Passami i dimafoni
ma fai presto che
ho pochi gettoni

Un anniversario molto speciale

Il quotidiano La Repubblica ha compiuto quarant’anni. Il primo numero del giornale fondato da Eugenio Scalfari uscì nelle edicole il 14 gennaio del 1976. Nel frattempo è cambiato il mondo ed è finita un’epoca. Roberto Bianchin, inviato speciale di Repubblica per ventitré anni, ricorda con affetto e comozione gli anni degli inizi, i riti, i personaggi, i vizi e le virtù del mestiere, ma soprattutto le lezioni di vita.

Quarant’anni sono un tempo che può ammazzare ogni ricordo. Cancellarlo, quantomeno. Destinarlo all’oblio. Oppure sbiadirlo. Modificarlo. Stravolgerlo, persino. Quarant’anni nella vita di una persona sono un tempo lungo. E significano molto. Nel bene e nel male.

Quarant’anni nella vita di un giornale sono un’epoca. Al quotidiano La Repubblica, che quest’anno ha tagliato il traguardo dei suoi primi quarant’anni (nacque il 14 gennaio del 1976), non è rimasto quasi più nessuno dei giornalisti (ma anche dei tecnici e degli impiegati), che la fondarono, e che contribuirono, con le loro penne e le loro intelligenze, a farla nascere e poi a farne un giornale di successo. Un’esperienza unica nel panorama dell’editoria.

Non c’erano i computer e non c’erano i cellulari, quarant’anni fa. Si scriveva su fogli di carta battendo i tasti di macchine per scrivere, e se non si era in redazione, dal telefono a gettoni di un qualche bar si dettava il pezzo ai dimafonisti del giornale, un’altra specie scomparsa (il computer su cui sto scrivendo sottolinea in rosso questa parola, non la conosce…), i quali lo trascrivevano per trasmetterlo a loro volta ai tipografi che lo trasformavano in righe di piombo (attento, proto…) da mettere in pagina. Non c’era neanche una tecnologia. Eppure il giornale usciva lo stesso tutte le mattine. E, secondo alcuni, era anche migliore di quello di oggi.

Repubblica è stata la mia vita e la mia casa. Il mio lavoro e i miei affetti. Eugenio Scalfari il mio Barbapapà, come lo chiamavamo in redazione. Mi assunse senza alcuna raccomandazione, gli bastava aver visto come scrivevo, e alcuni anni dopo (sei), mi nominò inviato speciale, qualifica che tenni per ventitré anni, fino al giorno del prepensionamento, nel 2010, frutto dello stato di crisi che investì il mondo della carta stampata. Al polso porto ancora l’orologio, un Baume & Mercier d’oro, che ci fu regalato nel 1986, per i primi dieci anni del quotidiano. Dopo trent’anni continua a funzionare perfettamente.

Il mio primo articolo per Repubblica l’avevo scritto nel 1976, due mesi dopo l’uscita del giornale. Ero stato chiamato a Repubblica da Pino Nicotri, che poi fu brillante inviato dell’Espresso. Lui stava a Padova e per Repubblica doveva occuparsi del Nord Est. Siccome il Nord Est è grande e lui non riusciva a seguire tutto, mi chiese di dargli una mano da Venezia, dove vivevo. Ci eravamo conosciuti anni prima collaborando per alcuni giornali veneti. Intanto avevo trovato un lavoro fisso, da capo cronista, presso un quotidiano di Venezia, Il Diario. Per Repubblica feci il corrispondente da Venezia per cinque anni, poi venni assunto in pianta stabile da Scalfari, e non cambia più giornale.

Per i trentaquattro anni che ho lavorato per Repubblica, da Venezia, da Bologna, da Milano, da città e paesi d’Italia e qualche volta anche del mondo, è come se avessi avuto due cognomi. Come se mi fossi chiamato Bianchin de Scheroditz, che poi era il cognome di mia nonna materna, piemontese di Cavour, maestra elementare. Per tutti io ero, semplicemente, Bianchin di Repubblica. Sempre e nient’altro che Bianchin di Repubblica. Un marchio stampato a fuoco. Un logo. Una griffe. Così mi chiamavo anche da solo, quando mi presentavo alle persone e mi annunciavo al telefono. E per molti che continuano a mandarmi le loro mail anche se non lavoro più da sei anni a Repubblica, sono ancora Bianchin di Repubblica. E la mia mail è ancora r.bianchin@repubblica.it

Ne vado fiero. A Repubblica devo tutto e a Repubblica ho dato tutto. Da Repubblica ho imparato tutto. Da Eugenio Scalfari, e da tanti colleghi, noti e meno noti, dal caporedattore degli esordi, il leggendario Franco Magagnini, a quello degli ultimi tempi, il generoso Filippo Azimonti. Ho imparato tutto del mestiere ma anche tutto della vita. Ho imparato soprattutto le cose più importanti. Ho imparato a camminare con la schiena diritta. Sempre. Ho imparato a guardare negli occhi le persone. Ho imparato a essere me stesso. A difendere le mie opinioni e a rispettare quelle degli altri. A non piegarmi. Ho imparato la dignità e l’orgoglio. Il rispetto. Il valore dell’amicizia e il senso della passione. L’entusiasmo e il gioco di squadra. Il gusto della libertà, dell’indipendenza e della sfida.

Retorica? Sarà pure. Ma quello che ho scritto è tutto vero. Repubblica mi ha preso da ragazzo e mi ha trasformato in un uomo. Piano piano, con pazienza, un giorno dopo l’altro. Questo è successo. E ora che sono vecchio, fuori dai giochi, mi sento solo di dirle grazie. Grazie per ogni cosa. E tanti auguri per i quarant’anni, ma soprattutto per il futuro. Mi sa che ce ne sarà bisogno.

www.repubblica.it

Il primo numero della Repubblica

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