Studiò da cortigiana
poi divenne santa
Un antico esempio di violenza contro le donne
I catanesi riservano grandi festeggiamenti alla loro santa patrona, Agata, che per non aver ceduto alle lusinghe del truce proconsole Quinziano venne fatta rotolare nuda sui carboni ardenti come la lava dell’Etna. E’ una processione enorme, commossa, a piedi scalzi e vesti immacolate. Garofani bianchi come la purezza di una fede e garofani rossi come il sangue versato per conservarla, adornano il carro che sorregge l’argenteo «fercolo», la macchina usata per trasportare i santi, illuminato da dodici ceri.
CATANIA — Salpando dal porto di Napoli, la piramidale morfologia del Vesuvio è una costante e imponente presenza che sembra prenderti la mano per accompagnarti in mare aperto. Il sole calante sulla città partenopea riveste di un giallo spento i gabbiani che circondano la poppa della nave e che ne sfruttano la scia esibendosi in comodi voli statici.
Dopo una notte di navigazione, approdare a Catania di prima mattina infonde un senso di déjà-vu: vulcanico il tramonto, vulcanica l’alba. Se la violenta eruzione continentale del 1834 aveva confermato l’identità del nemico all’embrione della ginestra leopardiana, le eclettiche attività quotidiane dell’Etna suscitano paradossalmente ai siciliani un sentimento di protezione. «Vediamo cosa dice oggi u’ mungibeddu», si domandano da queste parti spalancando le finestre.
L’Etna è femmina, e le montagne il tentativo più riuscito della terra di anelare al cielo: quello delle nuvole, quello delle stelle, quello dei santi come Agata da Catania. Nel 251 il proconsole Quinziano, giunto in Trinacria su mandato imperiale per convertire i cristiani, si invaghisce di una vergine consacrata diaconessa. Le ordina di rinnegare la sua fede, per abbracciare gli dei pagani.
La fanciulla si rifiuta e così, nella speranza di corrompere il suo rosso velo, viene affidata alle cure di una cortigiana. Niente da fare, dopo un mese ritorna illibata al cospetto di Quinziano, che decide di processarla. L’arringa dell’imputata è tagliente come roccia lavica. Ma alla fine, nonostante l’insurrezione popolare che costringe il proconsole romano a fuggire, viene condannata e torturata.
Con una tenaglia le strappano dal petto i vulcani ancora quiescenti, negandole per sempre il dono di donare nutrimento e godimento alla vita. Due pezzi di carne il cui piacere non avrà mai luogo e che mai vedranno l’eruzione lattea colare dai crateri capezzolari e inumidire labbra di bambino. Poi la fanno rotolare nuda sui carboni ardenti come lava etnea. Poche ore dopo, il 5 febbraio 251, Agata muore.
Il martirio ha bruciato il suo corpo, ma ignifuga è rimasta la sua anima: un velo che da quel giorno protegge Catania dalle insidie della natura e della storia. Le reliquie, conservate nella cattedrale, verranno difatti ripetutamente sfoderate come scudo per arrestare con successo terremoti, eruzioni, pestilenze, e per placare i bollenti spiriti da conquista di mori e svevi.
Che grande festa riservano i catanesi alla loro patrona. Una processione a piedi scalzi e vesti immacolate. Garofani bianchi come la purezza di una fede e garofani rosa come il sangue versato per conservarla, adornano il carro che sorregge l’argenteo fercolo, la macchina usata per portare i santi in processione, illuminato da dodici ceri.
Agata, moglie e madre avrebbe potuto essere. Fu santa. E da secoli alimenta la devozione dei suoi concittadini per un antico esempio di violenza contro le donne, quelle che hanno il coraggio di dire no, consapevoli di poter incorrere nella brutalità umana, quella dell’uomo di ogni epoca, dominatore eccitato e vigliacco.