Fine pena mai

Faccia da schiaffi parlò per primo, e il suo fu il discorso più bello. 

Si era messo elegante quella mattina. Vestito bleu, camicia bianca aperta sul collo, il volto ben rasato, i capelli ancora neri pettinati con cura, lucidati dal gel. Non sembrava neanche un assassino.

Solo la faccia lo tradiva. Quella faccia da schiaffi, come lo chiamavano gli altri detenuti, quello sguardo sprezzante e malandrino. 

Col suo italiano impeccabile, coi suoi bei ragionamenti, l’analisi lucida e pacata, convinse la platea più dei tanti professoroni che avevano chiamato a parlare di riconciliazione nella palestra del carcere.

Discutevano di come si potesse, adesso che erano passati tanti anni da quei delitti maturati in un tempo malato, provare a chiudere la partita tra vittime e carnefici. A seppellire gli odi e i rancori. A trovare un modo finalmente per parlarsi. Forse per capirsi. Magari per perdonare. Per dimenticare e ricominciare. A vivere e sperare.

Faccia da schiaffi spiegò che chi uccideva non si poneva domande. Così si era deciso a quel tempo. Così sembrava giusto. Così si sarebbero aperti altri orizzonti. Scritte storie nuove. Nessun assassino si preoccupava delle conseguenze dei suoi delitti. Non c’era tempo per pensare a chi non avrebbe più avuto un padre, chi un figlio, chi un fratello, chi un marito. C’era da pensare alla rivoluzione. E basta. 

Solo dopo, nel tempo lento degli anni che passano dietro le sbarre, quei pensieri che allora non vennero fatti sono venuti alla mente, e si è cominciato a guardare anche al male fatto, alle vite spezzate, al dramma di chi è rimasto solo. Da qui, disse, si può ricominciare.

Ricominciare con chi? Il discorso della figlia dell’uomo ucciso nella stagione dei veleni fu il più duro.

“Mio padre non c’è più. Si può dire che non l’abbia neanche mai conosciuto. Quando l’hanno ammazzato ero una bambina. Non abbiamo potuto giocare assieme. Lui non mi ha vista crescere e io non l’ho visto invecchiare. Come faccio a chiuderla questa ferita?”.

La platea si ammutolì. Alla fine della giornata, terminato il convegno con il pranzo preparato dai carnefici per i familiari delle vittime, ma non tutti mangiarono, Faccia da schiaffi si avvicinò alla figlia dell’uomo ucciso. Le sorrise. Lei non sapeva chi fosse, salvo che era un detenuto. Gli strinse la mano e si complimentò del suo discorso. Lui ricambiò.

“Di dov’è?”, lei gli chiese.

“Di Milano”, rispose lui.

“Anch’io”, disse lei.

“Lo so”, fece lui.

“Come fa a saperlo?”, lo interrogò.

“Sono l’uomo che ha ucciso suo padre”, rispose lui con una voce quieta.

Lei ritirò la mano e il sorriso. Lo guardò dritto negli occhi cercando altre risposte.

“So che non è facile”, disse lui.

“Non porto odio”, disse lei, pacata.

“Mi piacerebbe parlarle, un giorno, se vorrà, poterla incontrare”, disse lui abbassando gli occhi.

“Non so”, rispose lei guardando altrove.

“Ma –riprese lui- tutti i bei discorsi che abbiamo sentito oggi?”.

“Un giorno, forse, lei uscirà di qui, riavrà la sua libertà –disse lei, la voce le usciva ferma- ma io non riavrò più mio padre. Il fine pena mai sarà soltanto mio”.

Fuori il cielo si era sporcato di nuvole basse.

 

(tratto dal libro di Roberto Bianchin “Non ricordo più nulla”, I Antichi Editori 2009, 140 pagine, 20 euro)

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