Nordest: una strettoia maledetta, che certi camionisti si rifiutano di attraversare, preferendo per quel tratto le statali, Triestina o Pontebbana. Nemmeno il sottoscritto, nei suoi ormai rari viaggi verso Venezia o verso il Nord, entra in autostrada proprio qui, che sarebbe la sua comodità. Preferisce Noventa, o Portogruaro, da molti anni ormai.
Qui, sui libri di storia locale, si accenna all’autostrada quel tanto che basta. Per sapere il resto si va a chiedere i vecchi, i pochi che in quel 1966 erano adulti e senzienti in merito. Qualcuno si lascia scappare che, quella volta, scavando per fare le carreggiate avessero trovato un cimitero: della Prima guerra mondiale, austriaco, e che per non subire rallentamenti nei lavori avessero macinato tutto e via. Cimiteri austriaci qui attorno, retrovia del fronte del Piave, ce ne sono parecchi, anche in territorio privato come quello di Fossalta di Chiarano. O forse, quella rinvenuta, poteva essere una fossa comune, appestati morti a causa qualche epidemia, qui in passato c’era stata la spagnola che in un colpo solo si era portata via tutti i bambini. Quei tristi eventi che avevano colpito all’epoca un po’ tutti i paesi, nei vecchi cimiteri ne resta ancora traccia, quelle decine di piccole croci povere abbandonate senza più il nome, di latta o di cemento, disposte a reticolato in ampie aree. Che un po’ alla volta vengono cancellate, ora che i bambini non muoiono più, per far posto a nuove tombe ben più ricche e pregiate. Sempre che questa storia sia vera, e non ho elementi per provarlo, sarebbe un motivo (naturalmente di carattere superstizioso) per spiegare come mai la maledizione di tanti incidenti si abbatta da decenni sull’autostrada proprio in questo tratto: spiriti vaganti di morti, anime raminghe senza pace scacciate dalle loro tombe profanate.
Ecco, se fossi uno di quei vecchi solitari sempre in cimitero a far visita alle tombe dei figli morti, quelli che in certe sere gli pare di sentire sul collo le mani gelide dei parenti morti a cui sono convinti d’aver fatto qualche torto, be’, mi verrebbe da crederci. Preferisco però pensare a ben altra coincidenza, tipo che su quel tratto d’autostrada così trafficata, con i mezzi imbottigliati in due sole corsie per direzione e incollati l’uno all’altro a forte velocità, l’attenzione e la concentrazione di qualcheduno delle migliaia di autisti impegnati in lunghi viaggi venga meno, così che sia sufficiente qualche distrazione o momentaneo assopimento per provocare il disastro. Auto, camion, furgone non fa differenza, l’autostrada non è la rotaia d’un treno su cui non si può sorpassare, né frenare all’improvviso: oggi la velocità e la precisione nelle consegne della merce valgono soldi molti soldi; i ritardi possono pregiudicare i cicli produttivi. L’ho sentito con le mie orecchie quel padre che, in santuario, ordinava le messe in memoria del figlio poco più che ventenne. Una mattina, nel suo primo giorno di lavoro il ragazzo era rimasto coinvolto in un tamponamento: la sua utilitaria si era trovata tra due camion, era morto schiacciato in un tamponamento.
Frammenti di memorie che entrano all’improvviso, senza dare la precedenza, nella carreggiata in cui sta scorrendo il pensiero, e bisogna frenare istintivamente per non fare confusione. L’operaio della ditta che aveva in appalto la potatura degli alberi ai lati dell’autostrada: abbiamo riempito diversi camioncini scoperti con le ramaglie, subito portati in discarica; quelle rimanenti, soprattutto foglie, le avevano caricate in un furgone chiuso, era arrivata sera e non abbiamo avuto il tempo di scaricarlo, chiusi gli sportelli è rimasto lì notte e mattina fino all’apertura della discarica, il pomeriggio dopo; aperti gli sportelli eravamo stati quasi soffocati dal puzzo del gas di scarico che quei rami e quelle foglie emanavano; la prossima volta ti chiamo e vieni ad annusarlo anche tu, un odore concentrato pazzesco, pensa cosa quegli alberelli si son dovuti mangiare.
Così è la strada, più ancora l’autostrada, di tutti, ma è vietato fermarsi sulla corsia d’emergenza se ti gira la testa: lei qui non può restare, o chiamo l’ambulanza o il carro attrezzi. Un servizio, un canale di transito aggressivo e spietato che riscopre la sua umanità solo quando s’inceppa e si chiude in un groviglio di lamiere, fuoco e sangue. Presto spazzati via però, perché il viaggio deve continuare e i percorsi alternativi sono già intasati da prima. Il traffico insomma, le cose e la gente sembra non valgano nulla se non si muovono o vengono trasportate, a caro prezzo, da un posto a un altro. O forse no, ma se cercate la verità (l’avrete già capito), la verità in velocità, non la troverete certo qui.
Ecco, sul cavalcavia, adesso, solo una rapida occhiata dall’alto al serpente di automezzi fermi incolonnati, perché più avanti c’è l’incidente. Elicotteri gialli sopra la testa, ma mi allontano verso la campagna e non li vedo più. Solo un ricordo, una figura che non ho mai visto, di cui però ho sentito raccontare: la vecchietta vita-sola a cui il passaggio dell’autostrada aveva portato via la casetta, l’orto, le galline e il campo; quella morta disgustata poi in ospizio, che a suo tempo aveva capito suo malgrado cosa voleva dire progresso e aveva maledetto tutto e tutti quelli che sarebbero passati di lì. Tutt’altra storia insomma di quella della ragazza giovane di cui parlavo all’inizio: chissà chi era, dove andava, con chi era, che progetti aveva lei che non sarebbe arrivata alla tragedia della vecchiaia ma che avrebbe terminato la sua via lì, per caso o per destino. Anche se era una bella ragazza, la ragazza più bella in assoluto che l’uomo dell’obitorio avesse mai visto.