Soffiava un vento forte

e caldo di scirocco

Soffiava un vento forte e caldo di scirocco che scuoteva le cime degli alberi e faceva cadere le foglie sulla provinciale jesolana spolverata da riccioli di sabbia. Si sentiva il mare vicino che brontolava cupo, in lontananza grandi nuvole nere attraversavano il cielo. Ma non vi era nulla di cui preoccuparsi, erano solo le avvisaglie di un normale temporale in una normale sera d’estate. Il circo aveva tutte le luci accese e c’era aria di festa, i bambini, le guance sporche di zucchero filato, sventolavano felici le bandierine colorate. 

Successe tutto all’improvviso, verso la fine dello spettacolo, durante un numero alle corde aeree. L’acrobata fu spinto indietro, con un movimento innaturale, come da una forza misteriosa. Dall’ingresso dello chapiteau entrò potente e silenzioso, vorticoso, senza bussare, un tornado. Un vento gelido piegò le schiene degli spettatori sulle gradinate, quelli sui palchi vennero sbattuti a terra, la tromba d’aria attraversò la pista e si schiantò dalla parte opposta all’ingresso, contro il palco dell’orchestra, abbattendolo con tutti i suonatori, che volarono via con i loro strumenti, si videro trombe e clarinetti, chitarre e tamburi, e i piatti della batteria che volteggiavano nell’aria. 

Non trovando vie d’uscita il tornado tornò indietro, fece una specie di inchino al centro della pista, come fanno gli artisti quando vanno a prendersi gli applausi, e infilò l’unica strada dove trovò spazio, quella che portava in alto, lassù, verso la sommità dello chapiteau, i riflettori colorati si misero a danzare come libellule impazzite, qualcuno esplose, qualcun altro volò via, la gente impaurita gridò, il tornado centrò come un proiettile la cupola del tendone che con un rumore sordo strappò i picchetti dal suolo e volò in alto, tanto in alto che sembrava una mongolfiera, i tiranti che fluttuavano nell’aria come i fili spezzati di una marionetta. Fuori tutti, urlò una voce. Appena in tempo. Il tendone precipitò come un pallone sgonfio, con tutto il peso delle sue attrezzature, sullo stesso posto dov’era montato. Il tornado era andato a spegnersi altrove. Nessuno, per fortuna, si era fatto male. Solo qualche graffio, e qualche ammaccatura per gli orchestrali volanti. Era una banda di polacchi, buoni musicisti e ottimi bevitori, che si consolò rapidamente svuotando le riserve di vodka (è notorio, presso gli intenditori – e i musicisti di solito lo sono- come le vodka polacche, in particolare Belvedere, Debowa, Chopin, Pravda e Zubrowka,  siano migliori di quelle russe).              

Intanto si era messo a piovere a dirotto, la temperatura era scesa, adesso faceva freddo, e la strada provinciale, ingombra dei rami degli alberi spezzati dalla furia della tromba d’aria, non era più percorribile, si sentivano gli ululati delle sirene delle ambulanze e dei pompieri che andavano e venivano, gli spettatori erano smarriti, infreddoliti, i bambini impauriti, nessuno sapeva cosa fare e dove andare. Non c’era più neanche il tendone, ridotto a uno straccio sporco buttato per terra. Per ripararsi.  Nando Orfei, perché quello era il suo circo, fece entrare tutti quelli che ci potevano stare nella caravan vicina all’ingresso che gli serviva da ufficio, e che è conservata tuttora, con la sua scrivania di legno scuro, la sua poltrona di pelle chiara, le vecchie foto incorniciate e una grande tigre di porcellana colorata, nel Piccolo Circo dei Sogni del figlio Paride a Peschiera Borromeo. Disse agli artisti di fare altrettanto. Il fiato appannava i vetri alle finestre delle roulotte. 

Nando non sembrava preoccupato. Aveva lo sguardo tranquillo. Gli premeva soltanto fare tutto il possibile per alleviare il disagio ai suoi spettatori. “Noi gente di circo siamo abituati a tutto –diceva, e la sua voce era ferma, sicura- ai fortunali come alle sciagure. Crolla il tendone e noi lo ritiriamo su e domani ricominciamo. Questa è la nostra vita. Al circo non c’è mai nulla di sicuro. Mai. Pensa che nel 1933, prima ancora che io nascessi, un forte uragano a Sermide, nel mantovano, distrusse completamente il nostro circo. Ricordo che mio padre, raccontando l’episodio, era solito dire che quella sera era tranquilla, solo all’orizzonte si notavano delle nubi nere, ma non c’era vento, e inoltre il telone era robusto, piantato su pali fortissimi, e di temporali ne aveva già sopportati a centinaia. Lo spettacolo era stato un vero successo, c’era un nuovo numero di cavallerizzi, fratello e sorella, che sapevano mandare in visibilio gli spettatori, quasi come accade quando la mia Anita si presenta in pubblico”.

“Lo spettacolo era terminato da poco, gli artisti si erano appena ritirati nelle roulotte, quando si alzò il vento, le nubi nere avevano ricoperto tutto il cielo, e improvvisamente fu il finimondo. Le donne furono fatte rifugiare in un casolare vicino, gli uomini cercarono di fissare le funi, tentarono persino di far scendere il tendone, ma una tromba d’aria si abbatté sul campo e in un attimo tutto fu spazzato via. Poi iniziò a cadere la pioggia, ma per il circo non c’era più niente da fare. Perdemmo tutto anche nel 1960, a Schio, quando un fortunale sradicò il tendone causando la morte e il ferimento di numerose persone. Sul momento abbiamo tutti accusato il colpo, ma poi ci siamo rimboccati le maniche per cominciare l’opera di ricostruzione”.

Nando aprì una bottiglia di vino rosso e riempì i bicchieri. Il vino era forte e stagionato, riscaldava il cuore e arrossava le guance. Era un uomo gentile e robusto, dallo sguardo mite, profondo, occhi che pensano e sanno guardare lontano. Era capace di spostare una caravan con la sola forza delle spalle. Fu in quella sera di vento e di tempesta che mi regalò un libro che parlava della sua vita, e nella terza pagina scrisse una dedica, che per pudore custodirò per me, con la sua calligrafia leggiadra e svolazzante come la piroetta di un acrobata.

“Noi del circo siamo abituati alle avventure e alle sventure –spiegava- in fondo nelle nostre vene scorre un po’ di sangue gitano, e l’ignoto ci affascina. Siano gente che non è capace di stare ferma a lungo, ogni tanto sentiamo il bisogno di partire, e di portare la nostra arte in tutti i posti che possiamo. Per esempio, nel 1955 ci siamo recati con tutta la troupe in Kuwait, affrontando un viaggio che durò la bellezza di quarantadue giorni dato che dovemmo circumnavigare l’Africa poiché attorno al canale di Suez stavano combattendo e non si poteva passare. Durante la navigazione ne successero di tutti i colori. Gli animali non sopportavano il rullio della nave e diventavano sempre più nervosi. Un giorno rischiammo il naufragio: si erano ammassati tutti da un lato della stiva e avevano fatto inclinare pericolosamente il piroscafo. Fu necessaria molta pazienza per far ritornare gli animali ai propri posti, potevano diventare pericolosi dato che si erano impauriti. Per fortuna mi ascoltarono. Poi la tournée fu trionfale. E anche divertente: un capo tribù voleva a tutti i costi che andassi nel suo villaggio per rendere mansueti un branco di leoni che ogni tanto mieteva vittime, e che i suoi guerrieri non erano riusciti a sterminare”.

“Mi piaceva girare il mondo con il circo. Mi ricordo…Jugoslavia, Turchia, Spagna, Israele, Medio Oriente, Brasile, dove mio zio Orlando era famosissimo…e mia cugina Moira all’inizio degli anni Ottanta si era spinta addirittura fino in Iran per far conoscere al mondo lo splendido spettacolo del circo, percorrendo ben quindicimila chilometri su strade dissestate. Fu un viaggio veramente avventuroso. A causa della guerra fra lo Scià di Persia e il leader iraniano Khomeyni, tutti i componenti del circo furono costretti per ottantadue giorni a vivere in una specie di campo di concentramento , circondati dal filo spinato, solo perché gli italiani venivano considerati “cani infedeli”, ed erano obbligati a cibarsi della carne dei loro cavalli e a sopportare diverse violenze, come il lancio di bombe dentro al circo, che causarono il ferimento di alcuni operai e di un artista che perse addirittura un occhio. Davvero non so quante persone del mondo dello spettacolo sarebbero disposte ad affrontare rischi e disagi di questo tipo pur di portare la loro arte nei luoghi più sperduti”.

Nando Orfei battezzato Ferdinando (come il bisnonno, il capostipite della famiglia), e chiamato Nandino, figlio di Paride, fratello di Liana e Rinaldo, marito di Anita, padre di Paride, Ambra e Gioia, era nato a Portomaggiore, un paesotto agricolo di undicimila anime in provincia di Ferrara, il 23 luglio del 1934. Si è spento a Milano, all’ospedale San Raffaele, all’età di ottant’anni, il 7 ottobre del 2014. Riposa al cimitero di Cannuzzo, in Romagna, a pochi chilometri da Cervia. La sua famiglia gli ha intitolato un Premio Speciale Nando Orfei, che viene consegnato ogni anno al Festival Internazionale del Circo di Monte-Carlo, e un Memorial NandOrfei per giovani talenti che si svolge, sempre annualmente, a Peschiera Borromeo (Milano) sotto lo chapiteau che ospita l’Accademia di arti circensi del Piccolo Circo dei Sogni del figlio Paride. E’ considerato uno dei massimi protagonisti del circo italiano del Novecento.

(tratto dal libro “Heritage, da Nando Orfei al Circo-Teatro” di Roberto Bianchin, a cura del Centro di Documentazione delle Arti Circensi (Cedac), Edizioni Equilibrando, 2024. 290 pagine, 30 euro).

  

   

   

 

Soffiava un vento forte e caldo di scirocco