L’uomo dei Toulà

Quando Arturo svelò il giallo

Arturo Filippini, inventore della catena dei Toulà, titolare del celebre ristorante trevigiano «Da Alfredo», si è momentaneamente assentato per entrare in altre storie. Oste insuperabile, personaggio goldoniano per simpatia e ironia, era l’ultimo esemplare di una Treviso gaudente e spensierata che non esiste più. Alcuni anni fa aveva avuto un ruolo da protagonista in un romanzo giallo, «Il padrone delle nuvole», scritto da Roberto Bianchin, edito da «I Antichi Editori» e vincitore del Premio letterario «Renato Dall’Ara». In attesa di rivederlo («Non escludo il ritorno», ha lasciato detto), ci piace riproporlo in quella veste, quando interpretò se stesso mettendo chi indagava sulla pista giusta per la soluzione del caso. Buona navigazione, caro amico.

«Arturo ?».
«Presente !».
«So’ Zane Cope…».
«Vecio putanièr, xe ‘na vita che no te sento, dove ti geri finìo?».
La voce di Arturo Filippini, dentro al telefonino, gorgogliava con l’allegria di una pentola di fagioli sul fuoco.
«Dove ti xe, Arturo ?».
«In cusìna, Paolo, so’ drio curàr le sbrise…».
«Ma ti xe a Cortina ?».
«E dove senò? No ti te ricordi che vegno sempre in montagna par le feste, tuti i ani, cossa xe, ti te ga insempià?».
«Alora vegno a trovarte».
«Go proprio vogia de védarte. Quando xe che ti rivi ?».
«So’ za rivà, so’ a Cortina, Arturo».
«Va remengo, che sorpresa, Paolo !».
«Vegno stasera, va ben ?».
«Te speto».
“Bondì, Arturo”.
“Ciao, putanièr”.

Aveva tutte le luci accese il Toulà, Arturo aveva messo le tovaglie rosa pallido, e aveva tenuto per l’avvocato Zane Cope, suo vecchio amico di nottate di fole e di bagordi, il tavolo più grande e più bello, vicino alla finestra, da dove si vedeva il profilo incantato dei monti e il profondo bianco della valle. Zane Cope si era messo un maglione blu e un foularino azzurro.
«Com’è che sta ancora in piedi questa baracca ?», gridò l’avvocato entrando come spinto da un ciclone. Si voltò mezzo Toulà. Arturo, col suo garbo antico, da nobiluomo di campagna, aveva trasformato il vecchio fienile di assi di legno scuro in un piccolo tempio pagano dedito al culto della tavola imbandita e all’arte sublime del far passare il tempo, in cui si era consacrato maestro, discettando dei fatti della vita e delle corna degli altri.
«Mi venga un colpo, sei da solo ?», gli andò incontro Arturo saltellando fra i tavoli.

Era un uomo bruno, robusto, pochi capelli rimasti intorno alle tempie, gli occhi grandi e tondi che quando non ridevano beati sorridevano sornioni. Vestiva uno smoking molto classico, dal taglio impeccabile, e bofonchiava in un curioso idioma mezzo italiano e mezzo trevigiano che non tutti capivano di primo acchito, bisognava farci l’abitudine. Arturo era un teorico della prevalenza della terra trevigiana, la «marca gioiosa et amorosa», come aveva scritto in rosso su un tazebao in legno di larice appeso, con la dignità di un altarino, alla parete in fondo al locale. Arturo diceva che non c’era un altro posto uguale al mondo dove si coniugassero meglio, come accadeva nella provincia di Treviso, i molti piaceri dell’esistenza. Tutti, indistintamente. E per tutti i gusti. Anche i più stravaganti.

«Vecio bandito, come va ?», lo abbracciò Zane Cope.
«Di corpo, bene», rispose Arturo, serissimo. Non aveva mai saputo resistere al gusto della battuta, e quanto più era impertinente, tanto più lo divertiva. Non era cambiato molto con gli anni.
«Tu piuttosto -lo guardò- è quasi un secolo che non ti vedo, come te la passi ?».
«Resisto eroicamente».
«Fai sempre l’avvocato ?».
«Ogni tanto».
«Bravo -Arturo gli appioppò una vigorosa pacca sulle spalle, di quelle che avrebbero steso un toro da monta- e a puttane, come stiamo? Com’è che sei da solo qua a Cortina, durante le feste, con tutta la figa che c’è in giro? Cos’è, ti sei rammollito o hai traghettato anche tu sull’altra sponda? Non dirmi che hai scoperto il culo alla tua età? Può fare degli strani scherzi, sai..”.
“Ma no, Arturo, sono qui per lavoro”.
“Una volta trombavi anche quando lavoravi, come faceva Clinton, il vecchio Bill, che non sapeva mai dove infilarlo…Ah, si vede proprio che sei invecchiato, Paolo…beh, te li farò passare io i pensieri del lavoro, vieni…”.

Arturo lo accompagnò al tavolo, accese le candele e sparì in cucina accennando un paso doble. Tornò dopo cinquanta secondi esatti accarezzando il collo a una bottiglia di Venegazzù riserva speciale.
«Per celebrare i bei tempi», disse. E baciò il sughero del tappo.
«Il conte Loredan…», sorrise Paolo guardando l’etichetta rossa e nera col corno dogale disegnato.
«Quel mato, ti te lo ricordi ?», disse Arturo annusando il culo del tappo.
«E come no ? Che fine avrà fatto ?».
«E chi lo sa ? Sparito! Scomparso! Disperso! E da la sera a la matina. Sensa dir gnente, sensa lasiàr un mesàgio, sensa far ‘na telefonada, gnente…i ga dito ch’el xe andà in Sudamerica…par fortuna che ‘l vin xe restà qua…».
«Già».
«Cin cin».
«A noi».
Cenarono insieme mangiando di tutto e bevendo di più. Zane Cope volle assaggiare i porcini in insalata, disse di sì al risotto con la zucca (“Cristo, Arturo, come lo faceva la nonna”), non seppe rinunciare alla zuppa di radicchio e fagioli, gradì la faraona con la «pearada», non rifiutò un’ala di germano reale «in tecia» e finì per intingere dei biscottini croccanti e zuccherati in una scodella calda e gialla di uno zabaione nato denso come la nebbia di novembre a Treporti. Per amalgamare il tutto furono costretti a tirare il collo a un quartetto di bottiglie. Sempre Venegazzù.

Brindarono al «mato» Loredan e alle armi che aveva sepolto nel giardino della sua villa quando voleva fare la rivoluzione nazimaoista, ricordarono gli amici che non c’erano più e quelli che venivano ancora, evocarono Cibotto e Comisso, Zanzotto e Parise, Maffioli e Boccazzi, Visentini e Naldini, Ballista e Figallo, il conte Guarneri e il barone Franchetti, e ricordarono, ridendo selvaggiamente, l’ultima volta che si erano visti, alla festa d’addio per il Toulà di Ponzano, quando avevano cantato e bevuto, ballato e raccontato storie per tutta la notte, e avevano fatto il bagno nudi nelle vasche di tutte le stanze. Si raccontarono di un mondo che non c’era più, di una gaiezza, di una spensieratezza, di una voglia di vivere e fare scherzi e mattane che sembrava scomparsa, che non vedevano più intorno a loro. Parlarono di quando tutto era più semplice, ma era anche più elegante, era semplice e elegante, mai volgare, come adesso, di quando si giocava con la fantasia, si scherzava con la notte, si viveva con garbo, si inseguiva la dolcezza, si rincorreva la raffinatezza, si odiava l’urlo ma si amava il furore, e la poesia raccontava il dolore e la letteratura l’avventura. Così dicevano, parlando di loro e qualche amico. Con un pizzico, ma non troppo, di nostalgia.

«Com’è cambiato il mondo, Paolo, ci sono giorni che faccio fatica a riconoscerlo», disse Arturo. Nella sua voce c’era come un sospiro.
«Non so cos’è successo, non lo so Arturo, forse siamo noi che siamo invecchiati…Forse è solo il tempo che è passato. Forse è il mondo che è cambiato…». Arturo non disse niente e scomparve di nuovo. Tornò, stavolta erano passati meno di cinquanta secondi, con una bottiglia tonda di vetro verde scuro. Dom Perignon. Arturo coprì l’etichetta con la mano, Zane Cope chiuse gli occhi e indovinò l’annata al primo colpo.
«La più prestigiosa», disse Arturo, soddisfatto.
«Non avevo dubbi», esclamò Zane Cope.
Brindarono alla memoria di un vecchio amico, Alfredo Beltrame, lo facevano ogni volta che si trovavano, sempre alla fine della cena, sempre con champagne francese, e sempre in silenzio, non servivano parole per ricordare Alfredo a chi gli era stato amico, a quelli come loro.

«Senti, Arturo…», disse Zane Cope, accendendosi molto lentamente l’immancabile Havana con un fiammifero da cucina. Ormai se n’erano andati già tutti dal locale, fuori la notte era buia e senza stelle.
«Dime, vecio».
«Tu che vedi passare il mondo qui davanti ai tuoi fornelli, dì, hai presente il senatore Zerbini ? Sai, quello che hanno ucciso in chiesa, qui a Cortina, qualche giorno fa…».
«Poarèto, che bruta fine ch’el ga fato…ti stai occupando del caso ?».
«Già».
«…Uhm, come pestare una merda».
«Lo conoscevi ?».
«Di vista. Veniva qualche volta, ma non spesso, quest’anno non mi sembra di averlo mai visto».
«Senti, sto cercando un suo amico, non so come si chiama, è un uomo anziano, calvo, che deve avere una mano finta, di legno, perché la tiene sempre coperta da un guanto, un guanto scuro, anche d’estate…».

«Ostia, il generale !».
«Un generale ?».
«E’ un generale in pensione, un fascistone, mi pare che si chiami Spanò, no, Ardigò, insomma, qualcosa del genere, lui sì che viene spesso, viene con un gruppo di amici, tutti piuttosto anziani, sì, sì, qualche volta è venuto anche col senatore, mi sembra, ma negli anni scorsi…».
«Un fascistone, hai detto ?».
«Mah, l’aria ce l’ha, e poi, quando viene con i suoi amici, e fanno tardi, e ogni volta mi prosciugano la cantina, li sento che si divertono a cantare le vecchie canzoni del fascio…te le ricordi, no ? Faccetta neera, bell’abissiina…insomma, tirano fuori tutto un repertorio così e vanno avanti per ore…io li lascio fare, che vuoi, che m’importa ?, tanto i clienti, a quell’ora, se ne sono andati già tutti…».
«Sai per caso dove abita ?».
«Vive qui, in paese. Sta al campeggio».
«In campeggio?».
«Eh, si vede che gli piace la vita spartana, all’aria aperta. Ha una roulotte, la tiene fissa tutto l’anno, lui viene estate e inverno, gli piace andare a pesca, in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo, è un fascistone ma è simpatico, ed è un grande esperto di vini».

«Non so come ringraziarti, Arturo».
«Ma va là, mona, per così poco…vieni a trovarmi più spesso, piuttosto !».
«Lo farò».
«Quanto ti fermi a Cortina ?».
«Di preciso non lo so, ma di sicuro ancora qualche giorno».
«Ti aspetto allora».
«Ci puoi contare».
“Ciao, putanièr”.
“Ci si vede, Arturo!”.

(Roberto Bianchin, «Il padrone delle nuvole», I Antichi Editori 2017, Premio Letterario «Renato Dall’Ara» 2018. Per gentile concessione).

www.iantichieditori.it

Arturo Filippini (fonte: pressreader.com)., Il Toulà di…

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