Quattro ore al Lido

Schizzo dal vero

Per le ultime giornate di una splendida estate, un delizioso racconto di Camillo Boito (Roma, 30 ottobre 1836 – Milano, 28 giugno 1914) architetto, critico d’arte, e accademico. Artista eclettico e geniale, fu l’inventore del restauro filologico, in parte rispettoso del passare del tempo. Suo a Venezia il restauro di Palazzo Franchetti sul Canal Grande (quasi una ricostruzione in stile neogotico ad essere sinceri). Scrittore di novelle è ricordato soprattutto per il racconto Senso, da cui Luchino Visconti trasse il suo omonimo capolavoro filmico. Quattro ore al Lido è tratto dalla sua ultima opera di narrativa, la raccolta Il maestro di setticlavio, pubblicata nel 1891. Per la serie «La vita è un lungo Florian».

Ettore Tito (1859–1941), Orizzonte (Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma).

L’acqua era tiepida, il mare uno specchio. Nuotando ora lesto, ora tardo, m’ero allontanato bene dalla riva, sicché la barca di salvamento mi veniva dietro, e i barcaiuoli gridavano che gli Avvisi proibiscono di scostarsi troppo dai Bagni. Uomo avvisato, mezzo salvato. Vedendo che non davo retta alla legge, i barcaiuoli se ne tornarono indietro, e mi lasciarono solo. Nell’acqua profonda sentivo di quando in quando una corrente fresca, e mi scorreva sulla pelle un leggiero brivido; poi tornavo nel tepore quieto e beato. Quella libertà delle membra in mezzo a quella immensità di mare è un conforto ineffabile, un’allegria sublime. Non un’onda, non una voce. L’edificio dei Bagni era diventato piccino. Mi pareva di entrare nell’infinito. Cacciavo sotto il capo con gli occhi aperti per vedere il verde diafano, di una gradazione così delicata, così gentile, che avrei voluto sprofondarmici dentro, sicuro di trovare al fondo del colore smeraldino una sirena bionda. Bevevo l’acqua salata. Tornavo fuori con la testa, quando mi mancava tutta l’aria nel petto, e aspiravo in furia, e sbruffavo, e in ogni boccata d’aria c’era qualche goccia di sale. Ma l’istante in cui si esce dall’incanto del gorgo è terribile. Non si vede più nulla: sembra di entrare, asfittici, nelle tenebre della morte. I capelli si appiccicano sugli occhi, l’acqua che sgocciola dal fronte impedisce alle palpebre di aprirsi. Si respira con ansia, ma si è ciechi, d’una cecità spaventosa, che dura meno di un minuto secondo.

Quand’ero un po’ stanco, facevo il morto. Mi coricavo sul mare come sopra il più morbido dei cuscini, immobile, con le braccia aperte e con le gambe unite. Il mare mi dondolava placidamente, cantandomi la ninna nanna. Sull’orizzonte non vedevo dinanzi a me altro che le punte dei miei piedi; ma di contro al mio viso si apriva la grandezza dei cieli. Guardavo le nubi in faccia. Come nelle carrozze della ferrovia accade spesso di credere che si vada in direzione opposta a quella nella quale corre il treno, e si sbalza, e si guarda esterrefatti; così a me sembrò per un istante di essere in piedi, e di vedere l’abisso azzurro al di sopra e al di sotto. Mi pareva di stare appoggiato ad una parete verticale interminabile, nel mezzo ad una immensità vertiginosa di colori strani. Lo splendore del tramonto prendeva figura come di fuoco diffuso, di oro liquefatto, di vapore celeste misteriosissimo, di brune macchie minacciose e di bizzarri luccicori d’argento: l’atmosfera del sole vista nel sole non può essere diversa. Ma una ondetta, passandomi sul fronte, mi richiamava alla realtà; e allora io mi gustavo di nuovo la dolcezza di quel giaciglio soffice e fresco. E di botto mi rivoltavo, e coi remi delle braccia e delle gambe, andando rapido, ma in giusta simmetria e senza fatica, vogavo un pezzo; poi sbattevo le mani e i piedi sull’acqua, alzando una spuma candida di perlette, che subito si scioglieva nell’ampio verde.
 
Il verde nel mare è di una verità, che gl’impasti dei più raffinati colori e le più sottili velature non possono imitare neanche di lontano. Non parlo delle spiagge e dei mari diversi; lo stesso mare, la stessa spiaggia nella stessa stagione non ha mai la stessa tinta l’un giorno e l’altro. Ad ogni moto dell’acqua corrisponde una gradazione differente di verde, di azzurro, di tinte neutre, e i moti dell’acqua sono innumerevoli, dalla impassibile calma ai furori ciechi della tempesta. Anche senza andare fino allo spavento dei cavalloni, il nuotatore lo sa. Conosce le ondette piccole, che, come il passo rapido e breve di una crestaina, si seguono l’una all’altra senza romore: sono verdoline con un pizzico di giallo. Conosce le ondette larghe, lente, ancora graziose e leggermente azzurrognole, indizio di una bufera lontana. E poi le onde maestose, quasi direi di stile classico, nelle quali il nuotatore si lascia calare all’avvallamento e portare al colmo con il viso e con i capelli asciutti, basta premere le mani e incurvare la persona in forma di sirena, mentre il flutto s’innalza; e dall’alto si vedono le creste regolari, allineate delle altre onde, che sembrano i solchi di un immenso campo; e nel basso si crede di essere caduti al fondo di un fosso, tanto i marosi, che chiudono la vista, somigliano a sponde erbose e ripide. In mare il tempo s’allunga. L’allegria o la tristezza, l’ardire o la paura fermano l’attimo; e si pensa in un minuto più e meglio di quel che in terra si penserebbe in un’ora. E un altro dì ci sono le onde pettegole, che scherzano intorno sgarbate, vi spruzzano, ciarlando, la loro saliva in volto, non vi lasciano respirare, vi tirano di qua, vi premono di là, vi gridano nelle orecchie con un fracasso assordante ed impertinente, come le donne delle Baruffe chioggiotte. Ma Dio vi salvi dalle onde matte, uscite dai manicomii del gorgo, coperte della loro densa bava bianca, nelle quali, a un tratto, vi sentite sommerso, arrovesciato, travolto, e quando finalmente mettete fuori la testa, un’altra onda vi si sbatte in faccia e vi spezza il respiro; poi, diventato sospettoso, guardate in giro con tanto d’occhi, e vi apprestate a ricevere degnamente sul petto una ondata minacciosa, che vedete precipitarsi contro di voi, e già quasi vi seppellisce, ma ecco invece che si spiana e si risolve in nulla; gli assalti vi vengono vigliaccamente dai fianchi e dalle spalle, senz’ordine, senza ragione; vi stancate, vi spossate, cominciate a disperare; date quasi un addio alla terra, e toccate dopo sovrumani sforzi la riva, uscendo da quell’acqua sciaguattata da tutti i venti, nera, orlata di certe frange e certi fiocchi d’argento sudicio, che le danno aspetto di uno sconfinato drappo funereo.


Eppure nel mare quieto o nel mare agitato l’uomo si sente pieno di vigoria. La sua buona vanità gli fa credere o di dominar la natura, o di essere tanto grande, che Dio, per ischiacciarlo, debba scatenargli contro tutte le furie degli abissi. Svaniscono le noie mortali, il cuore si ritempra, si fa provvisione di coraggio e di forza. Un’ora in mare è un’ora bene impiegata: in quella salsedine c’è un po’ di ferro per l’anima.

Uscendo dall’acqua si diventa Greci. Dopo essere saliti le lunghe scale di legno, dove sui gradini viscidi s’arrischia di sdrucciolare e le alghe fanno talvolta dei brevi taglietti ai piedi, si entra nel proprio camerino e si avvolge il corpo nudo in un ampio lenzuolo; poi si esce così drappeggiati sul ballatoio, che guarda il mare. Alcuni bagnanti stanno ancora in acqua presso la riva, tenendosi — disgraziati! — alle corde, e piantati sull’arena, dove passeggiano i granchi. L’immobilità li intirizzisce, li raggricchia: paiono ranocchie umane. E quant’è difficile trovare il corpo bello di un uomo! Nella donna la bellezza delle membra è men rara: basta l’armonia delle parti, una certa rotondità gentile, una certa bianchezza trasparente e rosea, e forse il desiderio ci fa meno difficili. Ma nell’uomo la vigoria sana deve accoppiarsi alla snellezza morbida; le membra sciolte, giuste, né troppo asciutte, né pesanti di polpa; una espressione generale di ardire elegante. Gli antichi volevano la grazia persino sui campi di battaglia. In Tessaglia la iscrizione di una statua diceva: Ad Elatione, che ben ballò la battaglia, questa statua il popolo. La sproporzione, da noi moderni tollerata con indifferenza, era insopportabile agli antichi. Un dì ad un mimo tarchiato e grasso il pubblico vociò ridendo: Non isfondare il palco; un altro dì ad un mimo pallido e mingherlino mandò ironicamente questo saluto: Fa’ di star sano, e un’altra volta ad uno di troppo alta statura, figurante Capaneo che si avventa alle mura di Tebe, gridò indispettito: Scavalca il muro, non hai bisogno di scale.


Sul ballatoio, verso il mare, si atteggiavano dunque dieci o dodici uomini panneggiati di bianco. Avevano messo sul capo l’asciugamano in forma di Palliolum, e si avvolgevano il corpo con il lenzuolo a modo di Pallium, nelle diverse fogge, che piacevano meglio a quella naturale affettazione, da cui l’uomo coperto di un gran manto non si sa quasi mai liberare. I Greci avevano venti modi di acconciarsi il pallio: affibbiato al petto, affibbiato alle spalle, senza ripiegatura, addoppiato, con le mani nascoste, con un braccio fuori dalla spaccatura di destra, con un lembo sopra una spalla corto, con un lembo sopra una spalla lungo, stretto alle anche con pieghettine trite, ondeggiante in gonfi svolazzi o libero di cadere in larghi piani ed in ampie curve. Ogni maniera aveva il suo proprio nome, conveniente ai zerbinotti, ai filosofi ai viaggiatori, ad ogni classe di persone. Tacito si lagnava già delle vesticciuole misere degli oratori romani, e che le portassero male. Figuratevi noi la bella figura che facciamo, usciti dall’acqua, in quei pallii bagnati e appiccicaticci!
 
L’aria salata e la ginnastica del nuoto mettono in corpo una gran fame. Andai sul terrazzo de’ Bagni, e ordinai da pranzare. L’edificio, che si distende in una lunghissima linea retta, è tutto di legno e piantato su alte palafitte, le quali lasciano sfogo ai marosi quando il mare è grosso, e quando è tranquillo rompono a’ loro piedi le onde placide, che pure mandano romore a intervalli misurato e grave, quasi battute sorde di un maestro di cappella. Il coro, l’armonia di quell’ora non si può descrivere. Tutto si fonde in un accordo pieno e gaio, profondo e vago: arpa eolia dell’infinito. Il sole baciava quasi l’orizzonte, e scendeva dalla parte opposta al mare, dietro al Lido, dietro alla laguna, dietro a Venezia. I suoi raggi orizzontali non toccavano più la superficie della marina, che era diventata scura e azzurrastra; ma andavano a ferire dritti due vele lontane di due barche da pescatori, facendole brillare d’un colore giallo dorato, fiammelle fantastiche. Il piano immenso del mare nudo; non uno scoglio, non una lingua di terra per quanto l’occhio cercasse: pareva di navigare sopra un vascello fatato nell’Oceano a mille miglia da terra. E le due vele splendevano; e il cielo pigliava una tinta brunetta ancora cilestra, qua e là rallegrata da qualche nuvola mezza in ombra e mezza in luce, la quale vagava lenta e a poco a poco s’impiccioliva e svaniva.
 

L’appetito mi faceva parere squisite le vivande, e la salsedine, che mi restava in bocca, dava al vino una dolcezza inebbriante. Il ventre si confortava, e gli occhi s’incantavano; e questi e quello mi riempivano l’anima di una felicità solenne, la quale porta il riso sulle labbra e le lagrime sul ciglio. V’era poca gente. La banda cominciò a suonare. A sinistra, intorno ad una tavola, stava un gruppo d’Inglesi. Una delle signore, vestita di seta cruda con grandi nastri rossi sull’abito e sul cappello, parlava allegra, faceva mille graziose smorfiette col viso strano e piacente. L’altra alta di statura, snella, flessuosa, con il collo un po’ lungo, come le Diarie antiche, il volto regolare, delicato, d’un rosa pallido, gli occhi di un fine azzurro marino, le mani troppo affilate, ma nobilissime e dello stesso candore di quel po’ di pelle, che il modesto squarcio dell’abito lasciava vedere sotto la gola. Si alzava di tratto in tratto per correre dietro ad un bambino di due anni, biondo, paffuto, il quale alla sua volta correva dietro ad un grosso cane nero — un bel cane, che nuotava meglio di me, e che, mentre facevo il mio bagno in alto mare, era venuto a salutarmi con molta grazia. La signora vestiva di seta colore perlino, col cappello a larghe tese della medesima stoffa; e mi ricordo che il tono neutro e chiarissimo faceva, come dicono i pittori, un buco sul cielo, pareva cioè più lontano del fondo. Ma da questo errore di tavolozza veniva nella gentile persona un non so che di aereo, un non so che di ammaliante. Non era una donna: era una fata. E il putto continuava a scapparle via ad ogni momento, e voleva vedere tutto, toccare tutto; sghignazzava di un riso da angioletto, pestava i piedi e batteva le mani; si metteva a sedere sulle ginocchia della gente, e la mamma andava allora a pigliarlo, dicendogli qualche parola con una severità tutta soave, e carezzandogli con la mano sottile i lunghi ricci d’oro. Ella era la regina del terrazzo: una regina dolce, sicura di sé, com’è sicura l’innocenza, e disinvolta, com’è disinvolto il pudore. Codesta madre pareva il simbolo della verginità: credetti in quel momento al mistero della Immacolata Concezione. Ma la soave creatura principesca stava in compagnia di un signore, che sembrava vecchio se si badava a’ suoi capelli grigi e alla sua barba mezza bianca, ma che sembrava giovine se si guardava ai lineamenti e all’espressione del volto. Era il padre, era il marito? Questo problema mi torturò il cervello per una buona mezz’ora.

Più lontani, sparsi a gruppi di due, di tre, di quattro o solitarii, stavano degli altri forestieri e qualche raro veneziano, la più parte immobili, ascoltando la musica, guardando in giro o discorrendo sotto voce senza gesticolare. Il mare tranquillo innamora e sgomenta. Quei flutti, che si frangono perennemente alla riva e mandano sempre l’identico suono; quell’aria quieta e fresca, che si aspira con lunga voluttà; quell’orizzonte sconfinato, che pare nello stesso tempo una linea retta infinita ed un cerchio infinito: tutto contribuisce a produrre l’impressione maestosa di un tempio enorme, in cui ci si toglie reverenti il cappello e ci si sprofonda nella propria coscienza. Non ho mai visto nessuno, per quanto fosse povero di fantasia, d’ingegno e di cuore, il quale nel mettere i piedi sulla soglia di una cattedrale bisantina o gotica non si sentisse invaso da un arcano senso di rispetto, e non interrompesse le parole che stava pronunciando; ma la vera chiesa di Dio è l’immensità. Lo stato naturale dell’uomo in faccia al mare è il silenzio.


Quei gruppi di persone staccavano bizzarramente sul campo del cielo, il quale diventava sempre più fosco: erano tinte intiere, senza ombreggiatura, che non trovavano nel tono del fondo nessuna maniera di fusione; e già i colori perdevano la loro vivacità nell’oscurarsi crescente della sera, mentre il contorno si distingueva tuttavia preciso e un po’ secco. A destra si muoveva una macchia nera di camerieri, i quali, non sapendo che cosa fare, discorrevano tra loro. Io intanto, assottigliando quanto più potevo la vista, fissavo ancora quelle due vele lontane, le quali, da fiammeggianti che erano quando il sole mandava loro gli ultimi suoi raggi, diventarono grigie, e poi via via più scure, finché si dipinsero nere sull’aria già lugubre, e a poco a poco mi sfuggivano dallo sguardo. Già si riducevano ad una pennellata quasi impercettibile. Un minuto dopo non si discernevano più. Mi rincrebbe. In ogni veduta v’è un punto, al quale l’occhio si ferma con tenace predilezione; e quando sparisce ci si sente come strappare qualcosa, e si piglia quel caso semplice e inevitabile per un segno di cattivo augurio. In faccia al mare l’animo si riempie di pregiudizii.

I camerieri accendevano le lampade. Il cielo si era lentamente annuvolato: non brillava neanche una fetta di luna, non luccicava neanche una stella. L’aria e il mare si confondevano nel buio. Solo a guardare giù dal parapetto del terrazzo si scopriva a intervalli un po’ del bianco della spuma sulle onde, le quali mandavano più forte, più frequente e quasi minaccioso il loro muggito.
 
Uscii dallo Stabilimento e, traversando a piedi il breve spazio che divide il mare dalla laguna, sospirai per la prima volta: avrei voluto sentire sul mio braccio il peso leggiero di un altro braccio, e udire accanto, dopo il fruscìo del mare, quello di un vestito di donna. Il vaporetto mandò il suo fischio, e si partì per Venezia. La notte era nera, la laguna era cupa. Non si vedeva altro che il fanale rosso di un piccolo vapore, che veniva, sbuffando, incontro a noi, e lontano i lumi della città, che parevano una costellazione piombata in terra e mezzo spenta. Si passò la punta del Giardino, poi si costeggiò la Riva degli Schiavoni. Il campanile di San Marco usciva dai palazzi che lo circondavano e, illuminato dai fanali della Piazza, si alzava gigante, sfumandosi nella oscurità verso la cima e cacciando la sua punta nelle tenebre delle nubi.

La luce della Piazza mi abbagliò. I musaici della chiesa avevano sull’orlo delle strisce scintillanti. Le finestre spalancate delle Procuratie Vecchie lasciavano vedere le allegre sale illuminate. La loggia del Palazzo Ducale si perdeva in un’ombra opaca. Mezz’ora dopo, la mia madonnina inglese, sorridente, svelta, correva dietro al suo putto biondo fra le seggiole del Caffè Florian.

 

Camillo Boito - Quattro ore al Lido