Aspettando i cannibali
tra i fiori di cactus
«Il mio folle temerario giro del mondo», III° puntata
Continua inesorabile la demenziale crociera intorno al mondo del medico-scrittore pluripremiato Giorgio Bertolizio (ultimo riconoscimento il prestigioso Premio Nabokov) con la complicità della leggiadra consorte, la celebre modista Vera Storani. Indagando con acutezza e ironia sul passaggio tra mito e realtà sulle orme di Giulio Verne e sull’esempio del «Giornale di viaggio» di Michel de Montaigne, l’autore racconta il suo peregrinare città dopo città, Paese dopo Paese, con esiti ora esilaranti ora deprimenti. Ne vien fuori un originale e scriteriato diario di bordo. Volendo, potete leggere (o rileggere) le due puntate precedenti, richiamandole dalle pagine del nostro archivio elettronico, digitando semplicemente il loro titolo: «Il mio folle temerario giro del mondo» e «Dagli incubi di Gaudì ai fantasmi del Corsaro». Buona lettura.
PUERTO LIMÓN, 24 GENNAIO
Puerto Limón o Limón, affacciata sul Mar dei Caraibi, è una cittadina nata come porto commerciale nel 1871, cioè l’altro ieri. Dovrebbe essere, stando alle guide turistiche, l’esempio di uno straordinario cosmopolitismo pacifico per la convivenza degli indigeni, ammesso che esistano i discendenti dei Cariari, con spagnoli, inglesi, tedeschi, giamaicani, africani e persino cinesi. Questi ultimi ingaggiati, come mano d’opera a basso costo, dalle imprese ferroviarie di fine Ottocento, impegnate a collegare Limón con la capitale della Costa Rica: San Jose. Attualmente, la linea ferroviaria è in disuso e il cosmopolitismo sembra una fiaba.
Ho rinunciato a visitare San Jose perché avrei dovuto affrontare tre o quattro ore di pullman, su una strada piena di curve, per vedere, quale monumento principale, il Teatro Nazionale, inaugurato nel 1897, ossia centosessanta anni dopo il Teatro San Carlo di Napoli. Quale ingiusta punizione, quattro ore di pullman me le sono sciroppate lo stesso per ammirare bananeti, bananeti e bananeti. Delle decantate coltivazioni di cacao e caffè, invece, non ho scorto nemmeno l’ombra. Per trovare le piante di cacao, infatti, avrei dovuto recarmi nel villaggio di Pueblo Nuevo de Guácimo, nelle cui vicinanze si coltiva il cacao ‘biologico’, e per scovare quelle di caffè avrei dovuto visitare un’azienda situata in una valle immersa nella foresta pluviale. In entrambi i casi, avrei potuto accrescere la mia cultura apprendendo le tecniche di coltivazione, di raccolta, sgranatura e macinazione dei preziosi semi e avrei anche gustato la cucina locale. Poiché non ho mai avuto difficoltà ad apprezzare caffè e cioccolato da ignorante, delle foreste pluviali ne avevo a sufficienza, la cucina creola mi era bastata e la visita alla distilleria di rum mi aveva reso scaltro, ho deciso di recarmi da un’altra parte.
La meditata decisione mi ha permesso di notare che le piante di banane, messe in file sterminate, ispiravano la medesima allegria dei cipressi nei cimiteri e che l’azienda dove s’imballavano i caschi di banane era meno interessante di una qualsiasi falegnameria. Una crudele perfidia, però, nei confronti del folto gruppo di mattinieri cacciatori di banane sulla nave, le cui razzie devono aver convinto i camerieri che le scimmie sono una specie evoluta ed educata nel trangugiare il frutto esotico, giacché lo sbucciano partendo dal fondo con una tecnica raffinata. È stato, insomma, come trascinare un gruppo d’incalliti oppiomani in un campo di papaveri. Tuttavia, non immaginavo che mi sarebbe stata inferta la mazzata finale. Una vera e propria revolverata alla nuca. L’esecuzione è avvenuta con la visita a una struttura privata, che dovrebbe occuparsi di tutelare la flora e la fauna della Costa Rica. La flora, per fortuna, si difende da sola ma le silenziose sei scimmie urlatrici, i quattro pappagalli che sembravano appena usciti da un reparto di urologia, i tre gufi immobili con gli occhi fissi nel vuoto, tanto da sembrare impagliati, e i due bradipi, stancamente eccitati per l’arrivo dei turisti, non mi sono parsi ospiti felici di essere protetti, in gabbie anguste e indecenti. Invece, le tartarughe vermiglie e le iguane, per loro fortuna, probabilmente muoiono senza essere curate.
Sarebbe sciocco, però, soffermarsi sulle gabbie per animali o sulle condizioni di vita di quattro magre vacche bianche incontrate lungo il percorso, dopo aver visto una marea di abitazioni fatiscenti destinate agli esseri umani. Eppure, moltissime casupole di legno, con il tetto di lamiera, presentavano finestre e porte difese da robuste inferriate, nonostante fossero circondate da palizzate sormontate da rotoli di filo spinato. Giacché tali protezioni, presumibilmente, non sono realizzate per impedire la fuga dei proprietari, sorge il sospetto che i ladri siano numerosi e soprattutto disperati. L’evento più straordinario di Puerto Limón, a quanto dicono, è il Carnevale che culmina il 12 ottobre, per ricordare lo sbarco di Cristoforo Colombo, durante il suo quarto viaggio nel Nuovo Mondo, sulle coste occidentali della Costa Rica nel 1502. Essendo tale festa ritenuta dai locali non inferiore a quella di Rio de Janeiro, ammesso che costoro abbiano mai soggiornato in Brasile, c’è da domandarsi perché i costaricani continuino a commemorare gioiosamente l’arrivo dei loro colonizzatori e depredatori. In ogni caso, non mi ha nemmeno sfiorato il desiderio di partecipare all’annuale bolgia.
CANALE DI PANAMA, 25 GENNAIO
Il transito attraverso il Canale di Panama è stato davvero una sorta di navigazione terrestre non soltanto inconsueta ma anche affascinante e parecchio curiosa. Infatti, le navi non vanno soltanto in salita ma, a causa della conformazione dell’istmo di Panama, pur muovendo dall’Atlantico verso il Pacifico, alla fine del passaggio si trovano più a est del punto di partenza. I lavori per la sua realizzazione iniziarono nel 1907 anche se l’idea fu caldeggiata nel 1879 da Ferdinand de Lesseps, già costruttore del Canale di Suez, che fondò una società per raccogliere finanziamenti e iniziò i lavori secondo un progetto troppo complesso, senza l’impiego di chiuse. Ostacoli tecnici e finanziari, però, causarono il fallimento della società nel 1889. Perciò, fu il Genio Militare statunitense a intraprendere l’opera, conclusasi il 3 agosto 1914, anche se la solenne inau-gurazione ufficiale avvenne soltanto nel 1920, a causa della Prima guerra mondiale.
Le tre imponenti chiuse di Gatún, che consentono l’innalzamento delle navi di circa 27 metri, in doppio senso di marcia, dopo un secolo d’attività, sembrano create da un genio al confronto dei recentissimi tappeti mobili della Stazione Centrale di Milano che, se non sono guasti, sembrano creati apposta per rendere meno celere l’avvicinamento dei passeggeri ai treni. Per non parlare dello scivoloso Ponte della Costituzione, a Venezia, che d’inverno procura parecchio lavoro agli ortopedici. Per quanto riguarda la Stazione ferroviaria di Milano, mi è stato spiegato che il percorso tortuoso, dall’uscita della metropolitana ai binari ferroviari, serve a renderla un luogo dalla vivace vita commerciale. La necessità, dunque, di prendere un treno è soltanto un inconveniente collaterale che è stato impossibile eliminare. Per quanto concerne il ponte veneziano, invece, sorge il legittimo dubbio che, paradossalmente, la colpa sia degli acquirenti. Forse, l’architetto Calatrava l’aveva progettato pensando di rifilarlo a qualche emiro arabo. Nel deserto del Sahara, il ponte non causerebbe scivoloni.
Tornando al Canale di Panama, l’attraversamento del Lago Gatún, seguendo una rotta che si snoda in mezzo a una miriade di verdi isolotti, permette una visione ovviamente unica al mondo. Non è, altrettanto ovviamente, il panorama dei fiordi norvegesi ma si tratta di un paragone improprio. Dopo aver percorso un’ottantina chilometri in circa dodici ore di navigazione, superate le chiuse di Pedro-Miguel e di Miraflores, la nave è stata riportata a livello del mare con i suoi passeggeri al settimo cielo per aver assistito, mollemente spiaggiati sulle sedie a sdraio, alla straordinaria impresa.
PUERTO VALLARTA, 29 GENNAIO
Puerto Vallarta, ufficialmente fondata il 12 giugno 1851, da piccolo villaggio di pescatori è diventata una località balneare, dove americani e canadesi trascorrono gli anni del pensionamento prima di morire. Forse per tale motivo, dagli amanti del mare e dell’abbronzatura, è molto apprezzata la Spiaggia dei Morti, affollatissima di gente che non teme la iella e le malattie contagiose. Oggi il ritmo di vita della cittadina è frenetico rispetto al passato, se si tiene conto che per ultimare la Cattedrale di Nostra Signora de Guadalupe, risalente al XX secolo, sono stati impiegati dodici anni. Per stupire i visitatori, si narra che sue colonne interne sono state scolpite a mano. Come se i colonnati greci, egizi e romani fossero stati realizzati con macchinari moderni. A parte ciò, l’unico motivo per mettere piede nella chiesa è la devozione.
Il celebre Malecón, lungomare piuttosto corto, giacché si percorre a piedi in una decina di minuti, antistante alla chiesa, non è frequentato da bagnanti, perché le acque sono troppo pericolose, ma da un gruppo di grigiastri pellicani indispettiti forse perché i turisti, troppo occupati a fotografare quattro inutili archi in pietra o l’improbabile statua bronzea che raffigura un ragazzo a cavallo di un ippocampo, neanche fosse lo splendido bimbo sul destriero del Museo d’Atene, non li degnano di uno sguardo. La cittadina, nel suo insieme, però, è alquanto gradevole e rigurgita di ristoranti parecchio invitanti, almeno per i prezzi esposti. Al contrario dei negozi d’argento stampato in serie, cari come se fossero in via Monte Napoleone e con merce capace di far rivoltare nella tomba non soltanto gli antichi cesellatori italiani o gli argentieri britannici ma persino l’ormai troppo commercializzato Tiffany. Eppure, il Messico è il secondo produttore mondiale di argento dopo il Perù. Mi sono chiesto, perciò, quale tipo di clientela intendano sedurre con oggetti mostruosamente pacchiani, senza trovare una risposta sensata. Così come non sono stato capace di capire come rie-scano a campare i venditori di souvenir nei mercatini dei vari porti, che espongo le medesime scadenti mercanzie come in qualsiasi scalcinata fiera di paese.
Oddio, il turismo di massa costituisce una buona garanzia del cattivo gusto, tanto che a Venezia si continuano a vendere piccole gondole di plastica con carillon. Il pensiero che una persona, dopo aver compiuto il giro del mondo, torni a casa con un sombrero bianco, rosso e verde, oppure con un finto boomerang, è un deterrente che comporta un’autocritica parecchio dolorosa. Il fascino, infatti, delle paccottiglie etniche è, in alcuni momenti, irresistibile. Sicché è davvero improbabile che i cosiddetti ricordi dei viaggi si limitino a fotografie, cartoline oppure alle ottime mandorle tostate e caramellate che ho acquistato a Puerto Vallarta, vincendo il timore d’incorrere in una gastroenterite acuta. Naturalmente, non racconterò a nessuno di essere tornato dal Messico con un cartoccio di noccioline. Per il resto, nella cittadina, c’è talmente poco da vedere che, ai turisti di passaggio, si offre la possibilità di nuotare, a pagamento, per quaranta minuti con i delfini, mettendo a disposizione un delfino ogni cinque persone. In alternativa, si può affrontare l’avventura, sempre a pagamento, di giocherellare per venti minuti con i leoni marini, che si dice siano parecchio puzzolenti. Attraversare l’oceano per attività del genere, mi è parso davvero insulso.
Forse, sarebbe stato più interessante visitare San Sebastian, un paesino di 600 anime incastonato nella Sierra Madre, che ebbe il suo apice di prosperità nel XVIII secolo. Definito un ‘museo vivente’, dubito, però, che sia autentico tanto quanto i pellirosse nei film western. Quasi romantico è stato lasciare la piccola baia di Puerto Vallarta all’imbrunire.Nulla a che vedere, però, con la partenza notturna dal porto del Pireo o con l’arrivo a Istanbul quando le prime luci del giorno fanno risplendere le cupole del Topkapi, mentre una sottile nebbia avvolge ancora il Bosforo.
CABO SAN LUCAS, 30 GENNAIO
La visione della spiaggia di El Arco, simbolo della città, con l’arco naturale e gli imponenti faraglioni sarebbe indimenticabile se lungo la baia non fosse sorto un complesso di condomini orrendi. Ma, in Italia, esistono esempi ancora peggiori di panoramiche devastazioni. Dalla presentazione ufficiale risulta che, stando alla descrizione del naufrago giapponese Hatsutaro, Cabo San Lucas nel 1842 contava due case e una ventina d’abitanti. Giacché, a quanto pare, le prime tracce d’insediamenti umani nella zona risalgono a 14.000 anni fa, è difficile ritenere che il luogo fosse un paradiso terrestre. I primi coloni europei, infatti, vi trovarono soltanto i nomadi della tribù dei Pericúes, miserabil-mente ancora fermi al felice periodo Neolitico. Agli inizi del XX secolo, tuttavia, alcuni imprenditori statunitensi v’installarono una piattaforma per la caccia al tonno. La pesca sportiva fu, dunque, il primo passo per scatenare lo sviluppo turistico della cittadina con edificazione, direttamente sulle spiagge, di complessi alberghieri enormi, creazione di campi da golf e apertura di bar, ristoranti e bettole per realizzare alla fine il sogno americano del luogo di vacanza low-cost: barbecue sulla spiaggia, pinte di birra nel frigidaire portatile e un repertorio di barzellette sceme.
Sogno che, a Cabo San Lucas, culmina con la competizione più famosa al mondo di pesca al marlin, una sorta di pesce spada che rischia l’estinzione, a causa degli ‘sportivi’ che lo catturano e poi nemmeno lo mangiano. Naturalmente, non tutti gli americani affrontano lo sforzo fisico richiesto per prendere questi grossi pesci all’amo e preferiscono osare l’emozionante caccia fotografica alle balene, nel loro passaggio dal Mare di Cortés all’oceano Pacifico. Ragguagli più che sufficienti per farmi decidere di visitare la non distante San Jose del Cabo. Durante il percorso, già alla prima tappa avrei dovuto intuire che mi ero illuso di vedere un luogo non contaminato dal turismo. È stata, infatti, una sosta del cactus nel senso letterale della parola, giacché in Messico non mancano certamente deserti con cactus o cactus circondati dal deserto. Abbiamo visitato, infatti, un vivaio di cactus, dall’aspetto cimiteriale. Una combinazione, all’incirca, tra un parco delle rimembranze e Redipuglia, con tutto il dovuto rispetto per i soldati defunti.
Di per sé, un vivaio di fiori è deprimente ma osservare file di cactus tutti uguali, a parte quelli ingialliti, emoziona tanto quanto guardare un campo di carciofi che, almeno, sono commestibili. San Jose del Cabo è una cittadina pulita, in cui gli edifici più importanti sono il palazzo comunale e la chiesa. La sede del Comune interessa i turisti perché offre servizi igienici pubblici, mentre la visita della chiesa non merita lo sforzo di salire la gradinata d’accesso. I negozi presentano la solita sfilza di oggetti spacciati per artigianato locale, come santini di plastica o bicchieri di vetro ‘soffiato’, che pesano un quintale, e altre cianfrusaglie. Dei celebri manufatti messicani in argento non ho scorto l’ombra, ma soltanto oggetti stampati in serie. La celebre ‘via dell’argento’ passa proprio da un’altra parte. Però, finalmente, ho avuto il primo incontro con un frutto esotico: il mango. Stava dentro un bicchierone sommerso da ghiaccio tritato e tequila. Assolutamente originali, invece, sono le minuscole farmacie locali: vendono tanto la colla epossidica (kola loka) quanto il Viagra, senza bisogno di ricetta medica.
SAN DIEGO, 1° FEBBRAIO
Sono sbarcato a San Diego soltanto per cenare a casa di mia figlia, accolto da un sole splendido e da gabbiani, grossi come tacchini, che si muovevano impettiti con andatura tipicamente statunitense. Deve essere stato proprio un colpo di sfortuna la tempesta che, il 28 settembre 1542, costrinse l’esploratore portoghese Juan Rodríguez Cabrillo a cercare riparo con la sua nave nella baia che, probabilmente, gli parve inospitale. Difatti, passarono esattamente sessant’anni prima che un secondo europeo, lo spagnolo Sebastián Vizcaíno, battezzasse la località con il suo nome attuale, essendovi sbarcato nel giorno della festa di san Diego de Alcalà. Nondimeno, trascorse ancora più di un secolo e mezzo prima che gli spagnoli, con il missionario francescano Junípero Serra, già docente di filosofia a Palma di Maiorca e di teologia a Città del Messico, vi fondassero una missione cattolica per salvare le anime dei nativi, della cui esistenza i segni tangibili rimasti sono evanescenti. Il motivo per cui i francescani scelsero di affidare tale compito a un professore universitario è presto detto.
Il 2 febbraio 1769, calò nella tomba papa Clemente XIII che era in procinto di firmare il decreto di soppressione della Compagnia di Gesù, lasciando la patata bollente tra le dita tremanti del proprio successore, il francescano Clemente XIV. I gesuiti, la cui vita era ormai difficile in tutta Europa, erano già stati scacciati, con decreto promulgato il 27 febbraio 1767 da Carlo III di Borbone, dalla Spagna e dai suoi possedimenti oltremare, per le loro pesanti interferenze in politica interna e per le enormi ricchezze che avevano accumulato. I francescani spagnoli, principali concorrenti, insieme ai domenicani, dei gesuiti nell’opera missionaria, si fecero in quattro per sostituirli nella ventina di missioni che avevano fondato lungo le coste della California. A organizzare un’operazione di tali dimensioni non potevano destinare, ovviamente, un parroco di campagna. Perciò, scelsero un uomo non soltanto colto ma anche gran predicatore.
Junipero Serra giunse a San Diego il 1° luglio 1769, scortato da un folto gruppo di armigeri agli ordini di Gaspar de Portolá, che in precedenza aveva scrupolosamente applicato le disposizioni del proprio sovrano. L’attività di padre Serra si rivelò frenetica, tanto che egli creò, direttamente o indirettamente, una quindicina missioni prima di morire settantenne per il morso di un serpente. Evento nel quale sarebbe irriverente cogliere lo zampino di sant’Ignazio di Loyola, anche se nel medesimo anno se ne andò all’altro mondo Gaspar de Portolá. Nelle missioni realizzate da padre Serra, però, sembra che lo spirito francescano non abbia dimorato. Pare, infatti, che gli indigeni vi siano stati introdotti con la forza e, dopo essere stati battezzati, sarebbero diventati schiavi in campi di lavoro, frustati, marchiati a fuoco o mutilati in caso di disobbedienza. Secondo i cattolici, si tratta di maldicenze diffuse dai protestanti per ragioni concorrenziali. Difatti, padre Serra, il 25 settembre 1988, è stato beatificato.
Avevo soggiornato per circa un mese una decina danni fa, nella città di San Diego, che come la maggior parte di quelle statunitensi, per un europeo, non è tale. In San Diego non esiste un centro urbano, dove recarsi — come in Italia — la domenica o nei giorni festivi, ma si trovano molti centri commerciali adatti agli acquisti compulsivi. Senza dubbio, il grandioso Ponte di Coronado è architettonicamente affascinante, così come il Sea World, che ospita mammiferi marini e pesci, insieme a oltre 100 specie di uccelli per tener loro compagnia, è giustamente famoso in tutto il mondo. Non gli è da meno lo zoo, collocato nel Balboa Park, che affascina tutti quelli che amano ammirare i panda giganti e altri animali rari, o in via di estinzione, in una molto agiata ma non meno triste prigionia. Bisogna, però, ricordare che, fino alla metà del XIX secolo, San Diego era un villaggio senza pretese, con qualche centinaio d’abitanti, i cui miseri avanzi sono visibili in Old Town, poiché il boom delle miniere aurifere, esploso nel 1869, fu effimero. Lo sviluppo economico e la crescita demografica, insomma, avvennero grazie alla speculazione edilizia. Fu Alonzo Horton, infatti, a intuire le potenzialità del luogo, lottizzando 385 ettari di terreni incolti prospicienti il mare.
L’insediamento di una base militare navale, l’interesse dei surfisti e la pubblicità cinematografica, che ha reso mitico l’Hotel Coronado, di raffinatezza discutibile, con il film A qualcuno piace caldo, hanno fatto il resto. Non meno decantato è il quartiere Gaslamp, ossia un paio di vie nella Down-town, dove i turisti possono estasiarsi guardando vecchi lampioni. Personalmente, durante il primo soggiorno, avevo trovato davvero incredibile la varietà di pomodori venduti nei supermarket: rossi, gialli, arancione, verdi, viola o blu ma tutti con il medesimo sapore che non è di pomodoro. D’altra parte, anche il basilico californiano ha un sapore che assomiglia alla mentuccia. In compenso, mi è rimasto il sospetto che le introvabili celebri prugne della California crescano e maturino direttamente in scatola. Per mia fortuna sono allergico ai solfiti e non mi sono mai intossicato con i decantati vini californiani non pastorizzati. Anche questa volta, dunque, a casa di mia figlia, ho bevuto un eccellente vino prodotto in Francia.
LOS ANGELES, 3 FEBBRAIO
È impossibile, o forse inutile, descrivere Los Angeles perché, se San Diego non è una città, Los Angeles è un non luogo. Sarebbe come dire che si risiede in Lombardia. A Los Angeles, infatti, si può dimorare a Long Beach oppure a Hollywood, due quartieri tra loro distanti quanto Bergamo da Brescia. Forse, già i primi quarantacinque coloni messicani intuirono che sarebbe diventata un agglomerato abitativo sterminato, affibbiandole, il 4 settembre 1781, un nome chilometrico: El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Angeles sobre El Rio Porciúncola de Asís. Un sito individuato, una decina d’anni prima, dal frate francescano Juan Crespi, conterraneo di padre Serra, quale luogo adatto all’insediamento di una missione cattolica. Lo spirito missionario è rimasto negli abitanti di Los Angeles, con un nascosto intento: convertire i visitatori al cattivo gusto. Il contrasto, infatti, tra bellezze naturali e opere umane è semplicemente gigantesco.
L’enorme distesa di Los Angeles si può ammirare dalla collina sulla quale è collocato l’Osservatorio Astronomico Grif-fith, se non si è distratti, come mi è capitato, dai preparativi di un party popolare, una sorta di ‘festa de la fritola’. Da questo straordinario punto d’osservazione si vede anche benissimo che la famosa scritta Hollywood, collocata su un arido dirupo, è soltanto un’enorme insegna pubblicitaria dietro, sotto e sopra la quale non c’è un bel niente. L’Hollywood Boulevard attira, inevitabilmente, i nostalgici della grande cinematografia americana del secolo passato. La dimensione delle impronte delle mani e delle scarpe, impresse nel cemento dinanzi al Teatro Cinese, di attori ormai defunti, è l’elemento che li fa maggiormente fremere. Vederli estatici di fronte al vuoto, ossia a vecchi buchi, è commovente e crea una sorda irritazione di fronte a tutto il resto: una pacchiana buffonata. Per leggere tutti i nomi, più o meno conosciuti, dei personaggi dello spettacolo, riportati sulle migliaia di stelle a cinque punte che cospargono i poco frequentati marciapiedi dell’Hollywood Walk of Fame, ci vorrebbe una giornata dedicata all’inutile. Molte sono ancora senza scritta e, con un po’ di cautela, avrei potuto tranquillamente aggiungere il nome mio o di qualche amico.
Sul celebre Sunset Boulevard e le sue svettanti palme, il sole sembra tramontato ormai per sempre. Distributori di benzina, autolavaggi e negozi dozzinali hanno cancellato l’atmosfera peccaminosa dei pochi locali a luci rosse ormai rimasti. C’è quasi da immaginarsi che a esporre le proprie grazie siano repliche di Clarabella inventata da Walt Disney, con un gran consumo di silicone, fondo tinta e biancheria intima passata di moda da decenni. Ville e villini di Beverly Hill, emblema assoluto di ricchezza, circondati da giardini la cui erba sembra tagliata con un rasoio elettrico, sono la sontuosa esposizione degli stili architettonici sparsi in mezzo mondo: case di campagna britanniche, colonnati greco-romani, tetti spioventi da Foresta Nera, verande messicane e archi metafisici si rincorrono a perdifiato, senza segni di attività da parte di esseri viventi. C’è quasi da supporre che i loro inquilini non vogliano mescolarsi, come le divinità dell’Olimpo, con la gente comune, oppure che stiano nascosti a spiare l’invidioso stupore dei passanti, tranne che non siano stati precocemente imbalsamati. Sicché, non ho avuto difficoltà a reprimere il desiderio di recarmi sui canali di Venice e a sdraiarmi sulla Muscle Beach, per sfoggiare bicipiti, glutei e muscoli addominali che non possiedo. Il decantato traffico scorrevole sulle larghe e lunghe auto-strade, che da Los Angeles sembrano dirigersi verso il nulla, invece, non è una fiaba. Tranne che nelle ore di punta, quando i veicoli sono immobili come negli altri paesi meno evoluti.
SAN FRANCISCO, 5-6 FEBBRAIO
Dopo Los Angeles, la vista di San Francisco è quasi una sorpresa. Forse, però, ritenerla la più bella città del mondo, tra quelle con grandi baie, è esagerato. Così come esaltarne il clima, la cucina e i vini sarebbe eccessivo. Gli inverni sono freddini e piovosi, le estati sono fresche e nebbiose, le acque sono gelide, i piatti tipici non sono sublimi e i vini sono strabocchevoli di solfiti. Che Marc Twain abbia giudicato l’estate di San Francisco l’inverno più freddo della sua vita è una fandonia verosimile. Tuttavia, non si può cercare l’impossibile in una città nata, sostanzialmente, un secolo e mezzo fa. Intorno al 1850, infatti, San Francisco contava circa 25.000 abitanti. Con questo pregiudizio, ho deciso di rinunciare a un cosiddetto percorso intelligente, ossia con approfondimenti culturali, per dedicarmi soprattutto alla visione più convenzionale e sciocca: quella di Chinatown. Sciocca fino a un certo punto perché, il giorno successivo, percorrendo il Golden Gate Park, mi sono reso conto che non avrei visto niente d’interessante nel Museo delle Belle Arti, anche se ho colto la incredibile occasione di ammirare una mandria di annoiati bisonti deperiti e un cimiteriale giardino in stile giapponese.
A Chinatown ho scartato subito il proposito di recarmi in un ristorante, dopo aver ispezionato attentamente le rivendite alimentari della via principale (Grant Street) che, esclusi i feti sotto alcol, paiono succursali di un museo di Storia Naturale e al cui confronto quelle esistenti in Italia sembrano luoghi di alta gastronomia francese. Varcare, invece, la soglia degli altri negozi o delle gioiellerie richiede parecchia pazienza, se si ha l’imprudenza di chiedere il costo di un articolo qualunque. Il prezzo iniziale è esorbitante anche per un grullo in libera uscita ma, dopo l’inevitabile rifiuto, i venditori cinesi diventano appiccicosi, proponendo sconti progressivamente privi di senso. Le perle coltivate giapponesi sono carissime, forse per secolare odio tra le due etnie oppure puzzano d’imbroglio, l’acquisto di oggetti d’avorio di elefante, di mammut, d’ippopotamo o di qualcosa che sembra tale richiede competenza, gli abiti tipici sono dozzinali, i monili di giada, che quando non sono di plastica, non hanno visto la mano di un incisore nemmeno da lontano e l’orgia dei souvenir kitsch non ha limiti né confini.
Eppure, dinanzi alle ceramiche e porcellane, mi sono arreso. Aspetterò, però, il ritorno a casa per aprire gli ingombranti pacchi e stabilire se ho acquistato tartufi oppure rape. Scartati quelli cinesi, mi sono consolato con una zuppa di mitili e crostacei in un ristorante in apparenza, per il nome e per la bandiera riportata sull’insegna, a gestione italiana. Sennonché erano soltanto tracce di un ricordo lontano. I camerieri, però, non avevano soltanto alcuna conoscenza dell’Italia ma nemmeno del nome delle vie d’intorno. Alla fine, ormai sfiancato, ho rinunciato a percorrere Lombard Street, definita la via più serpeggiante del mondo, ossia 400 metri di curve tra le aiuole. Non ho avuto nemmeno la forza di salire sulle vetture della celebre funicolare che, nonostante il nome, sembra una tramvia. Ho rinviato a un improbabile futuro la visione notturna di Broadway Street, decantata per i locali di spogliarello e topless bar, ultimi belati di un’epoca ruggente. Così come ho rinunciato a visitare Alcatraz. Entrare in una prigione a pagamento mi è sembrato stravagante, mentre presentare la cella, dove ha dormito Al Capone, per una sorta di Santo Sepolcro mi è parso sconveniente.
In sostanza, avendo a disposizione soltanto una giornata e mezzo, mi sono limitato, in primo luogo, a percorrere il Golden Gate Bridge, il cui colore è però arancione, avvolto nella nebbia. Il ponte, che collega l’oceano Pacifico alla Baia di San Francisco, dal 1937 sopporta un inteso traffico ed è molto frequentato dai suicidi. Tanto che sono state elaborate precise informazioni per l’uso: la durata del salto è di quattro secondi e si tocca l’acqua alla velocità di 120 chilometri l’ora. Poi, dopo aver ammirato l’assurdità delle case vittoriane sopravvissute al terremoto del 1906, ho reso un breve omaggio, nel quartiere di Haight-Ashbury, alla memoria di beatnik e hippies defunti prima di diventare obesi. L’ultramoderna Cattedrale cattolica di Santa Maria Assunta mi ha inferto, infine, il colpo di grazia. È talmente avveniristica da generare la sensazione che da qualche invisibile confes-sionale possa uscire un alieno. Particolare curioso: sotto i bassorilievi della Via Crucis sono collocate le uscite d’emergenza. La salvezza momentanea, combinata con quella eterna.
Tuttavia, mi piacerebbe rivedere San Francisco se non fosse collocata in tanta malora e nonostante il ricordo di averla lasciata sotto la pioggia battente, per fare rotta verso le Hawaii sperando in un clima migliore. Invece, nei giorni successivi, abbiamo incontrato nebbia fitta, come si trova nella bassa padana, e una temperatura esterna talmente rigida da istillarmi il sospetto che il comandante della nave avesse sbagliato direzione e ci stesse portando a vedere i pinguini al Polo sud.
HONOLULU, 11-12 FEBBRAIO
Uscito sul balcone della mia cabina, ancora insonnolito, ho creduto d’essere arrivato a Manhattan. Poi, mi sono accorto che i grattacieli gemelli, che stavo osservando e che mi sembravano usciti da una scatola di Lego, non erano tanto alti e ho capito d’essere giunto sull’isola di Oahu e precisamente a Honolulu capitale delle Hawaii, le terre emerse più isolate del mondo se si valuta la loro distanza dalla costa americana e dalle isole Kiribati (tre arcipelaghi, costituiti soprattutto da atolli, molto conosciuti da chi consulta le carte geografiche). In effetti, Honolulu è una bella città statunitense, sul tipo di San Diego, con ampi viali, giardini curati, vasti parchi e una splendida vegetazione di palme e maestosi alberi, con enormi chiome a ombrello, i cui tronchi talvolta contorti sembrano sculture create da un grande artista moderno. Perciò, con il solito pregiudizio, ho deciso che in città non c’era niente d’interessante da vedere, compresa la celebre spiaggia di Waikiki, ombreggiata dai grattacieli, e ho deciso di compiere la visita più turistica, nel senso deteriore della parola, che si possa immaginare. Mi sono recato, infatti, a visitare il Centro Culturale Polinesiano, distante un’oretta di macchina da Honolulu. Con enorme sorpresa, il mio pessimismo è stato annientato.
Innanzi tutto, lungo il percorso ho finalmente visto un panorama ‘caraibico’: chilometriche spiagge bianche, assolutamente deserte, con palme e tappeti erbosi, che giungono quasi fino alla battigia, dinanzi ad acque azzurre e cristalline. Di ristoranti per gente normalmente ghiotta, però, non ho visto nemmeno l’ombra e le piccole bettole che propongono gamberi freschissimi, allevati in acquitrini, offrono soltanto ed esclusivamente bevande analcoliche. Immagino che, dopo una settimana di vita primitiva e di romantici tramonti, il desiderio di un banale piatto di spaghetti con le vongole diventi prepotente. Nel nord dell’isola, la Waimea Bay Beach, meta ambita dai surfisti, mi è sembrata invece un luogo frequentato da vacanzieri dalle pretese modeste o da acquirenti di surf di seconda mano. Probabilmente, non era la giornata adatta perché nella quasi deserta baia avrebbero potuto far bella figura anche i gondolieri veneziani. Tornando al Centro Culturale, tutto quello che si vede nel grande villaggio è, ovviamente, finto ma di un garbo straordinario. Certamente, dopo questa visita, nessun italiano si metterà a impastare farina di cocco per fare il pane. I maialini cotti in buche scavate nel terreno, prelibatezza culinaria hawaiana, sono ottimi anche in Sardegna. Stuoie e cestini intrecciati a mano non sono, ovviamente, opere da lasciare senza fiato. Nondimeno, la spontanea cortesia dell’accoglienza e un’organizzazione che, pur gestendo migliaia di visitatori ogni giorno, maschera gli aspetti rattristanti di uno zoo umano, hanno avuto, almeno ai miei occhi, il sopravvento. Infine, lo spettacolo serale, con un cast eccezionale di un centinaio d’artisti, che può competere con quelli del Cirque du Soleil e del Moulin Rouge, è stato davvero avvincente. Anche se il can-can, rispetto al tamurè, è un’altra cosa.
Sarà triste, ma senza queste esibizioni del mito polinesiano non resterebbe più niente. Ne ho avuta una riprova quando sulla nave, dopo l’abbandono del porto, è esplosa la ‘serata hawaiana’ con i passeggeri, che a dispetto del proprio fisico, tentavano penosamente d’imitare, in maniera invereconda, le movenze delle danzatrici e dei danzatori hawaiani. Uno spettacolo tanto spumeggiante quanto un cimitero di lavatrici usate. Insomma, non intendo dire che Honolulu merita di essere visitata solo per questo, ma poco ci manca. La sensazione più intensa, tuttavia, è l’aver percepito negli hawaiani lo spirito dell’accoglienza sorridente e sincera. James Cook, cui è attribuita la scoperta ufficiale delle Hawaii nel 1778, da lui battezzate Isole Sandwich in onore del suo armatore John Montagu, 4° conte di Sandwich, probabilmente non deve averla pensata nella stessa maniera e soprattutto non immaginava che, in questo paradiso terrestre, sarebbe stato affettato come un salame durante il suo terzo viaggio transoceanico. Il 14 febbraio 1779, infatti, presso la baia di Kealakekua, ebbe un alterco con un gruppo d’indigeni che gli avevano rubato una piccola scialuppa. Malefatta superabile in modo pacifico, soprattutto perché, inizialmente, sembra che Cook fosse stato scambiato per Lono, il dio hawaiano della fertilità. Non esistono, però, cronache circa particolari doti in materia manifestate dall’audace esploratore.
Cook, nella circostanza, travolto da un’incontenibile furia, fece fuoco con il proprio fucile, a quanto sembra caricato a pallini per non uccidere, colpendo un hawaiano che, con le natiche ridotte a un colabrodo, lo accoltellò a morte. Cook era un navigatore provetto e straordinariamente esperto è nessuno riuscì a spiegare il suo comportamento. Viene in mente, però, che nemmeno un uomo dei suoi equipaggi era mai morto di scorbuto, perché obbligava i propri marinai a ingozzarsi di agrumi e crauti. Seguendo probabilmente il medesimo regime alimentare, negli ultimi tempi, aveva cominciato a soffrire di violenti dolori allo stomaco con improvvisi sbalzi d’umore. Presumibilmente, l’ultima crisi di gastrite acuta gli fu fatale. A Honolulu è continuata la mia vana ricerca di frutta esotica, ossia mango, papaia, avocado e maracuja. Ho avuto il sospetto che persino il decantato dolcissimo ananas del luogo, coltivato in maniera intensiva, si trovi soltanto a Milano.
Imprevedibilmente, l’ultima immagine che ho avuto di Honolulu è stata funebre. Mi sono recato, infatti, a visitare il Byodo-In Temple, una recente replica in scala 1 a 50 dell’omonimo tempio di Kioto, risalente al XI secolo. Il tempio buddista, frequentato soprattutto, se non esclusivamente, dai turisti, si specchia in un laghetto dove sguazzano enormi carpe rosse, forse alimentate con anabolizzanti perché di dimensioni di poco inferiori alle cernie. La strada che conduce al santuario, però, si snoda attraverso verdi e ameni prati, cosparsi di croci e lapidi. Si tratta di cimiteri cristiani, ebraici o di altre fedi, che di per sé non sono luoghi allegri. Ma quello giapponese fa passare la voglia di entrarvi anche da defunti.
Partendo dalle Hawaii, mi sono accorto che della geografia dell’Oceania, giacché l’arcipelago hawaiano appartiene alla Polinesia, non mi ricordavo quasi niente. Perciò, vergognandomi come un ladro, per rinfrescarmi la memoria, di nascosto da mia moglie, ho cominciato a navigare come un naufrago su internet. Sennonché, i miei ricordi confusi sono diventati opachi. L’Oceania, infatti, secondo la suddivisione poco scientifica proposta da Jules Dumont d’Urvilles nel 1831, comprende la Polinesia, la Micronesia e la Melanesia cui, se si assegna la Nuova Zelanda alla Polinesia, va aggiunta l’Australia che vorrebbe essere considerata un continente. Molti geografi, invece, preferiscono parlare di Oceania Vicina (Australia, Nuova Guinea, Isole Salomone) e Oceania Lontana (Polinesia, Micronesia, Melanesia) secondo un criterio di lontananza e vicinanza che sfugge ai profani. Naturalmente mi riferisco a persone che spesso confondono Haiti con Tahiti. In breve, ho ricavato il seguente riassunto. La Polinesia, tolte alcune isole a sé stanti, come quella di Pasqua e Pitcairn, annovera una ventina di raggruppamenti insulari e i più noti sono l’Arcipelago delle Hawaii e l’Arcipelago delle Nuova Zelanda. La Micronesia, invece, è composta soltanto da un centinaio di piccole isole, come le Marianne o le Marshall. La Melanesia, infine, comprende l’estesa Nuova Guinea e le più piccole Nuova Caledonia, le Isole Figi, le Isole Salomone e le Isole Vanuatu, oltre all’Arcipelago delle Bismarck. Dopo quest’approfondimento, ho sono caduto in un comico sconforto mentale perché la nave, iniziati quattro giorni di navigazione senza scali, si stava dirigendosi verso Pago Pago, capoluogo dell’isola di Tutulla appartenente all’Arcipelago delle Samoa. Perciò, percorsi quasi duemila chilometri dopo Honolulu, mi sarei trovato ancora in Polinesia, ossia nell’Oceania Lontana, prima di arrivare in Australia, in altre parole nell’Oceania Vicina. Tutta colpa della mia deprecabile ignoranza perché, da irremovibile sedentario, le esplorazioni marittime, così come le imprese alpinistiche, non mi hanno mai interessato, fino al punto di trascurare che i primi esploratori veleggiarono in senso inverso alla rotta della nave che mi ospitava.
PAGO PAGO, 17 FEBBRAIO
Durante la navigazione verso le Isole Samoa, ho registrato tre eventi straordinari: abbiamo attraversato l’equatore con tanto di certificato del comandante; dopo un mese sono riuscito a radermi usando la mano destra; superati i quaranta giorni di navigazione, è cessata, da parte dei passeggeri, la caccia alle banane mentre è iniziata quella alle prugne fresche oppure secche, suscitando nella mia mente immagini terrificanti. Per festeggiare l’avvenimento più importante, che non riguardava il destino dei miei peli e i ritmi intestinali dei viaggiatori, sulla nave è stata organizzata la cerimonia del battesimo dell’equatore, con l’intrepido impegno di un marinaio mascherato da dio Nettuno, in maniera talmente grottesca, soprattutto per la parrucca riccioluta bionda, che bisogna rendere grazie al dio degli Oceani per non aver scatenato una bufera. Forse, l’abnegazione del marinaio l’aveva intenerito. Una manifestazione, però, rivelatasi molto commovente, per i nostalgici delle riunioni leghiste a Pontida, che ha illuminato la mia mente. Mi sono reso conto, infatti, che viaggiando verso l’ignoto non stavo vivendo un’avventura bensì una commedia.
Mentre la cerimonia raggiungeva l’acme, con mestolate d’acqua sulla testa dei battezzandi, mi sono precipitato in cabina per guardare il buco di scarico del lavandino dopo l’apertura del rubinetto. Avevo letto, infatti, che nell’emisfero australe la rotazione dell’acqua attraverso la via d’uscita di un lavabo avviene con rotazione antioraria, ossia nel senso opposto di quanto capita nell’emisfero boreale. Dopo numerose prove, mi sono persuaso che non succedeva nulla di diverso rispetto alla partenza. Forse, a girare in senso antiorario sarà qualcosa d’altro.
Il primo europeo a porre piede sulle Isole Samoa, nel 1722, fu Jacob Roggeveen, un disinvolto navigatore olandese che si fermò giusto il tempo per imporre il nome all’arcipelago. Parecchio interessato a profitti illeciti, a danno della Ducht East Indies Company per la quale lavorava, non poteva trastullarsi su isole che nulla avevano da offrire. Probabilmente, essendo soprattutto un grande navigatore, come predone valeva tanto quanto un ladro di galline. Difatti, la Compagnia si adoperò parecchio per la sua scarcerazione e pagò il compenso dovuto al suo equipaggio. Le Isole Samoa, nella seconda metà del XIX secolo, divennero terreno di disputa soprattutto tra Stati Uniti e Germania che, con il Trattato di Berlino del 1899, se le spartirono: gli statunitensi ebbero quelle occidentali e i tedeschi quelle orientali. Oggi, le Samoa Orientali sono ancora in mani americane, mentre le Samoa Occidentali costituiscono uno Stato indipendente. Pago Pago è il capoluogo dell’isola di Tutulla, la più popolosa delle Samoa appartenenti agli Stati Uniti che, in passato, vi hanno riversato un numero di Marines tale da superare la popolazione locale e, con grande intelligenza e rispetto del paesaggio, hanno progressivamente trasformato, salvo alcune catapecchie, l’esotico villaggio polinesiano in paesotto moderno che si estende lungo la piccola baia. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, il 30 settembre 2009 Pago Pago è stata investita da uno tsunami e conseguente terremoto di 8,2 gradi della scala Richter che, generando un declino del flusso turistico, le ha inferto un colpo mortale. Il villaggio, infatti, appare semideserto e non offre, se si esclude un Mac Donald’s, qualcosa che assomigli a un ristorante e nemmeno a un’osteria.
D’altronde, in tutta l’isola, esistono soltanto due alberghi e un cinematografo. Secondo un censimento del 2000, i suoi abitanti superavano di poco i quattro mila. Oggi, probabilmente, sono parecchi di meno e la maggior parte accorre al porto, quando vi attracca qualche nave da crociera, per vendere stancamente quanto di meglio ha da offrire, ossia quanto di peggio ci si possa aspettare. Si dice, però, che la gente di domenica si risvegli dall’apparente torpore, per recarsi a messa tre o quattro volte nella giornata. Effetti eccitanti della devozione. L’isola, molto verde per l’estensione delle solite foreste pluviali, merita di essere visitata soltanto se si ha tempo da perdere. Ho capito subito, e non bisognava essere dei fenomeni per capirlo, quando la prima sosta del tour organizzato è avvenuta per ammirare, neanche fosse il Partenone, un campo da golf, gioco tipicamente polinesiano. Tuttavia, un’usanza davvero curiosa mi ha colpito. La legge permette di seppellire i parenti nel giardino che circonda la propria casa. Talché, in tutto il territorio, si possono osservare minuscoli cimiteri privati, con lapidi o addirittura con piccoli mausolei. Ho tentato di sapere che cosa succede nel caso che i viventi cambino residenza e mi è stato risposto che i morti rimangono dove sono stati messi.
Francamente, si può capire che qualcuno voglia vedere la propria casa con arredamento cimiteriale compreso, ma che qualcuno acquisti un’abitazione con dinanzi all’uscio la tomba del bisnonno di uno sconosciuto mi pare inverosimile. La perplessità mi rimarrà per sempre, perché a Pago Pago mai più rimetterò piede. La giornata nuvolosa e piovosa è però terminata in modo irripetibile. Nel senso che non la ripeterei nemmeno a pagamento. Avremmo dovuto poter osservare lo stile di vita, passata e presente, in un villaggio dell’isola. Il villaggio, in realtà, non esisteva. Si trattava, infatti, di un accampamento, dove è stata inscenata una sorta di ‘Prova del Cuoco’, in versione campestre, conclusasi con l’assaggio di cibi locali incommestibili che mi sono ben guardato dall’ingerire. Ho solamente portato alle labbra una bevanda, servita in un bicchierino di plastica, spacciata per cioccolata. Forse, nelle Samoa, le fave di cacao sono conservate nella sabbia. Anche a Pago Pago, la mia ricerca di frutta esotica è stata un fallimento: ho visto soltanto noci di cocco, ananas raggrinziti, banane dal verde intenso e papaye acerbe. In compenso, nel museo locale, che espone alcune vecchie piroghe rifatte e altri avanzi del genere, ho assaggiato la ‘kava’, una bevanda sacra, prodotta con un complicato rituale dalle radici di menta selva-tica (Piper Methysticum Forster), dagli effetti inebrianti e afrodisiaci ed efficace contro molti malanni, dai calli alle malattie veneree. Purtroppo, mi è sembrata acqua lattiginosa sporca che non sapeva nemmeno di menta. Non escludo che sia una panacea ma, forse, bisogna berne alcuni litri.
In partenza da Pago Pago mi si è posto un altro problema culturale. Se ho stentato a capire perché, provenendo dagli Stati Uniti, s’incontra prima l’Oceania Lontana dell’Oceania Vicina, la questione del cambio di data mi ha messo in serio imbarazzo, quando sulla nave ci è stato comunicato che alle ore 00,00 del 18 febbraio saremo passati alle ore 00,00 del 19 febbraio, perché compiendo il giro del mondo, nella stessa di-rezione del sole, si accumulano 24 ore ‘doppie’ (sic!). Paradosso del quale si resero conto per primi i sopravvissuti della spedizione di Ferdinando Magellano. I marinai della nave Victoria, infatti, arrivati alle Isole Azzorre dopo aver circumnavigato il globo ed essersi regolati sull’ora solare, credevano che fosse mercoledì 9 luglio 1522 mentre era giovedì il 10 luglio. In particolare. Antonio Pigafetta che aveva minuziosamente tenuto il diario di bordo rimase trasecolato. La ‘perdita’ di un giorno, in tre anni di navigazione, non avrebbe sminuito l’impresa cui aveva partecipato, ma non poteva essere ignorata da un uomo curioso e intelligente. Il vicentino, dunque, si ritirò nella Biblioteca di Cordova per risolvere il problema, ma i testi di Platone, Plotino e Tommaso d’Aquino non gli furono di aiuto. Sembra che soltanto l’incontro con l’astronomo cosentino Giovan Battista Amico, morto ammazzato e processato postumo per eresia, sia riuscito a fargli scovare la soluzione. Nondimeno, l’apparente assurdità obbligò la Corona spagnola a inviare una delegazione al papa per testimoniargli che il fenomeno osservato non era una manifestazione demoniaca.
Probabilmente, Adriano VI ascoltò i delegati distrattamente, perché la Riforma protestante gli stava creando maggiori grattacapi. Forse, avrebbe avuto difficoltà a capire che, nel compiere il completo giro del mondo da oriente verso occidente, regolando l’ora al passaggio da un meridiano all’altro, ossia rimettendo indietro l’orologio di un’ora all’attraversamento di un fuso orario, al termine della circumnavigazione del globo, ossia dopo aver attraversato 24 fusi orari, è logico che si siano, come scrivono i libri, ‘risparmiate’ 24 ore di viaggio. In realtà, non si ‘risparmia’ nemmeno un minuto ma, semplicemente, si tratta di 24 ore trascorse ma, per così dire, ‘non computate’ o, meglio, ‘cancellate’. All’epoca di Magellano, gli orologi meccanici si trovavano sui campanili e l’idea dei fusi orari doveva ancora nascere. Pigafetta, oggi, potrebbe essere paragonato a un individuo, con un moderno orologio al polso, che essendo partito da Genova alle 6 del mattino e, dopo aver attraversato un fuso orario ogni ora, regolando all’indietro le lancette dell’orologio per 24 volte, una volta ritornato a Genova, sempre alle 6 del mattino, non si fosse accorto di aver viaggiato per 24 ore giacché, sul quadrante del suo orologio, la data non era cambiata. Se avesse acquistato un orologio ‘dual time’, per quanto rintronato, avrebbe evitato l’errore. Con il trascorrere del tempo, emerse l’importanza di coordinare le differenti ore locali, mantenute cocciutamente per un anacronistico campanilismo. Basti pensare che soltanto nel 1866 Milano e Roma adottarono l’ora in comune, mentre Venezia si tenne la sua sino al 1880. Il sistema dei fusi orari, infine, cominciò ad avere concreta applicazione nel 1884. Tale sistema impose, ovviamente, l’individuazione di un meridiano per il cambio internazionale di data e fu scelto il 180° meridiano, quello diametralmente opposto al meridiano di Green-wich. La Linea Internazionale del Cambio di Data, però, collima con il 180° meridiano per modo di dire. Nessun documento ufficiale, infatti, ne fissa il percorso che è stato ripetutamente corretto a zig-zag, in modo da garantire un’unica data in un medesimo Stato.
A ovest e a est della suddetta linea immaginaria, alle ore 00,00, le date sono dunque diverse. Ad esempio, se a ovest della linea è il 1° gennaio, a est sarà ancora il 31 dicembre dell’anno precedente. Ciò comporta che sulle navi avvenga un cambio di data a prima vista incomprensibile: le navi che viaggiano da oriente verso occidente devono saltare un giorno, mentre quelle che procedono da ovest verso est devono navigare per 48 ore mantenendo medesima data. Fino al momento del transito attraverso la Linea del Cambio di Data, infatti, le navi regolano gli orologi di bordo, al passaggio da un fuso orario all’altro, sottraendo o sommando un’ora. Perciò, in termini elementari, le navi provenienti da oriente, arretrando l’orologio di bordo, hanno ore di navigazione non conteggiate, mentre le navi provenienti da occidente, avanzando l’orologio di bordo, hanno ore di navigazione conteggiate in eccesso rispetto a quelle effettuate. Cancellando un giorno di navigazione oppure navigando 48 ore ma computandone 24, le cose ritornano al loro posto e, almeno per me, dopo questa tiritera, l’enigma è risolto.
SUVA, 20 FEBBRAIO
Il primo ad avvistare le Isole Figi, nel 1643, fu il navigatore olandese Abel Tasman ma, in seguito, per oltre un secolo, nessun europeo pensò di porvi piede. La descrizione di terre commercialmente poco promettenti, probabilmente, fu parecchio scoraggiante. Perciò, dopo una fulminea sosta di Cook nel 1774, soltanto nel 1789 con il capitano William Bligh sarebbe avvenuta una più accurata perlustrazione dell’arcipelago. Effettivamente, Bligh attraversò il braccio di mare che separa Vanua Levu da Viti Levu, che per l’appunto porta il nome di Bligh Water, ma su una scialuppa dove era stato scaraventato, insieme ad altri diciotto marinai, in seguito al celebre ammutinamento del Bounty, avvenuto il 28 aprile 1799 e capitanato da Christian Fletcher. Sicché, munito soltanto di una bussola, di un orologio e di un sestante, forse non era nelle condizioni migliori per tratteggiare carte nautiche meticolose. Bligh, invece, prima di giungere a Tahiti, aveva veramente scoperto nel 1768 le Isole Bounty, situate 650 chilometri a sud-est dell’Isola del Sud della Nuova Zelanda e abitate soltanto da albatros e pinguini.
Dopo questa interessante esperienza e quasi un anno di navigazione anche burrascosa, è facile capire che parecchi membri dell’equipaggio del Bounty abbiano perso la testa per le tahitiane che li avevano coccolati per cinque mesi. Le Isole Bounty, infatti, continuano a essere disabitate e dall’UNESCO sono state dichiarate Patrimonio dell’Umanità perché, non essendo state devastate dai cacciatori di balene, continuano a ospitare specie aviarie incommestibili. Suva, situata sull’isola Viti Levu è la capitale delle Figi. L’arcipelago delle Figi, ex colonia britannica, è uno Stato indipendente dal 1970, quando ormai il commercio del legno di sandalo e la coltivazione della canna da zucchero non interessavano più a nessuno. Eppure, proprio per queste attività, gli inglesi favorirono, nella seconda metà del XIX secolo, una vasta immigrazione d’indiani che non ebbero vita facile, probabilmente per il pessimo carattere della popolazione melanesiana autoctona.
Difatti, i souvenir più tipici del luogo sono le lance di legno, le mazze da guerra e i forconi da cannibale. Inoltre, per garantire la quiete notturna, fino al 1926 fu tenuto in vigore il coprifuoco dopo le 23 per i non europei, anche se all’epoca gli incivili antropofagi erano stati soppiantati dai civilissimi bianchi. Naturalmente, le specialità gastronomiche odierne non contemplano carne umana e sono quelle comuni del Sud-Pacifico. Per l’elevato contenuto proteico, nelle Figi sono molto apprezzate le bistecche di alligatore, così come hanno grande successo il pipistrello con prugne e la zuppa di serpente in Nuova Guinea o le cotolette di canguro con mandarini e il carpaccio di struzzo in Australia.
L’arrivo a Suva è stato deludente, non per il caldo afoso ma perché il porto, strabocchevole di container, come prima visione non è incoraggiante. L’odierna Suva è un agglomerato urbano parecchio esteso e, persino nelle zone residenziali, talvolta degradato nonostante la vegetazione prorompente. Insomma, come in molte altre isole, bellezze naturali a parte, non c’è nulla da ammirare e sarebbe sciocco pretenderlo. Tuttavia, spesso, bellezze naturali e turismo di massa non sono in sintonia. Perciò, mi è parso grottesco vedere una cinquantina di persone che si affannava a fotografare il Parlamento di Suva, che sembra un villaggio turistico in precoce stato di abbandono, oppure un albero striminzito con il tronco in parte sommerso dal mare, ma curiosamente vegeto. Il Museo delle Figi, invece, mi è parso dignitoso anche se povero. Superati gli antichi contrasti, la comunità indiana, almeno apparentemente, mi è sembrata privilegiata, soprattutto osservando i negozi che espongono splendi sari a prezzi modici. Abiti che anche le donne pingui di tutto il mondo potrebbero indossare con eleganza, invece d’infilarsi pantaloni attillati che, prodotti dalle cosiddette grandi firme, costano un occhio della testa e fanno straripare i salsicciotti dei fianchi, mentre le natiche sembrano in procinto d’esplodere.
Mi ha stupito, inoltre, la disinvolta raffinatezza di studenti e studentesse, che ho incrociato, la cui divisa contemplava ca-micia bianca e cravatta scura. Nel nostro Paese, purtroppo, si è dimenticato che la cura e la dignità del proprio aspetto andrebbero insegnate a scuola. Per il resto, i piccoli negozi, soprattutto di generi alimentari, con esposte carni dall’aspetto putrido, tradivano una miseria tanto profonda che nessuno si stupiva se qualcuno, sul marciapiede, dormiva sprofondato in una carriola. Eppure, di Suva avrò un ricordo indimenticabile. Ho acquistato, infatti, un servizio di forconi da cannibale per invitare miei più cari a mici a cena. Ho visto, infine, un mercato straripante di frutta esotica ma non ho comprato nemmeno una banana, per rispettare il divieto d’introdurre cibi a bordo. Tuttavia, mentre la nave era in procinto di mollare gli ormeggi e la banda locale, in alta uniforme ma circondata da turisti trasandati, intonava canzoni italiane, per un momento ho desiderato ignobilmente la ricomparsa dei cannibali sull’isola.
(3 –continua)