In morte di un circo

Elegia funebre

Tre anni fa chiudeva i battenti negli Usa il più grande circo del mondo, il Ringling Bros. and Barnum & Bailey, il numero uno dei circhi tradizionali. Adesso si suicida in Canada, per colpa del coronavirus, il capostipite dei circhi contemporanei, il Cirque du Soleil, che a causa dei mancati incassi non ha più i soldi per pagare gli stipendi ai suoi quattromila dipendenti. Con le sue 14 produzioni sparse per il mondo e i suoi 10 spettacoli stabili, era la più grande industria mondiale del divertimento dal vivo. Due storie diverse, quelle del Barnum e del Soleil, ma emblematiche della crisi del più antico e più grande spettacolo del mondo, che l’epidemia ha messo in ginocchio. Ma il circo, come ha sempre fatto, saprà risorgere. Magari in altre forme. L’analisi di Roberto Bianchin.

Quando un’insegna si spegne, che sia di spettacolo ma anche d’altro, è sempre un brutto giorno. La morte del Cirque du Soleil, una delle avventure più affascinanti degli ultimi decenni, è un brutto colpo per chi ama l’incomparabile magia dello spettacolo dal vivo.

Personalmente avevo sofferto di più, esattamente tre anni fa, la morte del Barnum, per la precisione del Ringling Bros. and Barnum & Bailey, il colosso americano fondato dal genio di Phineas Taylor Barnum, il primo grande imprenditore di spettacoli, che nel tempo, con la complicità di James Anthony Bailey e dei fratelli Charles Edward Ringling e John Nicolas Ringling, aveva dato vita al più grande (e per molti anni il più bello), circo del mondo.

C’erano delle differenze, certo. E non da poco. Il Barnum era il campione dei circhi tradizionali, il Soleil il capostipite dei circhi contemporanei, l’inventore di quel fenomeno chiamato “nouveau cirque”, che poi tanto nuovo più non è, dal momento che sono ormai passati quasi quarant’anni dal suo apparire, si è affermato solo parzialmente, e non è riuscito a prendere il posto dei “vecchi” circhi che sia pure a fatica sopravvivono meglio, anche grazie alle dimensioni più ridotte e a un pubblico che vuole ancora vedere gli animali.

Il Barnum è stato ucciso dalla crisi del circo, dalle polemiche sugli animali, dal suo gigantismo ormai fuori moda (tre mega produzioni contemporanee), dall’inadeguatezza di un gruppo dirigente di burocrati da parco di divertimenti, di estrazione non circense, senza passione né entusiasmi. Il Soleil è stato ucciso dal coronavirus, e anche lui dall’incapacità dei suoi proprietari e dal suo folle gigantismo, che non ha permesso di pagare gli stipendi ai 4.000 dipendenti (l’anno scorso erano 5.000), non avendo incassato un euro da cinque mesi a questa parte, con tutti gli spettacoli fermi a causa del virus, e non prevedendo di incassarne nemmeno nei prossimi mesi.

La società proprietaria del Soleil, il fondo americano di “private equity” Fpg, che cinque anni fa aveva acquistato il 90% del circo dal fondatore Guy Lalibertè per la bella sommetta di 1,5 miliardi di dollari (in realtà aveva pagato solo 600 milioni, gli altri erano un debito), ha accusato un passivo di 900 milioni di dollari e ha dichiarato bancarotta. Comprensibile. Nessun incasso. Troppi dipendenti. Troppi spettacoli. Troppe spese. 44 show con il marchio Soleil in giro per il mondo, 14 diversi spettacoli in tournée sotto chapiteau o nei palasport in tutti i Paesi del mondo, 10 spettacoli stabili, tutti diversi, di cui 8 solo a Las Vegas (gli altri a Montreal e New York).

Finché c’era il pubblico, funzionava tutto. Nessun problema. Il piccolo, onirico circo del sole messo in piedi in Canada trentasei anni fa, nel 1984, da due artisti di strada, Guy Laliberté e Gilles St. Croix, un mangiafuoco e un trampoliere, che sognavano un circo diverso, e l’avevano fatto senza animali non per scelta ideologica ma perché non avevano i soldi per comperarli, come gli stessi hanno raccontato, non era più un circo, ma era diventata una grande impresa di spettacoli, leader mondiale nell’intrattenimento dal vivo: 190 milioni di spettatori in 450 città di 60 Paesi del mondo.

Il loro primo spettacolo, “Saltimbanco” (lo vidi l’anno del debutto, a Monaco di Baviera), fu un colpo al cuore. Tolti gli animali, e diversa la pista, circo era circo, chapiteau compreso (elegantissimo, tra l’altro). E anche i numeri, e gli artisti, erano tutti quelli del circo classico. Dagli acrobati ai trapezisti, dai contorsionisti agli antipodisti, dai giocolieri ai filferisti, fino ai clown. Di “nouveau” c’era l’atmosfera: magica, sognante, di una favola. E c’era l’abito: dalle coreografie ai trucchi ai costumi alle musiche, tutte suonate e cantate dal vivo da band strepitose capaci di miscelare musiche barocche seicentesche a strappate violente di heavy metal. Oltre a una graziosissima boutique e a spazi ampi e accoglienti. Un’idea geniale, insomma. Che ha funzionato bene per anni. Al di là delle dispute, più o meno saccenti, se si trattasse di circo oppure no. Circo era di sicuro. Ma un modo diverso di fare circo. A volte vincente, come nel caso del Soleil, altre meno.

Ma la stessa formula del Soleil da qualche anno cominciava a mostrare la corda, come avevano acutamente rilevato alcuni dei loro ultimi direttori artistici. Troppi spettacoli e tutti sempre uguali tra loro, a dispetto dei titoli diversi. Ripetitività, monotonia, una certa leziosità di fondo presente sin dagli esordi, e l’affiorare di un senso di stanchezza, avevano preso il posto della novità, della sorpresa, della brillantezza e della freschezza dei primi tempi. Dopo oltre trent’anni bisognava cambiare qualcosa. Rinnovare, ammodernare, farsi venire qualche nuova idea, non era più possibile continuare ad andare avanti tutta la vita con una sola idea, quella pur vincente degli inizi, ma sempre quella. Il pubblico – e giustamente- ha sempre voglia di novità, è la legge dello spettacolo. E per paradosso, stava cambiando di più il circo tradizionale, che anche sulla spinta della concorrenza del nouveau cirque si apriva a nuovi linguaggi, al teatro, alla commedia dell’arte, alla pantomima, alla danza, allo spettacolo a tema (il circo storico, il circo del Settecento, il circo rock, il circo erotico etc.). E puntava più sulla fama e attrattiva dei singoli personaggi, mentre il Soleil li aveva sempre annacquati nella sua formula di spettacolo “collettivo” quasi nascondendone i nomi in fondo al programma, scritti in caratteri piccoli piccoli che neanche si leggevano. Per capirci, leggende come Moira Orfei, Oleg Popov o Darix Togni, tanto per dire alcuni nomi di artisti celebri, non sarebbero mai diventati delle star sotto il tendone del Soleil, ma sarebbero rimasti artisti anonimi per tutta la vita.

Non c’è stato il tempo, purtroppo, di cambiare rotta. Il Soleil, come il Barnum, continuerà a vivere nei nostri (bei) ricordi. Perché anche se il suo fondatore, Laliberté, se lo ricomprerà, come si sussurra in giro (oggi con un patrimonio stimato di 3,2 miliardi di euro è considerato uno degli uomini più ricchi del pianeta), quel circo non sarà inevitabilmente –e giustamente- più lo stesso. Se non altro perché non c’è più quella spinta, folle e straordinaria, degli esordi, e il circo ha bisogno di anima più che di business.

Penso che chi ama il circo non debba comunque preoccuparsi più di tanto. Faremo al Soleil un funerale allegro come quello di Fischietto nei Clown di Fellini. Nella certezza che il circo, che è il più antico spettacolo del mondo (oltre che il più bello), continuerà a vivere. Magari in altre forme ma continuerà. C’era prima del covid e ci sarà anche dopo. Il circo è sopravvissuto a tutto nella sua lunga e felice storia. Sopravviverà anche a uno stupido virus.

Lo chapiteau del Soleil.

In morte di un circo