Il ritorno dei leoni

Il Calcio Venezia in serie A

Dopo diciannove anni, due fallimenti, una mancata iscrizione e persino la caduta tra i dilettanti, gli arancioneroverdi tornano a sorpresa nella massima divisione calcistica con una squadra di giovani, sconosciuti, retrocessi ed esonerati. Un miracolo che non è un miracolo. Al contrario. I meriti della proprietà americana (Niederauer), dei dirigenti Poggi e Collauto, del tecnico Zanetti e dei venezianissimi Modolo e Bocalon in campo.

STADIO PIER LUIGI PENZO (Sant’Elena, Venezia) – In uno stadio costruito sull’acqua non poteva che finire così. In acqua. Con il bagno di mezzanotte nel canale che costeggia il campo, davanti a molti, entusiasti, sostenitori arancioneroverdi. Primo a tuffarsi il Doge, Ricky Bocalon, che aveva appena segnato una rete importantissima, poi il presidente Duncan Niederauer, il tecnico Paolo Zanetti, e altri giocatori. Tutti a mollo. Perché “ci dev’essere ancora e sempre, per un onesto pallone, la possibilità di finire in acqua”, come scriveva Gianni Mura, che “quando tifavo – sono parole sue – avevo il Venezia come seconda squadra”.

I tifosi fanno cori e baccano, urlano, cantano, applaudono. Sparano fumogeni, mortaretti e fuochi d’artificio. Hanno striscioni, trombe, cartelli, sciarpe, magliette e bandiere. Sono alcune migliaia che violano il coprifuoco per fare festa. Primo reato. È vietato fare il bagno nei canali. Secondo reato. La polizia – brava davvero, stavolta – si limita a guardare dal ponte. Non interviene, del resto mica ci sono disordini, è solo allegria. Non multa nessuno. Saggiamente. Una volta tanto hanno capito.

La festa è ancora più bella perché non se l’aspettava nessuno il ritorno del Venezia calcio in serie A dopo 19 anni. L’ultima partita giocata nella massima divisione fu a Parma il 5 maggio del 2002. L’era di Maurizio Zamparini, cui comunque rimane l’intuizione della fusione e il merito della risalita dalla C2 alla A, finiva ingloriosamente. Poi, due decenni di tonfi e di buio. Proprietà imbarazzanti e truffaldine (perfino una russa), due fallimenti, una mancata iscrizione, addirittura l’onta dei dilettanti. Le speranze sono rinate con gli americani (ormai è tutto globalizzato, bellezza, aspettiamo solo gli arabi e i cinesi), prima con Joe Tacopina che con Pippo Inzaghi in panca ha riportato la squadra in B, adesso con Duncan Niederauer che avrà il non facile compito di tenerla in serie A.

Nessuno si aspettava il ritorno del Venezia, anche perché gli esperti del pallone lo avevano collocato, nei pronostici della vigilia, tra le pretendenti alla retrocessione, piuttosto che alla promozione, piazzandolo d’ufficio già all’ultimo posto. In fondo c’è da capirli. La società non andava strombazzando propositi bellicosi, la squadra era una maionese di stranieri sconosciuti e di mezzi falliti retrocessi nelle loro squadre della stagione precedente, e l’allenatore aveva fatto solo alcune partite nella sua unica esperienza in serie B (Ascoli) conclusa con un licenziamento. Lo ha ammesso, con molta franchezza, lo stesso Zanetti: “Avevamo una squadra assemblata con gente giovane, retrocessa, esonerata”.

Cos’è successo, allora, che non ha fatto andare in A il Monza di Balotelli e Boateng ma il Venezia di Fiordilino e Ceccaroni? Un miracolo? No. Nel calcio (come in altre storie della vita) i miracoli non esistono. Esistono il lavoro, le capacità, la qualità, la voglia e l’orgoglio. Il Venezia ha avuto tutto questo. Non ha campioni che fanno la differenza. È riuscito a costruire un ottimo collettivo, dove nessuno fa la primadonna e nessuno fa le bizze, neanche quelli che giocano meno. Dove tutti corrono per tutti e tutti portano l’acqua allo stesso mulino. Le chiavi del successo sono state l’intuizione della proprietà di affidare le chiavi della costruzione della squadra a due venezianissimi ex giocatori di talento (e di serie A) come Mattia Collauto e Paolo Poggi, anche loro al debutto come direttore sportivo e coordinatore dell’area tecnica (prima si occupavano rispettivamente del settore giovanile e della promozione all’estero del marchio). I due ragazzi terribili ci hanno messo prima di tutto il cuore. Poi le loro indubbie capacità. Hanno scelto bene un tecnico giovane, ambizioso, dalle idee molto chiare, e dal gioco duttile e propositivo, e hanno scelto bene anche i giocatori, andando a pescarne parecchi su sconosciuti mercati del Nord Europa. Fondamentali, per la spinta, anche altri due cuori veneziani in campo, quelli del capitano Marco Modolo, e del Doge Riccardo Bocalon.

Verrebbe da dire alla proprietà, a questo punto, dato che finora si è mossa (vincendo) controcorrente, di continuare ad andare in direzione ostinata e contraria, facendo quello che le società non fanno mai neanche quando vincono: confermare tutti. Primo perché la serie A se la sono guadagnata loro, tecnico e giocatori, da soli e senza aiuti, e meritano di fare almeno un’esperienza nella massima serie (ci ha giocato solo Molinaro). Secondo perché sarà fondamentale, per salvarsi in A, poter contare su un organico già collaudato, solido, coeso, con un’identità precisa e un gioco già ben delineato. Sarebbe un vantaggio di partenza non da poco. E in fondo, già venduto Maleh, che era il pezzo più pregiato, non pare si possano fare chissà quali affaroni vendendo qualche altro giocatore. Conviene tenerli tutti e aggiungervi alcune pedine di esperienza, ne basterebbero tre, uno per reparto.

Molto apprezzabile, da parte della società, anche la scelta di continuare a giocare al Pier Luigi Penzo (per la cronaca, non era un calciatore ma un aviatore), pure vecchio, malandato e scomodo, tramontati come sono (giustamente) i folli sogni di grandezza (promesse sempre mai mantenute) di un nuovo stadio in terraferma. Il problema della capienza (7.300 posti attualmente, per la A ne servono 16mila) può non essere un problema. Una deroga (ma solo per un anno, il secondo ti devi adeguare) l’hanno ottenuta la Spal l’anno scorso e lo Spezia quest’anno. L’idea è di alzare quest’anno la capienza a 11mila e il prossimo a 16mila. Si può fare, c’è spazio sufficiente intorno per ampliare e alzare. Basti pensare che negli anni 60 (Bubacco Grossi Ardizzon Tesconi Carantini Frascoli Rossi Santisteban Siciliano Raffin Pochissimo), ci stavano più di 20mila persone al Penzo in serie A. Davvero? Davvero. E come ci stavano? Strettini, a volte, ma ci stavano. Un Venezia-Juventus di quegli anni fece segnare il record di 27.500 spettatori. Davvero? Davvero.

Il prato del Penzo – uno dei terreni migliori d’Italia, con un drenaggio formidabile – è stato calpestato in quegli anni da tipini come Sivori e Charles, Rivera e Mazzola, Corso e Altafini. Non abbiamo vinto scudetti né coppe dei campioni. Solo una Coppa Italia, con Loik e Mazzola (era Valentino, il papà), nel ’40-’41, e un terzo posto, il massimo obiettivo raggiunto, quello stesso anno nel campionato di serie A. Non moltissimo, per carità, per una delle più antiche società italiane (114 anni di vita). Ma che importa. Vuoi mettere la bellezza del pallone che finisce in acqua. “Altrove, un pallone tirato con forza, ma fuori bersaglio, non finisce in mare. In laguna per la precisione. Ma sembra mare, e comunque l’acqua è salmastra. Questa è la sublime bellezza di Sant’Elena, il lato poetico”. Sono sempre parole di Gianni Mura. Sono sicuro che gli sarebbe piaciuto questo giorno, e che gli avrebbe dedicato uno dei suoi cattivi pensieri. In alto i calici.

 

LA PAGELLA

Duncan Niederauer. Voto: 9

Mattia Collauto e Paolo Poggi. Voto: 9

Paolo Zanetti. Voto: 9

Marco Modolo, Riccardo Bocalon e tutti i giocatori del Venezia. Voto: 9

 

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