La strada
dei Morlacchi

Lo strano nome di una via di campagna rivela antiche e complicate vicende storiche della Repubblica di Venezia. Le Continue migrazioni e la problematica integrazione dei nomadi Morlacchi, popolo balcanico di pastori alleati dei veneziani.

A Torre di Mosto, questo nostro tranquillo paese in provincia di Venezia, sulla riva destra del fiume Livenza fra Motta e Caorle, c’è una via, detta dei Morlacchi.

Sta fra la Rotta (la zona dell’argine verso Levante, appena dopo il cimitero, chiamata così perché nel 1966 l’argine si ruppe e l’acqua della Livenza in piena fuoriuscì e provocò una disastrosa alluvione) e Sant’Elena (la località dove una volta c’era anche la chiesetta, ora scomparsa sotto l’argine e, più avanti — raccontano — anche un antico cimitero che, come tante altre cose del tempo che fu, è stato rimosso senza lasciare più alcuna traccia della sua esistenza).

In direzione Boccafossa, sulla strada bassa che va verso mezzogiorno, c’è la Via dei Morlacchi, un chilometro circa, che porta dritto sull’argine del Brian, o Taglio, il canale che proviene da Cittanova e va dritto fino San Giorgio, e oltre, dove cambia nome diventando Livenza morta, per poi, dopo aver attraversato la località detta Brian, finire nella Livenza vera e quindi sfociare subito nel mare.

Ma chi sono questi Morlacchi? mi chiedevo ormai da anni ogni volta che percorrevo quella strada affacciata sui campi della bonifica, contornata da poche case. In una di quelle case ci avevano anche vissuto i miei nonni, ed erano venuti via qualche anno prima che nascessi io.

Così, nel tempo, ho cercato, e nei polverosi archivi della storia qualcosa ho trovato, di quel popolo (pensa un po’) ancora esistente tutt’oggi. Qualcosa che avvicina anche il viaggiatore più distratto alla consapevolezza che anche una semplice tabella col nome di una strada può raccontare vicende incredibili (che a ben vedere assomigliano così tanto a quelle attuali) e che riporta Torre di Mosto dentro alla storia del Veneto, di Venezia e dei suoi rapporti intessuti nel tempo con le popolazioni provenienti dall’Europa dell’Est.

I Morlacchi, una delle ultime etnie nomadi dell’Europa, sono un popolo balcanico essenzialmente di pastori e boscaioli originario della Valacchia, zona montuosa che comprende in parte l’Erzegovina e il sud della Romania (alle spalle delle Alpi Dinariche, a nord dell’Albania e ai confini col Montenegro); sono detti anche Mauro-Valacchi, o Moravo-Valacchi (Valacchi del fiume Morava), o Nigri-Latini (che in lingua Latina vuol dire Valacchi Neri, cioè del Nord poiché, secondo l’usanza turca del posto, i punti cardinali vengono identificati con i colori, e il nero è il Nord).

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Abbastanza chiusi e restii al contatti esterni, di religione cristiana, i Morlacchi sono stati per secoli (e per vari motivi, non solo quello religioso) in conflitto coi litigiosi e bellicosi Turchi loro vicini, e anche per questo subirono nel tempo una lunga diaspora, una emigrazione costante che li spinse via via in altri territori, nel nord dell’ex-Jugoslavia (Istria, Dalmazia, Quarnaro) e, in colonie, anche in Veneto.

I Morlacchi sono un popolo nomade di origine neolatina, originato dalla fusione tra i coloni romani e la gente del luogo, presente nella zona a nord dell’attuale Albania sin da prima della fine dell’Impero Romano, e fino al periodo delle invasioni turche. Tra i popoli romanizzati dell’Illiria (zona nell’entroterra delle coste della Dalmazia) solo i Morlacchi, dediti alla pastorizia e chiusi nelle loro montagne, riuscirono a sopravvivere alle invasioni barbariche e agli sconvolgimenti sanguinosi che colpirono l’inquieta area balcanica. E quando, nel IX secolo, Venezia iniziò ad espandere la propria potenza nell’Adriatico e nel suo entroterra orientale, i Morlacchi, scacciati dai Turchi che avevano invaso le loro terre, vennero a contatto coi veneziani. Dai quali furono aiutati e protetti e dei quali furono preziosi e fedeli alleati nelle lunghe e sanguinose guerre contro i Turchi.

Anche con l’aiuto e per volontà dei veneziani, dal Cinquecento al Seicento numerose famiglie morlacche si insediarono nel Quarnaro e nell’Istria. Mantenendo i propri capi, le usanze e la lingua originaria, che nel tempo aveva subito notevoli influssi da altri idiomi e dal veneziano. Ancora, all’inizio dell’Ottocento, il generale napoleonico Marmont asserì che il dieci per cento della popolazione che occupava le Province Illiriche parlava la lingua morlacco-dalmata.

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I Morlacchi costituirono le migliori truppe di Venezia nelle guerre contro i Turchi: e c’erano ancora molti soldati morlacchi a Venezia quando, il 12 maggio 1797, il doge Ludovico Manin abdicò e pose fine all’epopea della Serenissima. Soldati che piansero alla notizia della Caduta della Signoria, e che di malavoglia dovettero abbandonare la laguna, sulle navi, e ritornarsene dall’altra parte dell’Adriatico. Poco radicati al territorio (vivevano spesso in carovane), i Morlacchi rimasero nelle isole di Veglia e Arbe e tra Zara e Fiume (il tratto marino tra le isole e la costa si chiamava ancora nel primo Novecento Canale della Morlacca). Il patrizio veneto Grimani, con un’apposita legge agraria (1775), per convincerli ad insediarsi stabilmente, affidò gratuitamente due campi di terra per ogni famiglia morlacca. E da questo fatto si evince che allora, per vivere, due campi erano sufficienti per una famiglia, che non era certo formata da poche persone come ai giorni nostri. Il censimento croato del 1991 dice che all’epoca esistevano ancora 22 morlacchi, nell’area del Quarnaro, che parlavano la lingua istrorumena in una forma caratteristica (ma ufficiosamente se ne stimarono molti di più, e certamente molti nuclei sopravvivono tutt’oggi).

Da una mia amica di Bassano ho avuto notizia anche di un vino morlacco, che anni fa produceva anche una cantina di Vittorio Veneto (mi devo informare, so per certo che lo producono ancora, in Lombardia e in Trentino).

Colonie di pastori Morlacchi, quasi certamente portate dai veneziani, sono giunte anche in questa nostra zona, per lavorare la terra (magari condotti qui dagli stessi Da Mosto, nobili veneziani che a più riprese ripopolarono questa palude che vedeva gli abitanti continuamente decimati dalla malaria e dalle epidemie), e la tabella col nome della via, poco meno di un chilometro di rettilineo affiancato da poche case vecchie e nuove, lo testimonia tutt’ora.

Ma, lo ricordiamo, quella che ora è una moderna strada asfaltata in origine era un canale, detto dei Morlacchi appunto, uno dei quattro che, assieme all’Acquador, al Pratondo e al Dallosso, usciva dalla Livenza e portava in Valesèa, cioè nella palude antica, poi man mano bonficata, tra Sant’Elena, Boccafossa e il canal Nero, più o meno dove attualmente scorre il Brian (ho un amico informatore in loco, quello che mi ha narrato anche del cimitero che fu levato e il cui terreno ora è diventato parte di un campo coltivato: a sant’Elena, lungo uno di questi canali che allora fungevano da vie di collegamento — le strade non c’erano — vi era anche un bel ponte, con tanto di approdo in pietra coi relativi anelli in ferro per legare le barche, e che ora sta interrato sotto una casa costruitavi sopra negli anni Settanta del secolo scorso).

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Quanti erano, e che fine avranno fatto quei Morlacchi? Si saranno adattati a vivere coltivando i pochi terreni molli che emergevano dalla palude prima delle grandi bonifiche? Si saranno nel tempo integrati con gli altri abitanti della zona oppure saranno rimasti per conto loro, chiusi nelle loro arcaiche tradizioni e neghittosi ad ogni contatto con altre genti? E dove vivevano? In baracche di legno, in palafitte, o in casoni, temendo le piogge continue dell’autunno e gli allagamenti improvvisi? Il canale dei Morlacchi si chiamava così perché l’avevano scavato proprio loro? E poi, un po’ del loro sangue, della loro discendenza, sarà rimasto, in zona, oppure se ne sono andati tutti, preferendo dirigere la loro carovana nell’entroterra in altre zone collinari o montuose, più adatte a loro, meno malsane e più accoglienti? Se quella volta sono andati via, li avranno fatti sloggiare i padroni veneziani, irritati dal loro carattere poco socievole, ingovernabile e aggressivo, oppure se ne sono andati di loro spontanea volontà? Qualcosa dei loro pittoreschi rituali di nomadi è rimasto, oppure il tempo s’è portato via tutto?

Per la cronaca, secondo le notizie di cui sono in possesso al momento, proprio sopra la Via dei Morlacchi dovrebbe passare la Tav, la nuova ferrovia per l’alta velocità, almeno se verrà confermato il controverso tracciato basso che, proveniendo da Passarella per giungere a Portogruaro, attraverserebbe e taglierebbe a metà il fragile territorio della bonifica fra Torre di Mosto e Boccafossa. Scavalcando con un alto ponte il canale Brian e continuando sopra i piloni o un alto argine interrato fino a riattraversare la Livenza, sempre con un ponte, in località Sant’Elena.

C’entra anche questo, seppur a prima vista non sembri, col popolo nomade dei Morlacchi, di cui penso rimanga ancora molto da scoprire. Anche il popolo stanziale è rimasto un po’ nomade, nell’animo, e ha bisogno di muoversi, di spostarsi, con frenesia e anche sempre più in fretta.

La gente, da sola o in carovana, si muove ancora, come sempre. Perché ne è costretta (quando scappa dalle invasioni e dalla guerra), per inseguire nuove opportunità, o solo per cercare di esaudire i propri sogni di libertà. In origine eravamo tutti nomadi, per necessità, prima che inventassero l’agricoltura: le tribù vivevano di caccia e inseguivano gli animali nelle loro migrazioni. Anche con l’allevamento il nomadismo è pur sempre rimasto, dovendo i pastori spostarsi per l’alpeggio.

E poi, qui, in questo paese di bonifica, basta chiedere alle famiglie quali sono le loro origini per scoprire che gran parte dei loro avi, prima di stabilirsi qui, vivevano da qualche altra parte. Venezia stessa era ed è un crogiolo di razze e di culture differenti, che però nel commercio e nel rispetto reciproco hanno saputo costruire le basi della convivenza. La storia continua, la vita anche. ★

La strada dei Morlacchi