False moschee
per finte Biennali
Quello che stupisce, nel pasticciaccio burlesque della finta moschea allestita nella vecchia chiesa di Santa Maria della Misericordia in campo dell’Abbazia, a Venezia, non è tanto che la vogliano chiudere. È che l’abbiano lasciata aprire. Perché non è un’opera d’arte. E perché non è nemmeno un luogo di culto. Anche se lo fosse, non c’entrerebbe nulla con una esposizione d’arte.
Poi perché con la Biennale non ha niente a che vedere. Nemmeno con l’Islanda, se è per quello, il Paese titolare del padiglione, un Paese dove, tra l’altro, non spunta nemmeno l’ombra di una moschea. Un Paese che invece di presentare i propri artisti (ammesso che ne abbia), come si dovrebbe fare alla Biennale, ha preferito affidarsi a un fabbricatore di tranelli.
Il curatore del padiglione, uno svizzerotto dall’aria furbacchiotta, è riuscito a farsi pubblicità, sia pure in modo ingannevole, sfruttando l’ingenuità di alcuni islamici caduti nella trappola del luna-park, inconsapevoli di essere finiti, utili comparse di una farsa, a pregare dentro un baraccone da giostre.
Una moschea è una cosa seria. E i musulmani hanno tutto il diritto di chiedere (e ottenere) che anche a Venezia, come in molte città del mondo, sorga (a spese loro ben s’intende), una moschea. Ma con tutti i crismi dell’ufficialità, con tutti i permessi e le autorizzazioni necessarie, nel rispetto di tutte le regole. E in base a un accordo di reciprocità, che consenta di aprire chiese nei Paesi dove ci sono solo moschee.
Quello che non è accettabile, che è urticante, volgare, mistificante, e anche vagamente ricattatorio, è che con il pretesto dell’arte, che con la religione (con tutte le religioni) non ha nulla a che spartire, si tenti di spacciare per vera una moschea finta. E vi siano allocchi che ci credano, da un lato, e la difendano, e dall’altro allocchi che si oppongano e la contrastino.
La Biennale, invece di perdere il tempo ad architettare modifiche francamente inaccettabili al proprio statuto per consentire un discutibile terzo mandato al suo presidente (due sono più che sufficienti, come in altri settori, largo ai giovani), farebbe meglio a controllare cosa accade sotto le proprie bandiere.
Perché quest’anno, in un’edizione delle arti visive finita fuori dal controllo, è successo veramente di tutto: dai ritiri imbarazzati e ingloriosi di Paesi come il Kenya e il Costa Rica, allo scandalo della devastazione dei giardinetti della Marinaressa, uno spazio pubblico praticamente sequestrato dai finti arbusti di una tedescotta spalleggiata da un manipolo di inglesi.
Sempre di spettacolo si tratta, per carità. Lo spettacolo dell’arte. Moschee finte e artisti finti e mostre finte. Che non capisci quali sono davvero della Biennale e quali no. Ma non importa. Meglio sorridere. E poi contano gli stimoli. E questi sono moltissimi.
C’è un artista americano, per esempio, Marney T., che vive esiliato per sua scelta all’isola d’Elba, che ha preso lo spunto dalla storia della finta moschea e ha preparato un progetto per la prossima edizione. Ce l’ha inviato in anteprima.
Si farà nominare curatore del padiglione del Botswana grazie ai buoni uffici di un suo amico, un imprenditore italiano della ‘ndrangheta lidense, titolare laggiù di una catena di pizzerie, e molto ammanicato con i capi tribù.
Prenderà in affitto a Venezia la vecchia chiesa di San Lorenzo, chiusa e abbandonata da decenni, e vi aprirà un bordello, tipo Salon Kitty, sul modello del film di Tinto Brass, madrina Vittoria Risi, l’esuberante pornostar di Pellestrina. Un bordello finto, è logico, ma che sembrerà vero. In tutto e per tutto.
L’artista è convinto che avrà un grande successo e che ne parlerà tutto il mondo. Difficile dargli torto.