C'era un'acqua troppo quieta

Dal romanzo "Caraguòi"

C’era un’acqua troppo quieta per essere in febbraio. Difatti era agosto. Miguel se ne accorse subito, per via del caldo fottuto che gli piegava le ginocchia come se fossero di stracci. Miguel il basco sputava nelle pozzanghere dei pezzetti di tabacco che gli erano rimasti appiccicati sotto la lingua. Era tardi, per strada non c’era quasi più nessuno, il cielo era spolverato di stelle. Miguel sentiva la camicia di seta marrone impelagata nei peli delle ascelle. I capelli, che aveva lunghi, neri e ricci, gli entravano nel collo della camicia e gli davano fastidio. Anche gli orecchini, che gli aveva regalato la zia Bertha per il suo compleanno, gli facevano caldo. Sentì che gli saliva il bisogno di una birra.

Entrò in una taverna messicana che spuntava sulla riva di un canale. C’era poca gente, le pale dei ventilatori appesi al soffitto ronzavano con un rumore di elicotteri da guerra. A una parete c’era un cinturone di cuoio chiaro, con una pistola col calcio d’argento infilata nella fondina. Vicino, la pubblicità di una tequila. Una ragazza nuda, piegata in avanti, reggeva sulla schiena curva un bicchiere tondo, uno spicchio di limone e una manciata di sale. Miguel le accarezzò la schiena dorata.

“Cerveza”, ordinò.

La barista non lo guardò nemmeno. Era bionda e minuta, aveva la pelle biancastra come le nuvole della Sierra e nascondeva due seni molto piccoli sotto una camicetta grigia. Più in là c’era un tavolo di ragazzi annoiati dalla tivù, c’era una coppia di mezza età che mangiava “chili” senza parlarsi, c’era un vecchio in compagnia di due giovanotti, e c’era una donna sui cinquanta, troppo ossigenata, che si pitturava le labbra con un rossetto troppo rosso.

Miguel si bagnò i baffi da gatto con la schiuma della birra e si appoggiò con i gomiti al bancone. Guardò l’orologio appeso sopra il frigorifero. Segnava le due e mezza. Le due e mezza del mattino.

“Devo andare all’isola”, sussurrò alla barista dai seni piccoli sporgendosi sul bancone. Lei sentì il suo alito cattivo e lo guardò con due occhi verde luna.

“Aspetta”.

Miguel tirò fuori dalla tasca dei pantaloni di pelle nera un foglietto giallo piegato in due. 

“L’isola delle conchiglie. Isla dos caracollos”.

“Non è un nome”, gli rispose la barista puntandogli i fari verdi negli occhi scuri, “qui nel golfo non ci sono isole con questo nome”.

“Ma come? Sono sicuro. Esiste. Quel nome me l’ha scritto un amigo, qui, su questo foglietto. Lui conosce quel posto, lui ci ha vissuto, forse ci vive ancora. Lui mi aspetta laggiù”.

“Il tuo amigo si è sbagliato, amigo”, troncò secca la barista sfregiando con le unghie laccate di avorio un sacchetto di patate fritte, “anche se, forse, voleva riferirsi a un’altra isola, quella dei caraguòi, difatti c’è un posto chiamato così”.

“Sarà quella, no? Che differenza c’è?”.

“C’è, c’è. C’è che non è un nome, e c’è che si dice caraguòi, non caracollos”, lo corresse arricciando il naso come fanno le maestrine delle scuole elementari.

“Come sei pignola, nina! Caracollos o caraguòi, come dici tu, sarà la stessa cosa, no?”.

“Può anche darsi. Ma io ho le mestruazioni stasera, e quando ho le mestruazioni non sono mai di buon umore. E comunque non mi va di perdere tempo con chi ha voglia di perdere tempo”.

“Ma io non ho affatto voglia di perdere tempo. Tutt’altro”.

“Be’, io non ho il tempo di mettermi a cercare la tua dannata isola. Tantomeno a quest’ora. Capito?”

“Capito”.

“Cosa vuoi capire? Voi uomini capite solo quello che avete in mezzo alle gambe”.

“Può darsi. Ma dimmi, piuttosto, che significa caraguòi nella tua lingua?”.

“E’ il nome di certe conchiglie di mare. Ce ne sono molte vicino all’isola, o almeno ce n’erano. Una volta, quando io ero bambina, c’erano. Per questo la chiamano così. Dicono che siano magiche, le conchiglie”.

“E tu ci credi?”.

“Non so se ci credo. Non m’importa. Ma tu che vuoi?”.

“Voglio sapere se quest’isola esiste davvero, che nome ha e dove si trova”.

“Non lo so”

 

(Tratto dal romanzo “Caraguòi” di Roberto Bianchin, I Antichi Editori, 2023. Per gentile concessione)

 

C'era un'acqua troppo quieta